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Brand. New



Daniela Mecozzi




Brand.New, la grande mostra che si concluderà a Londra domenica 14 gennaio, è del tutto insolita per il Victoria & Albert Museum  il più grande museo di arti decorative del mondo. Con un paio di eccezioni, non presenta infatti oggetti preziosi o artisticamente interessanti, si propone invece come un’esplorazione del mondo dei marchi e di come questi influiscano sul valore del prodotto. Curata da Jane Pavitt e Gareth Williams, Brand.New è organizzata da Thomas Heatherwick, uno dei più interessanti designers del momento.


Brand.New, che significa completamente nuovo, è un titolo appropriato per una mostra che intende, come sottolinea la Pavitt, “rompere con la tradizione di presentare designer e prodotti di successo.”

Data la forte connotazione teorica del tema, il disegno dell’itinerario della mostra si è posto come uno strumento essenziale per comunicare ai visitatori che, continua Pavitt, “questa mostra è una sintesi teorica del fenomeno delle marche e delle griffe.” Perciò la scelta del designer è stata cruciale. L’iniziale diffidenza di Heatherwick nei confronti di questo tema ha costituito un importante elemento per lo sviluppo dell’idea originale.


Il rischio maggiore era quello che la mostra proponesse prodotti e marchi che vediamo ogni giorno nei negozi o sui media “in maniera meno efficace.” Da qui la sua decisione di Heatherwick di adottare un approccio diverso e ‘low-tech.’ Il risultato finale è quello di una mostra divisa in quattro sezioni che riesce a presentare prodotti e concetti promozionali in contesti che sintetizzano con efficacia l’approccio teorico dei curatori.

Questo è evidente nel disegno della prima sezione, una vasta sala vittoriana trasformata in un ‘campo’ degradante e uniforme di migliaia di fotografie di marchi e prodotti provenienti da tutto il mondo. Sostenute da sottili steli di acciaio, e identiche nel formato, a dispetto dell’‘importanza’ del prodotto, queste foto costituiscono quello che Heatherwick definisce ‘un’area ad alta densità.’


È una suggestiva interpretazione del potere e suggestione dei marchi che sono qui presentati con occhio disincatato. Queste non sono infatti immagini nuove e patinate, ma documenti di come vengono ridotti nella realtà i cartelloni o i volantini pubblicitari, in modo che l’usura del tempo e degli elementi sia messa bene in evidenza. Se la quantità numerica di queste immagini suggerisce il bombardamento continuo cui siamo tutti sottoposti, la loro natura effimera è evidenziata dal bianco del loro retro. Basta solo voltarsi e la miriade di colori, volti, sigle e testi scompare lasciando un panorama uniforme.

L’adozione di un formato unico per le immagini a dispetto dello status individuale dei prodotti è stata intenzionale. L’intento, spiega Heatherwick, era quello di “presentare queste migliaia e migliaia di marche che ci circondano come una miriade di puntini e creare con questi una nuova immagine.

Attraversato il ‘campo,’ la mostra prosegue con una breve storia dell’origine e fortuna di marche divenute parte integrante della cultura contemporanea come la Coca Cola. Conclusa l’introduzione al tema della mostra, l’itinerario propone “Individualising the Brand’. Questa sezione contiene un’interpretazione del modo in cui le case produttrici costruiscono i marchi contemporanei. A simbolizzare l’approccio dei curatori, il loro voler svelare sette segreti o trucchi del mondo della promozione, sono sette container nei quali sono racchiuse una dopo l’altra sette ‘personalità’ o valori utilizzati nella promozione: Authenticity, Authority, Friendly, Status, Loyalty, Irreverence e Conscience.


Con ironia Heatherwick adotta qui numerosi riferimenti all’iconografia medica, religiosa e mitologica. Ad esempio nel container Authenticity, dove un paio di Levi’s originali vengono presentati sopra una sorta di altare circondato da lumini accesi. Il riferimento è alla religiosa devozione per l’articolo originale i cui singoli componenti, dalle borchie ai bottoni, sono tutti stampati con il marchio di fabbrica.

Nella sezione successiva, “Branding the Individual”, la prospettiva è ribaltata. In una sala completamente oscurata si stagliano nove di strutture circolari. Al centro di ognuna di queste è posto un monitor che trasmette, filmate, le opinioni di gente comune. Le strutture sono state ideate da Heatherwick come ‘larghe ruote fatte rotolare attraverso il mondo dei marchi di fabbrica.’ Lo scopo, spiega la Pavitt, è quello di mostrare persone che parlano dei marchi esposti nella prima sala. Eppure la loro percezione è spesso diversa se non completamente opposta al modo in cui le aziende produttrici vorrebbero che i loro prodotti, e i valori ad essi associati, venissero percepiti. La conclusione dei curatori è che, a dispetto di tutti gli sforzi e i capitali promozionali investiti, i messaggi pubblicitari falliscono il più delle volte.


Questa conclusione è messa in evidenza nell’ultima sala, “Subverting the Brand”, dove giganteschi contenitori di pasticche esibiscono prodotti contraffatti provenienti da tutto il mondo. Questi per Heatherwick sono i soli antidoti al ‘potere dei marchi.’ Posti l’uno accanto all’altro, in un contesto neutrale ed egalitario, prodotto originale e imitazione non sono poi così diversi. Anzi, la manipolazione del logo, il suo uso per creare slogan provocatori, risultano molto spesso molto più interessanti dei prodotti ‘originali.’

Il tema della sovversione conclude l’itinerario di Brand.New in modo appropriato. Questa è realmente una mostra che rompe con la tradizione espositiva del Victoria and Albert Museum e apre la strada per un approccio critico del prodotto d’uso e consumo moderno. Il successo dei curatori e del designer è quello di presentare il mondo dei marchi di fabbrica in maniera originale, ironica e suggestiva e non semplicemente polemica.




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