Caffe' Europa
Attualita'



Il Terrorismo, la guerra e il valore del sapere

Gli attentati dell’11 settembre a New York e Washington hanno modificato la nostra ordinaria visione del mondo, hanno portato dolore, morte, danni economici, hanno suscitato indignazione, hanno provocato una necessaria reazione armata degli Stati Uniti e degli alleati. In poche ore siamo stati costretti a ripensare molte cose della nostra vita quotidiana, per molteplici aspetti (economici, sociali, politici, religiosi, psicologici etc.). È un momento in cui occorre determinazione e sapienza nella risposta, ma è anche un momento di sconcerto per milioni di persone.
Reset ha chiesto a studiosi di varie discipline di riflettere sul loro sapere e di dirci quale contributo ritengono di poter comunicare in modo che sia utile a tutti, per superare lo sconcerto, per orientare la ragione, per aiutare la collettività a dare il massivo vigore all’uso pubblico della ragione. Su questo numero speciale di Reset www.reset.it ospitiamo i contributi di studiosi ed esperti delle discipline del sapere; dalla filosofia al diritto, dalla sociologia alla storia delle religioni, dall’economia alla politica, il sapere ci si presenta come occasione di riflessione per trovare risposta alle domande e per porre nuovi interrogativi.
Vogliamo chiamare anche i lettori di Caffé Europa e di Reset ad offrire un loro contributo, scrivendo a specialereset@libero.it, per cercare di ragionare insieme sulla realtà che stiamo vivendo e sugli sviluppi che ne possono nascere.

( Hanno collaborato: Elisabetta Ambrosi, Stella Bianchi, Mauro Buonocore, Clementina Casula, Ettore Colombo, Ilaria Favretto, Ingrid Fuchs, Michela Gentili, Barbara Iannarella, Chiara Rizzo.)

 

 

Serve un piano Marshall contro il terrorismo
Daniele Archibugi*

La caduta del muro di Berlino doveva aprire una fase della politica mondiale fondata sulla legalità, la democrazia e la cooperazione tra i popoli. Bisogna impedire che la caduta delle Torri gemelle non chiuda questa fase di speranza. Occorre uno sforzo politico, etico e culturale gigantesco per conseguire questo risultato.
Tutti noi comprendiamo pienamente che i nostri fratelli e sorelle americani si sentano oggi più insicuri, più vulnerabili e, soprattutto, profondamente offesi nella loro vita civile. Bisogna rendere esplicito che non è in corso una guerra del mondo contro gli Stati Uniti, ma al contrario una guerra del mondo civile contro un gruppo isolato d’esaltati assassini.
Quando il numero delle vittime è ancora incerto, oggi la preoccupazione principale riguarda il futuro. Il nostro futuro non è nelle mani di gruppuscoli di terroristi senza nome, ma in quelle di un Presidente eletto democraticamente, di organi istituzionali (Parlamento, Corte Suprema, ecc.), i quali negli Stati Uniti agiscono di fronte ad un’opinione pubblica che dispone di un accesso istantaneo all'informazione. A loro ci dobbiamo appellare affinché il mondo intero non ricada nelle barbarie della lotta di tutti contro tutti.
L’obiettivo politico dei terroristi è uno solo: riportare il pianeta in una sfera di paura, di diffidenza, di lotta tra civiltà e culture diverse. Se vogliamo veramente sconfiggere i terroristi, dobbiamo opporre una visione del mondo fondata sulla trasparenza, la fiducia, il confronto tra le civiltà.
Noi europei possiamo svolgere un ruolo molto importante. Siamo culturalmente vicini al popolo americano, e geograficamente ai popoli arabi. Se oggi vogliamo aiutare il popolo americano, dobbiamo riuscire a tramutare la sua (e nostra) legittima collera in azioni politiche che non siano solo repressive e di breve periodo, ma anche costruttive e durature. Siamo tutti consapevoli che non si risponde al terrorismo con il terrorismo, ma poi, paradossalmente, ben pochi prendono posizione quando si sente il Ministro della Difesa della democrazia americana "non escludere" l'uso di armi atomiche. Che cosa sarebbe l'atomica se non una risposta terroristica, e con conseguenze più indiscriminate e letali, agli atti di terroristi stessi? Come mai i governi europei non hanno immediatamente ribattuto chele armi atomiche sono inutili per combattere il terrorismo, ma che invece occorrono le indagini, le polizie, i tribunali?
Come europei, dobbiamo oggi far riemergere la migliore tradizione democratica del popolo americano, non metterci a ad applaudire ogni volta che sono mostrati i bicipiti.
Negli anni successivi alla Seconda Guerra mondiale, gli Stati Uniti hanno agito con grande saggezza nei confronti dei nemici del giorno prima. Dopo aver liberato l'Europa dal fascismo, hanno deciso di punire i responsabili con il Tribunale di Norimberga piuttosto che con la rappresaglia. Ma hanno anche pensato anche al futuro remoto, contribuendo in maniera decisiva a rimuovere le cause della dittatura che si era affermata in Germania, Italia e Giappone. Le istituzioni democratiche di molti paesi europei devono molto al fratello americano. Tramite il Piano Marshall, gli Stati Uniti hanno aiutato la ricostruzione economica, condizione essenziale per il progresso delle istituzioni democratiche.
Oggi ci vuole oggi una reazione ugualmente coraggiosa, un vero e proprio Piano Marshall contro il terrorismo, al quale partecipino tutte le nazioni civili, e il cui onere sia sostenuto dai paesi più ricchi.
Molte persone stanno discutendo su quali siano le azioni efficaci per snidare e punire i colpevoli. Spero solo che si trovino i diretti responsabili, e che questi possano il prima possibile essere portati di fronte alla giustizia, di fronte ai parenti delle vittime. Spero allo stesso tempo che non ci siano vittime innocenti raggiunte dai proiettili e dalle bombe dei paesi democratici solo perché si trovano incolpevolmente e inconsapevolmente accanto ad un terrorista.
Mi permetto invece di indicare le azioni necessarie volte ad estirpare le basi sociali del terrorismo.
Far entrare in vigore immediatamente la Corte penale internazionale, cui affidare il compito di giudicare in modo trasparente e imparziale gli individui responsabili di crimini contro l’umanità, inclusi i reati di terrorismo.
Creazione di una Polizia internazionale, a disposizione dell’istituenda Corte penale, dotata di intelligence sofisticata, volta a individuare le basi operative del terrorismo.
Rafforzare i poteri della Corte di giustizia internazionale per valutare l’operato degli stati e la loro connivenza con il terrorismo. In particolare, richiedere alla Corte di giustizia un parere giuridico prima che il Consiglio di Sicurezza dell’ONU decreti la legittimità dell’uso della forza contro gli stati.
Impegno della comunità internazionale al fine di risolvere il conflitto tra Israele e Palestina.
Interventi finanziari al fine di eliminare i campi profughi, dove le inumani condizioni di vita agevolano il reclutamento dei terroristi.
* dirigente Cnr

