Gli uomini e il divino 
           
           
           
          Sebastiana Papa con Marina Misiti 
           
           
           
          Da Gerusalemme con amore. Da questa città simbolo, vicina e lontana,
          “porto di mare in riva all’eternità”, come l’ha definita
          Yehuda Amichai, arriva al Teatro Argentina nel cuore di Roma, dal 7 al
          28 febbraio, una mostra fotografica di Sebastiana Papa dal titolo: Incontri
          a Gerusalemme. Gli uomini e il divino. 
          Cinquanta foto in bianco e nero realizzate nell’arco di quattro
          autunni, dal ‘96 al ’99, con una Leica Mp3 al collo e la solita
          voglia di andare al “fondo” delle cose. Per un’artista come
          Sebastiana Papa, attenta scrutatrice di vite e di anime, da oltre
          trent’anni in giro per il mondo dove fotografa ed espone i suoi
          lavori, si è trattato di “firmare” con la luce un’altra
          coraggiosa e difficile ricerca: l’esperienza del mistero in
          Terrasanta. 
           
          Dopo “Orgosolo”, duro e appassionato lavoro fotografico sulla
          Sardegna di oggi e del ‘66, quella dei rapimenti e della diffidenza,
          ma anche dell’innata ospitalità, da poco raccolto in un libro
          (Edizioni Fahrenheit 451), ecco un’altra esperienza forte, “controcorrente”,
          difficile e anche per questo ancora più preziosa: documentare l’incontro
          personale con il trascendente, mostrare quanto questo sia possibile a
          tutti, donne, uomini, bambini. Possibile soprattutto in una città
          simbolo come Gerusalemme, luogo d’incontro e scontro delle tre
          grandi religioni monoteiste. 
          Un rapporto con il divino che non si riduce ai rituali religiosi, alle
          preghiere private, ma che pervade la vita di tutti i giorni, i momenti
          di festa e quelli dedicati allo studio.
            
           
          “La trascendenza è questa - dice Sebastiana Papa - non è solo Dio,
          è anche dell’umano nell’umano”. Una professione di laicità, la
          sua, che sembra però costituire l’unico modo possibile per fare
          davvero esperienza del mistero, del divino, per viverlo senza
          retorica. 
          Così, nonostante l’afa di fine estate, vestita “per rispetto”
          con una lunga gonna blu, calze nere pesanti, maglietta a maniche
          lunghe e collo alto, fazzoletto in testa, la fotografa gira la città
          in lungo e in largo, mimetizzata. “Mi parlavano direttamente in
          yiddish”, racconta. E spiega così la sua filosofia: “La
          fotografia nasce soltanto se c’è comunicazione tra me e la persona
          che sto fotografando. Questo rapporto però può essere solo
          paritario, invece in mano io ho un mezzo di potere, la macchina
          fotografica. Per comunicare allora devo annullare questo potere”. Ha
          le mani occupate, Sebastiana Papa, nel momento in cui fotografa, non
          può usare la parola, rimangono allora solo l’aspetto e quelle che
          chiama le sue “energie corporee”. Attraverso queste si racconta
          per permettere all’altro, a sua volta, di raccontarsi. E’ così
          che nascono le sue magiche e intense fotografie. Non immagini rubate,
          quindi, ma condivise. 
           
          Immagini che a detta del grande narratore israeliano, David Grossman,
          sprigionano “quel che è impossibile vedere nella frettolosa
          quotidianità”. 
          Le giovani donne davanti al muro del pianto, i ragazzi in festa, i
          poveri e gli emarginati diventano altro, si aprono davanti agli occhi
          della fotografa che riesce così a svelare quei piccoli, preziosi “semi
          d’eternità”, quelle tracce invisibili ai più, quelle emozioni
          che soltanto un grande artista è capace di trasmettere. 
           
          Se la preghiera - ebraica, cristiana, musulmana - fa da filo
          conduttore per queste immagini, la città, Gerusalemme, con le sue
          luci e le sue ombre, è però la vera protagonista di questo viaggio
          dove le differenze tra ebrei, cristiani e musulmani sono pervase da un
          unico senso religioso, da una sola esperienza sacrale. 
           
          A questa mostra si accompagna, sempre dal 7 al Teatro Argentina in
          prima assoluta europea, la rappresentazione di Possesso, una
          pièce teatrale scritta da quello che viene oggi considerato il più
          interessante scrittore israeliano vivente, Abraham B. Yehoshua. Una
          piccola tragedia ironica e pungente con al centro la figura di una
          donna, di una madre interpretata da Franca Valeri con la regia di Toni
          Bertorelli. 
           
          Si tratta del testo più autobiografico e personale che Yehoshua abbia
          mai scritto. “Mio padre era morto da poco, era l’83, ed eravamo
          tutti invasi da un senso di colpa enorme - ricorda il romanziere
          israeliano - comunque adesso quando ho riletto il testo l’ho trovato
          a tratti davvero esilarante. Una messa in scena in chiave comica della
          vicenda è importantissima, per restituirne la natura liberatoria”. 
           
          Un dibattito, infine, organizzato con la collaborazione dell’ambasciata
          israeliana, è previsto per il 13 febbraio alle 17 nel foyer del
          teatro Argentina: vedrà riuniti la scrittrice israeliana Judith Rotem,
          l’architetto Paolo Portoghesi e monsignor Giuseppe Liberto, Maestro
          della Cappella Sistina, per affrontare la spiritualità nelle tre
          grandi religioni di Gerusalemme. Si parlerà in particolare di
          sentimento religioso nella letteratura israeliana, di preghiera e
          canto nella tradizione cristiana e di spiritualità islamica nell’architettura. 
           
           
         
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