L'inferno secondo James Nachtwey
Andrea Criscenti
“Per me si va per la città dolente, per me si va tra la perduta
gente”: ha scelto questo verso di Dante il reporter James Nachtwey
per introdurre le foto della sua ultima pubblicazione, che non poteva
che chiamarsi Inferno. Americano, fotografo dagli anni
Settanta, dal 1986 membro dell’agenzia che ha fatto la storia del
fotogiornalismo, la Magnum Photos, James Nachtwey appartiene a quella
tradizione di reporter che vive la fotografia come una vocazione, una
scelta estrema, una presa di posizione a fianco a chi vive le grandi
tragedie dell’umanità nel ruolo di vittima. Nella convinzione che
ritrarre il male senza sconti sia il primo necessario atto per
combatterlo. “L’utilità di ciò che faccio - dice - è nel
lanciare un appello al resto del mondo, nel creare un impeto che renda
possibile un cambiamento nella pubblica opinione e la pubblica
opinione si fa attraverso la consapevolezza. Ecco, il mio lavoro è
aiutare a creare consapevolezza”.
Una speranza ben riposta. Le foto di Nachtwey sono infatti molto
potenti, dure. Dure da guardare, ma ancor più dure da ignorare o
scordare. Ora sono a Roma le immagini di questo “inferno all’ordine
del giorno”, nella mostra James Nachtwey: l’occhio
testimone, aperta fino al 25 giugno presso il Palazzo delle
Esposizioni e organizzata dallo stesso museo in collaborazione con l’agenzia
Contrasto. La rassegna ripercorre i venti anni di attività del
fotografo, con 139 scatti. Quelli a colori, con cui il reporter
cominciò, e quelli in bianco-nero, tecnica ora prediletta, perché,
come spiega, “permette un maggior controllo sul contenuto dell’immagine”,
rendendo le immagini più dirette.
Che siano dirette è la prima qualità che Nachtwey pretende dalle sue
fotografie. Perché, quanto più sono dirette, tanto più riescono a
rappresentare cosa siano la fame, la violenza, la malattia e
soprattutto la guerra, negli esseri umani che ne hanno esperienza.
Se ne accorse da giovane, negli anni invasi dalle immagini che
raccontavano la guerra del Vietnam. Lo colpì il carattere immediato
della fotografia, che proprio perché saltava la ricostruzione
storica, politica, militare, dei reportage filmati, permetteva
di rappresentare cosa fosse quella catastrofe nei singoli individui.
“Io voglio registrare la storia attraverso il destino di individui.
Io non voglio mostrare la guerra in generale, né la storia con la 's'
maiuscola, ma piuttosto la tragedia di un singolo uomo, di una
famiglia”. Per questo - come è stato notato - il protagonista delle
sue immagini è il corpo umano, che Nachtwey coglie come il
concretissimo scenario di ogni catastrofe, non esitando a riprendere
cadaveri abbandonati dalla guerra, soldati colpiti in trincea, corpi
mutilati, orrendamente feriti, devastati dalla fame e dalle malattie.
Da vero fotogiornalista, Nachtwey lavora principalmente per far
conoscere gli eventi che fotografa nei giorni stessi in cui avvengono.
Non pensa ai suoi scatti per esibirli in mostre o pubblicarli in
volumi. Tuttavia riconosce a questo uso della fotografia una funzione
non meno importante, quella di entrare nella memoria collettiva, come
una sorta di terribile archivio visivo. La parte di questa tremenda
collezione esposta a Roma è divisa in undici sezioni. Quasi tutte
sono dedicate ad una regione specifica, in una sorta di grande
geografia delle peggiori catastrofi umane degli ultimi anni.
Ci sono i teatri di guerra, Afghanistan, Uganda, Sri Lanka, Sudan,
Bosnia, Cecenia, Ruanda, che Nachtwey ha raccontato in prima linea.
Gli orfanotrofi in Romania, dove sopravvivono, spesso colpiti dall’AIDS,
migliaia di bambini abbandonati, innocenti vittime della folle
politica demografica di Ceausescu. Ci sono le foto dei violenti
conflitti razziali del Sudafrica nel travagliato percorso verso la
fine dell’apartheid. Le immagini della fame e delle pestilenze in
Somalia e Sudan e quelle dell’efferata guerra tribale, combattuta a
colpi di lama, tra Hutu e Tutsu in Ruanda. Tra cui il famoso primo
piano del giovane Hutu segnato dalle cicatrici di macete che gli valse
- non unica volta - il World Press Photo. E ancora i conflitti
etnici nei Balcani, Bosnia e Kosovo. Ma “l’occhio testimone” di
Nachtwey guarda anche in casa, negli Stati Uniti. Sono immagini di
violenza urbana e di carcerati costretti in catene o ai lavori
forzati, in ossequio a quei primitivi regimi detentivi rispolverati
dalla “tolleranza zero”.
Nachtwey non è un semplice reporter, ma un grande fotografo, un vero
autore. Le sue immagini sono sempre attentamente composte, calibrate,
con ogni elemento disposto a ragione. E’ il frutto di un lungo
tirocinio autodidattico, fatto di intere giornate passate nelle
librerie a sfogliare volumi di Cartier Bresson, Eugene Smith, Don
McCullin, Josef Koudelka e di un’ottima conoscenza della storia
della pittura. E certo nei suoi scatti non mancano riferimenti
pittorici, come a Goya, primo tra i pittori a rappresentare la guerra
senza tinte epiche, come una tragedia umana e quotidiana.
Tuttavia non bisogna intendere la perfezione compositiva delle foto di
Nachtwey come una pura ricerca formale. L’assoluta padronanza nella
composizione e nell’uso del colore e del bianco-nero, non è mai
fine a se stessa, ma è invece ciò che rende possibile la massima
intensità espressiva e comunicativa. Più che belli, i suoi scatti
sono straordinariamente potenti.
Sono venti anni che Nachtwey frequenta i più atroci luoghi della
sofferenza, tuttavia le sue immagini non hanno nessun segno di una
raggiunta familiarità con l’orrore. Nel suo sguardo continua ad
esserci una sgomenta partecipazione fatta di rabbia, compassione,
angoscia. Le foto di speranza sono poche e hanno protagonisti, quasi
sempre, i bambini. Bambini in Sudafrica che saltano su un tappeto
elastico, non curanti del cielo tempestoso all’orizzonte. Bambini
che si arrampicano sul cannone di un carro armato, riuscendo nel
miracolo di trasformare la guerra in un gioco.
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