 

 

No alle semplificazioni
Laura Balbo*

La «domanda» verte sul possibile contributo di ciascuno (per come in questi giorni elabora gli avvenimenti dell’11 settembre: e questo lo facciamo tutti, sia dentro di noi, sia verso gli altri) per «superare lo sconcerto, orientare la ragione, aiutare la collettività a dare il massimo vigore all’uso pubblico della ragione». Io penso sia essenziale aggiungere a queste un’altra finalità: quella di «contrastare le semplificazioni».
Il mondo della politica e il mondo dei media hanno ragioni ben ovvie, e comprensibili, che portano a «semplificare»; ed è a questo che abbiamo assistitito. Ma proprio a questo «gioco» non voglio stare, a questa modalità non detta ma così generalmente condivisa, che ha scelto di offrire, in questa tremenda circostanza, una risposta di rassicurazione e semplificazione.
Non accetto, né come «intellettuale» né come «europea»,  la prevalente lettura readymade che ci viene somministrata, non accetto questo compatto coro di interpreti (troppo sicuri e rapidi) di avvenimenti complessi. Come intellettuale, perché se riconosco a politici e gente dei media le irrinunciabili ragioni del loro semplificare, rivendico il diritto di non fare altrettanto (nei confronti almeno di alcuni interlocutori,i  miei studenti per esempio; in alcune situazioni di dibattito più approfondito e vigile; e in ogni caso in questi momenti, ancora tanto provvisori, imprecisi). Come «europea», perché di fronte a eventi di portata davvero mondiale (anche nel nostro immaginario: quando mai prima ci era successo di avere davanti agli occhi nello stesso momento lo spazio da New York a Kabul, la folla dolente nello Yankee Stadium e le migliaia in preghiera nelle moschee dell’Afganistan, la sofferenza e la paura e anche la rivendicazione di identità sia degli uni che degli altri) non posso non tener conto del fatto che sono «collocata»(positioned: il termine inglese è quello che mi appare più preciso e utile) in questa parte  del mondo -l’Europa, l’Occidente- e non in un’altra; e che comunque si tratta, «the west and  the rest», occidente o islam, di «costruzioni»: costruzioni sociali e culturali.
Dunque di fronte alla macchina di semplificazione che si è messa in moto : appunto Occidente e Islam, noi  vittime e loro terroristi e  fanatici, noi che siamo legittimati a definire gli eventi per tutti,  noi da cui dipendono le sorti del mondo il contributo che si dovrebbe dare è di modestia, umiltà. Alcuni, certo non tutti, di questo sentono la mancanza: e se non fossimo, ancora una volta, in grado di prevedere e di capire; se tutto di nuovo ci sfuggisse, poiché davvero la complessità degli eventi mette in scacco la razionalità e la possibilità di «governo» ?
Di fronte a tutto questo, provare ad essere intellettualmente poco arroganti, segnati da ambivalenze e dubbi, e capaci di reggere la non-semplificazione: è un contributo utile?
*Sociologa

 

 

Non è un fantasma senza volto
Oliviero Bergamini *

 “Niente sarà più come prima”, si è sentito ripetere in questi giorni. Purtroppo, non è così. Certamente, a livello emotivo e simbolico l’attacco alle torri gemelle e al Pentagono rappresenta una novità sconvolgente, perché per la prima volta nella storia gli Stati Uniti sono stati colpiti in modo così drammatico sul loro territorio nazionale. La loro aura di invulnerabilità è stata squarciata, e il senso di smarrimento che anche molti europei hanno provato per questo testimonia la capillarità con cui l’idea della “diversità” americana è penetrata nelle coscienze.
Indubbiamente, inoltre, gli attentati hanno posto il mondo di fronte a una realtà inquietante: il fatto che all’interno della nostra opulenta e compiaciuta società possano agire organizzazioni terroristiche animate da un fanatismo irriducibile rispetto ai valori “civili”, e capaci di sfruttare abilmente un misto di tecnologia “bassa” (i coltellini usati nel dirottamento, i contatti personali che sfuggono ai sistemi di sorveglianza) ed “alta” (i simulatori di volo con cui i dirottatori hanno certamente provato più volte lo schianto sulle torri gemelle.)
Queste novità, tuttavia non vanno estremizzate; non devono degenerare in una psicosi, far pensare ad una nuova “era dell’insicurezza”.
Gli analisti militari, da tempo consideravano il terrorismo internazionale una minaccia prioritaria. Esso ha una genesi, una storia, strutture e modalità di azione che per quanto complesse sono ricostruibili, e contrastabili utilizzando metodi adeguati. Non è un fantasma senza volto, una creatura indistinta e demoniaca da combattere con una crociata. È un fenomeno complesso e ramificato, ma come ogni altro, umano, materiale, articolato in reti finanziarie, operative, logistiche che possono essere colpite con un lavoro sistematico e razionale.
Soprattutto, la “guerra contro il terrorismo” non deve diventare l’occasione per ripetere errori di politica estera e militare devastanti. In che cosa può consistere la “new war” proclamata da Bush ? Bombardamenti di civili innocenti in Afghanistan e Iraq? Improbabili azioni via terra? Il rovesciamento di un regime – quello dei Talibani – che gli Stati Uniti hanno contribuito a creare, da sostituire con un altro governo fantoccio ?
Le stragi dell’11 settembre dovrebbero stimolare un ripensamento complessivo della politica americana, e indirizzarla verso un approccio più razionale, informato, consapevole della grande complessità degli elementi in campo, rispettoso delle sensibilità e degli interessi dei popoli islamici. Solo questo, accanto a un riorientamento complessivo dell’intelligence, potrebbe davvero rappresentare un duro colpo per il terrorismo. Se negli ambienti militari la sindrome del Vietnam è ancora presente (ma il cambiamento generazionale nelle forze armate ne sta gradualmente indebolendo il ricordo), in quelli politici essa pare praticamente scomparsa. Dopo la guerra del Golfo e la caduta del muro di Berlino, gli Stati Uniti sembrano di nuovo pervasi da una ottusa convinzione di poter “fare giustizia” su scala globale; uno strano senso di onnipotenza, cui fa da schizofrenico contraltare il nuovo senso di insicurezza e vulnerabilità. E così tornano scene già viste per tutto il corso della Guerra Fredda; una leadership politica che usa un linguaggio assurdamente totalizzante (“giustizia infinita”), che assume unilateralmente impegni di portata mondiale; che si crea da sé un problema di credibilità ed è poi costretta a procedere sulla strada di un intervento militare tanto massiccio quanto incerto negli obiettivi; che semplifica scenari estremamente complessi e rischia di sopravvalutare le forze effettive del “nemico”; che identifica i propri interessi con quelli del mondo. Tutto questo, non appare cambiato dopo gli attentati dell’11 settembre; e le conseguenze rischiano di costituire la maggiore vittoria del terrorismo.


* docente presso l’Università di Bergamo, si occupa di storia politica e militare degli Stati Uniti . 

 

 

Cambia la logica del confronto
Giorgio Bogi

La sinistra è di fronte ad una fase di politica internazionale che sarà lunga e richiederà scelte e passaggi difficili. Dopo l’attentato dell’11 settembre la popolazione ha bisogno di precisi orientamenti, di fronte ad una condizione di incertezza, di paura, che non ha precedenti negli anni recenti della nostra storia. Il primo punto politico, allora, è che non c’è molto spazio per sottili distinguo, per atteggiamenti prudenti, o per furbizie. Serve invece ancorare il proprio atteggiamento politico ad una posizione di grande chiarezza per poter esprimere un ruolo di guida, di chiaro orientamento, appunto, che altrimenti sarà svolto dalle forze della destra,  e con esiti forse meno rassicuranti.
Per farlo occorre individuare il senso dell’attacco portato dal terrorismo internazionale, l’11 settembre. Colpiscono, in quel che è avvenuto, la spietatezza, la ferocia e la barbarie. Colpisce la portata eccezionale dell’attentato alla sicurezza, alle regole di base della convivenza civile, ai valori, anche economici, del mondo cosiddetto occidentale. Ma ad una riflessione razionale non può sfuggire che il significato che si svela dietro il salto di qualità compiuto dal terrorismo è la disarticolazione di ogni tentativo di stabilire delle regole condivise di governo della situazione mondiale. Un problema che non riguarda solo gli Stati Uniti e i loro alleati, né riguarda solo l’Occidente o le democrazie.
Il vero attacco è quello portato alle uniche regole politiche conosciute su cui può attuarsi la speranza di governo della situazione mondiale: quello che si cerca di fondare anzitutto attraverso l’Onu, pur con tutti i suoi limiti, attraverso organismi internazionali (Bce, Fmi, …) ma che passa altresì attraverso altre organizzazioni sub-mondiali, a cominciare dall’Unione Europea.
Nel momento in cui ci si confronta, anche duramente, sugli effetti della globalizzazione e sulle regole per governarla; nel momento in cui si cerca di prendere atto del fatto che la diffusione e la condivisione dei benefici della globalizzazione richiedono forti interventi di riequilibrio a favore delle aree più deboli del mondo, il terrorismo, questo terrorismo, cambia la logica del confronto, esponendo al rischio di inaridire ogni terreno di dialogo razionale.
Di fronte a questo tipo di attacco, e di pericolo, l’errore che la sinistra non deve commettere è quello di rimanere incastrata nella morsa tradizionale del condizionamento “pacifista” e di quello “anti-americano”.
Se la risposta necessaria deve essere tesa a ristabilire la superiorità di un confronto basato su regole condivise, non si possono avere pregiudiziali rispetto al ricorso ad un intervento, certo non di vendetta, ma comunque commisurato alla sfida e all’obiettivo di ricostruzione delle regole e delle relazioni. Non è la guerra per difendere i nostri confini, o i nostri consumi, ma lo spazio di una speranza comune alla grande maggioranza dei paesi del mondo.
Le regole disarticolate dal terrorismo non coincidono con quelle imposte da una “politica imperiale”, ma hanno la loro legittimazione appunto come strumento disponibile di governo della situazione mondiale: e per questo andranno rese sempre più efficaci. Il pregiudizio “anti-americano” nel caso specifico non ha senso: gli Stati Uniti possono aver commessi degli errori (e molte omissioni sono state commesse da noi europei) nel governo delle crisi mondiali. Ma non è questo che oggi può guidare le decisioni. L’attacco alle Torri di New York genera una oggettiva destabilizzazione che colpisce tutti: a cominciare dai paesi che possono riporre solo in una soluzione, diciamo razionale, dei problemi mondiali, cioè basata su regole, le speranze di crescita e di riequilibrio delle risorse.
E questo è un contributo della nostra cultura democratica.
Di fronte a questa sfida, la ratio effettiva della risposta non è neppure la punizione dei colpevoli, ma la difesa di uno spazio razionale di discussione e di soluzione dei problemi mondiali, entro il quale i conflitti anche più duri possano essere formalizzati e depurati della loro carica di violenza. È questo, più che il connotato di barbarie diretta, che costituisce l’effettiva legittimazione della lotta senza cedimenti al terrorismo.

*parlamentare ds

 

 

Europa, due volte colpevole
Giampaolo Calchi Novati*
 
Quale che sarà l’impiego effettivo dei mezzi che sono stati esibiti come se si trattasse di una parata militare e dei 100 e più paesi i cui governi hanno compiuto l’atto rituale del riconoscimento dell’“impero”, sarebbe un torto per il carattere virtualmente illimitato della globalizzazione supporre che una chiamata alle armi e una mobilitazione di queste proporzioni, all’intersezione delle linee della geopolitica del futuro fra Medio Oriente, Asia centrale e Cina, in cui conta soprattutto il modo di collocarsi nel mercato, fra cooptazione e marginalità, sfuggano alle regole generali e rispondano a motivazioni contingenti, per quanto drammatiche e senza precedenti. È singolare che siano proprio i cultori della Realpolitik, quelli che la praticano per interesse e quelli che la invocano per paura di apparire obsoleti, a non cogliere i fatti nella loro sostanza evocando i conflitti di ieri e miti abusati come l’“antiamericanismo”. A confronto, è più aggiornato Berlusconi con la sua tanto deprecata esternazione sull’arretratezza e illiberalità innata dell’Islam, visto che una simile raffigurazione corrisponde ai pregiudizi di una fetta della cultura politica e soprattutto ai sentimenti e alle paure di vasti settori dell’opinione pubblica in Italia e in Europa, disorientati dalle trasformazioni in atto e insicuri della propria condizione.
Fra Est-Ovest e Nord-Sud il mondo dell’ordinamento bipolare, dotato di un suo equilibrio, era articolato lungo frontiere “ideologiche” che in qualche modo attraversavano i singoli paesi. Nel “nuovo ordine mondiale” proclamato da Bush padre non solo non v’era più posto per la dimensione Est-Ovest, essendosi dissolto il presupposto dell’esistenza (e della “minaccia”) di nazioni o forze politiche “antisistema”, ma anche la dimensione Nord-Sud perdeva di nettezza dal momento che nessuna “rivoluzione” avrebbe più trovato sbocchi credibili e solidarietà in uno dei due vertici del sistema. Si era veramente chiusa una fase storica: la confrontazione globale in un mondo diviso. Le conseguenze del collasso del blocco sovietico non si fermavano alla scomparsa dell’antagonista degli Stati Uniti, gettando le basi dell’egemonia dell’unica superpotenza superstite, garante dell’unica forma “lecita” di accumulo e distribuzione. Ferma restando la priorità assoluta della regione petrolifera, proprio gli Stati dell’Est europeo sono assurti a principale terreno di conquista del capitalismo, il boccone più succoso dell’allargamento dei mercati rovesciando alla lettera l’esclusione di Urss e “satelliti” decretata nel 1946-47 per incompatibilità con le regole del “mondo libero”. E che destino aspettava la volontà di indipendenza che i popoli e intanto le élites dei paesi dell’Asia e dell’Africa fuoriusciti dal campo coloniale per effetto della decolonizzazione avevano coltivato e parzialmente soddisfatto anche grazie al riferimento politico e comportamentale, poco importa se reale o nominale, che offrivano il non-allineamento e i modelli non-capitalisti?
Si poté intuire come si sarebbe assestato il sistema mondiale quando nel 1990, senza soluzione di continuità con la fine della guerra fredda, gli Stati Uniti - per “punire” Saddam Hussein reo di aver invaso il Kuwait - dislocarono da Est a Sud l’armamentario militare e propagandistico che era servito per il “contenimento” dell’Urss e del comunismo. Nell’ottica dell’Occidente, deciso a difendere i propri privilegi con tutti i mezzi, era comprensibile il timore che l’accesso a beni che considera di sua spettanza ovunque si trovino potesse essere ostacolato dall’inevitabile turbolenza della transizione o dalle ambizioni dei ceti civili o militari emergenti con lo sviluppo. Non ci sono differenze sostanziali con le dinamiche della guerra scatenata da e contro Milosevic. Non sempre la “posta” ha un nome e cognome in chiaro come quando c’è aria di petrolio. Titolari di un dominio incontrastato, gli Usa possono scegliere gli avversari “giusti” conferendo un’apparenza di Idealpolitik all’affermazione e espansione del loro strapotere. Per colmo d’ironia, con la crisi temporanea o irreversibile dei progetti di liberazione di portata universale, l’opposizione a quello che si può ben chiamare “imperialismo”, a condizione di non pensare che sia lo stesso dell’Inghilterra vittoriana, ha la  tendenza a rifugiarsi in politiche autoritarie o identitarie che danno solo l’illusione di placare le frustrazioni diffuse. Le guerre non sono pagate solo dai “mostri” che vengono via via costruiti ad hoc, e che spesso sono solo gli scarti della strategia precedente. Il “terrore” è una componente essenziale della normalizzazione in atto: “colpirne uno per educarne cento”, come recita una massima un tempo molto in voga. Se mai, Bush e Clinton hanno convocato al proprio fianco gli alleati, che, anche loro, dipendono dalle medesime risorse e sfruttano una stessa rendita di posizione. Ciò che la Casa Bianca non è disposta a sopportare - e che può impedire o con l’unilateralismo abbozzato da Bush figlio nei primi mesi di presidenza o con l’arruolamento di tutto il mondo (neppure più della sola Nato come avvenne per la Jugoslavia) sotto la bandiera a stelle e strisce - è un’Europa che, mentre l’America svolge i compiti del gendarme, si rafforzi a sua spese stabilendo rapporti di buon vicinato con le aree in via di sviluppo o di liberalizzazione (i Balcani, il Medio Oriente, la stessa derelitta Africa).
L’apocalisse a New York e Washington, da questo punto di vista, ha colmato la misura. È bastato mostrare in ogni telegiornale per due settimane le terribili immagini delle due Gemelle di Manhattan in fiamme per avvolgere il mondo in una nebbia di retorica e imporre una specie di unanimismo obbligato. Questa volta forse la messinscena della preparazione è più importante del seguito. Nel calore e furore della battaglia, infatti, è forte il rischio che sorgano di nuovo perplessità, distinguo e resistenze. Anche in Europa, dove, Gran Bretagna a parte, l’esercizio della potenza “civile” è più consona agli interessi delle singole nazioni che non l’uso insistito della sanzione militare con l’ostentazione di fini etici (la giustizia infinita, il Bene contro il Male) e risultati sempre più simili a quelli di un’operazione coloniale di tipo classico (occupazione del territorio, istituzione di costosi protettorati, sostituzione delle leaderships in carica con dei “collaboratori”). Ma saranno soprattutto i governi arabi e musulmani che patteggiano con gli Stati Uniti ad essere più vulnerabili, realizzando paradossalmente il solo obiettivo razionale che si intravvede dietro gli attentati, ammesso che il nemico invisibile sia Osana bin Laden o qualche altra scheggia della nebulosa islamistica.
La forza di cui dispone l’Occidente è tale che esso, come insieme di paesi definiti ma anche come idea o metafora, è ormai una realtà oggettivamente “diversa” dal resto del mondo o “superiore” (ancorché non nel senso delle rozzezze di Berlusconi). Sta in questa sua grande forza la maggiore responsabilità dell’Occidente. Probabilmente gli Stati Uniti ne sono consapevoli. Ma si limitano a tingere di “moralità” la loro strategia totalizzante, comprese le guerre per correggere i propri errori o le deviazioni dei propri protetti. Doppiamente colpevole l’Europa, che nella sua passiva mediocrità non osa proporre qualcosa di più “inclusivo”. I “progressi” della politica mondiale promossi o promessi dall’Occidente – uno scenario che ha a che vedere con la globalizzazione ma che non è solamente la internazionalizzazione dei mercati e della comunicazione riguardando anche temi come l’ordine e la giustizia - sono sempre lì lì per produrre un salto di qualità ma per il momento gli spazi di libertà per chi, nazione o classe sociale (non necessariamente i poveri), non appartiene al blocco vincente sono angusti e addirittura disperanti. Dopo tutto, il liberalismo non ha mai trasferito, nemmeno concettualmente, il suo apparato ideale e normativo sulle formazioni non liberali (e lo dimostrano il colonialismo e le guerre coloniali, il razzismo, l’apartheid).
L’Occidente - o almeno l’Europa - è in grado di credere finalmente ai principi che predica contrapponendo il diritto alla violenza e la pace alla spirale delle guerre nella periferia o semiperiferia di cui anche il “centro” è parte attiva già da prima dell’11 settembre? Nonostante la visibilità che, anche al di là delle semplificazioni del citatissimo Huntington, assumono in pressoché tutte le crisi i richiami alla fede o alle civiltà e tradizioni dei due opposti fondamentalismi, il problema è essenzialmente storico, frutto del divenire e non della stasi o del determinismo, trattandosi di ricomporre in una storia di tutti e per tutti le storie diverse ma intrecciate e reciprocamente contaminate che i vari popoli hanno vissuto o credono di aver vissuto.

*Storico. Insegna Storia dell’Africa alla facoltà di Scienze politiche dell’Università di Pavia  

 

           

 

Da quale punto di vista?
Marina Calloni*

La potenza simbolica, l’impatto socioeconomico, la valenza politica e le reazioni individuali che l’attacco alle Twing Towers hanno avuto sull’opinione pubblica, non può che aver segnato un profondo solco nella memoria collettiva, spingendo ad un’immediata risposta bellica. Da ormai tre settimane non si fa che parlare di altro e la nostra vita collettiva è cambiata. Diventa allora quasi imbarazzante trovare “argomenti originali” rispetto al molto o al troppo di cui si è già detto. In effetti, sono più le domande di fondo che vanno poste, piuttosto che le certezze: dove si dirigerà ora la storia? Come poterci riorientare? Cosa ci aspetta? Ma vi è un problema specifico: da che punto di vista mi posso porre, per “giudicare” quanto accaduto?
In realtà l’attuale sfera pubblica, mondialmente diffusa, ha cancellato quell’antico privilegio che era riservato al sapere degli specialisti come opinion makers. Inoltre sono state le immagini stesse ad aver indotto tale cambiamento: si è potuto tanto vedere, quanto partecipare in diretta alla devastazione e alla morte di migliaia di persone. Telecamere, soprattutto amatoriali, hanno contribuito a togliere il mistero dell’attacco terroristico e hanno invece impresso la certezza. Se non esiste più quel ristretto pubblico di lettori, che stavano alla base dell’idea di sfera pubblica illuminista, teorizzata da Kant, cosa significa allora fare un “uso di massa” della “ragione pubblica”? Ma com’è possibile procedere, a partire da se stessi, ben consapevoli che non sempre si può parlare in nome della comunità, del partito, della chiesa o di che altro, e ben sapendo che le nostre parole saranno praticamente inefficaci rispetto a ciò che è in atto? Che senso ha sottoscrivere appelli, che in questi ultimi giorni si sono esponenzialmente moltiplicati, soprattutto via Internet? Che cosa significa essere pacifisti, quando, di fatto, una guerra “nuova e silenziosa” è già iniziata?
Difficile appare il compito di isolare un solo elemento della questione e impossibile appare anche la possibilità di affrontare l’accaduto nel suo insieme, poiché le diverse angolature prospettiche possono anche confliggere. Diversa è, infatti, la prospettiva se consideriamo la vicenda dal punto di vista, economico, finanziario, politico, oppure se l’affrontiamo dal punto di vista del “pubblico” e della “gente comune”. Eppure questi aspetti sono perlopiù complementari. La globalizzazione non può, infatti, che essere “glocale”, poiché i suoi effetti – finanziari e politici – coinvolgano le nostre singole vite, anche a migliaia di chilometri di distanza: dai parenti delle persone uccise, a chi ha perso soldi negli investimenti in borsa, fino a chi – da parti opposte – si sta preparando ad offrire la propria vita per la “patria” e i valori in cui si crede. Questa “nuova guerra”, che per ora è territorialmente circoscritta, in realtà è già totale: ognuno può essere vittima del terrorismo e tutti gli stati – per ragioni politiche e religiose – ne sono coinvolti. Tutti possono dunque diventare possibili attori o vittime di atti terroristici o di attacchi bellici in relazione ad una stessa causa scatenante. Tutti sono pertanto “direttamente interessati” al dibattito pubblico mondiale.
Al proposito, vorrei però sottolineare un ulteriore aspetto, ovvero come l’idea stessa di ragione pubblica e di politica sia cambiata, proprio in relazione a ciò che è accaduto e al coinvolgimento di una diversificata sfera pubblica mondiale, interessata a più livelli all’evento. Per il ricercatore diventa allora necessario elaborare nuovi strumenti concettuali e strategie analitiche per comprendere più adeguatamente la nuova logica di un discorso politico e pubblico di tipo “glocale”, proveniente sia dalle sfere istituzionali, sia dal basso. Dobbiamo dunque individuare similitudini, differenze, ma anche contaminazioni fra le diverse culture e le contrastanti dialettiche argomentative.
Dobbiamo tra l’altro rivedere i nostri stessi “pregiudizi culturali”, come ad esempio il modo in cui dipingevamo il fondamentalismo islamico, frutto di contraddittori processi di decolonizzazione, della definizione bipolare dell’ordine del mondo e della sua successiva deflagrazione. È infatti un fenomeno post-moderno che col medioevo ha ben poco a che fare. Nonostante le apparenze, ha infatti assorbito concetti occidentali, fra cui l’idea di individuo e di razionalità strategica. Si pensi alla disponibilità e all’abilità nel fare gli investimenti di borsa, per finanziare atti terroristici. Si guardi all’attacco alle torri: i kamikaze erano giovani che avevano fruito di una buona educazione tecnica e avevano assunto abitudini di vita americane, avendo lì abitato per anni. E pur tuttavia questa “integrazione” era finalizzata alla sua stessa distruzione: offrire da martiri la propria vita in nome di Allah, pensando di avere in cambio la felicità nell’aldilà. Si pensi inoltre alla connessione fra la perizia di volo e l’abilità nell’usare apribottiglie per minacciare e sgozzare i piloti, prendendone il posto. E pur tuttavia i registi del terrore sembrano interpretare “sentimenti di base”. Viceversa, non potremmo capire ciò che intendeva dire quel giornalista pakistano (uno dei pochi che aveva intervistato Usman Bin Laden), quando all’intervistatrice occidentale aveva risposto che non vi era nulla da meravigliarsi se Bin Laden era diventato un eroe per molti islamici: rappresentava i loro sentimenti di opposizione contro gli Stati Uniti che continuano a imporre i loro modi di vita, e che nello stesso tempo non sono intervenuti per difendere dalla morte molti loro correligionari, a partire dai palestinesi.
Indubbiamente i poteri forti (intelligence bellica e finanza) hanno ritrovato una loro legittimazione politica nell’attacco militare, concepito come necessaria azione di risposta ad una violenza subita, cancellando con ciò ogni differenza. In questo rinato clima di tensione e confusione, cosa possono fare i ricercatori? Possono contribuire a far meglio comprendere la situazione presente, a patto però che affinino il proprio bagaglio analitico e concettuale, accomiatandosi da precedenti luoghi comuni ideologici. Oltre alle nuove logiche del terrore (in Italia sappiamo però che si può vivere la normalità anche in situazioni di “leggi eccezionali”), bisogna saper decifrare meglio i messaggi del dissenso, contenute nelle nuove identità collettive, tanto in Occidente, quanto in Oriente. La forza non può coprire l’opposizione. In senso pragmatico, significa usare i proprie expertise per offrire nuovi strumenti d’analisi ad una società modificata, sviluppare ricerche “cross-borders” e concepire la cooperazione internazionale non solo in termini economici, bensì come finalizzata allo sviluppo delle capacità umane, fondato sul rispetto dell’integrità psicofisica della persona. I diritti umani non sono solo da intendersi come la carta votata nel 1948 all’Onu; non sono solo un prodotto occidentale, voluto da Paesi vincitori. Nascono piuttosto come pretesa di giustizia dall’esperienza della violenza, dalla necessità di darsi procedure democratiche per evitare l’arbitrio. Ma tale interesse inizia là dove si lavora: nella ricerca e nel confronto con gli studenti, che – come dimostrano molte indagini recenti – riescono sempre meno ad individuare un piano di formazione per la propria vita, in altre parole a concepire l’idea stessa di futuro e avere desideri di trasformazione sociale. La ragione pubblica nasce infatti dagli ambiti concreti della vita quotidiana, dal confronto fra le differenze e dalla prospezione di un diverso futuro: solo allora si potranno individuare gli spiragli per una democrazia cosmopolitica.  
*Docente di Filosofia Politica e Sociale, Università degli Studi di Milano-Bicocca

 

 

Saper distinguere
Luciano Canfora*

L’idea che avete avuto mi sembra molto utile, oltre che non ovvia.. Mi chiedete  di riflettere sull’utilità della disciplina che pratico (la filologia) rispetto allo “sconcerto” che è calato su tutti in conseguenza dell’ultima crisi. Può giovare quella pratica disciplinare? Credo di si, nonostante la Filologia sia considerata abitualmente disciplina remota e addirittura a-politica.
La brevità è d’obbligo, e  sarò telegrafico. Dico spesso ai miei studenti che uno degli usi della filologia è la capacità di leggere criticamente un giornale, di porsi sempre il problema:  chi ha dato notizia e perché? Su quale fondamento? Quanta parte di essa è determinata dal luogo in cui essa appare? Il principale esercizio critico per non essere travolti e ridotti ad automi è saper distinguere tra notizia, propaganda, manipolazione, invenzione. Imparare ad ogni passo a distinguere il fatto dal racconto del fatto. Questa aiuta a tenere fredda la mente, a non diventare cittadini-oggetti.
* Filologo

 

 

Non dimentichiamoci dei “diritti umani”
Paola Cavalieri*

Di fronte ai fatti terribili che hanno sconvolto New York, dopo la naturale reazione emotiva di rabbia, di pietà per le vittime e di ansia di fronte al crollo di una visione del mondo, possiamo, io credo, fare appello alla ragione nelle sue varie forme.
Come ragione teoretica, essa può ovviamente aiutarci a comprendere quanto è accaduto. Può per esempio farci capire che, al di là del loro impatto emotivo, il generico riferimento al "terrorismo" e la tesi di una contrapposizione tra civiltà sono spiegazioni insoddisfacenti: il primo perché vacuo, in quanto il concetto di terrorismo, come quello di guerra, si riferisce ai mezzi usati, e non dice nulla sugli agenti e sugli scopi; e il secondo perché tautologico, in quanto, invece di spiegarli, si limita a riproporre i fatti. In questa luce, un'interpretazione che appare assai plausibile, in quanto sembra rendere razionalmente conto degli avvenimenti, è la tesi di Eric Hobsbawm secondo cui dietro l'attentato alle Twin Towers si celerebbe non un generico odio contro l'Occidente, ma il concreto obiettivo di un'organizzazione clandestina di destabilizzare gli attuali equilibri di potere nelle aree petrolifere a controllo islamico, a vantaggio dei paesi e dei gruppi di potere legati all'integralismo religioso. Questa operazione farebbe leva da un lato sul malcontento e sul sentimento panarabo di vaste aree di popolazione musulmana sfruttate tanto dal predominio occidentale quanto dalle proprie classi dirigenti, e dall'altro sulla possibilità che la reazione americana abbia un effetto deflagrante per i regimi cosiddetti "moderati".
Se questa ipotesi ha senso, quello che suggerisce la ragione pratica di tipo prudenziale, cioè finalizzata al raggiungimento dei propri obiettivi, sembra essere di non compiere gesti che offrano ai movimenti integralisti dei singoli stati musulmani un'occasione per costringere i propri regimi a sottrarsi all'attuale rete di alleanze, o addirittura per rovesciarli, e di programmare nel contempo politiche economiche atte a migliorare il tenore di vita delle classi più diseredate, cominciando così a correggere quella pratica di "scambio ineguale" che costituisce un fattore di povertà per gli stati del terzo mondo.
Quanto all'aspetto forse più importante, ossia a quella ragione pratica di tipo morale che mira ad implementare principi di giustizia, si può dire che esso rappresenti anche il punto più difficile, perché notoriamente l'ambito della politica estera è più refrattario della sfera istituzionale interna all'influenza di vincoli di carattere etico. E tuttavia, sembra che, se si vuole andare oltre ad una forma - in parte problematica - di giustizia retributiva, ci sia qualcosa che deve essere tenuto fermamente presente. Si tratta di quell'insieme di principi che costituiscono la massima acquisizione etica della civiltà laica sviluppatasi in alcune specifiche aree del mondo, e che si raccolgono nella dottrina universale dei diritti umani - una dottrina così potente da contenere in sé, come ho sostenuto altrove, la possibilità di un'estensione ad individui non-umani.
In questo caso, tenere presente i diritti umani vuol dire per lo meno due cose. In primo luogo, per quel che riguarda i mezzi utilizzati - dato che le fonti ufficiali da cui possono provenire violazioni dei diritti umani non sono solo regimi e governi, ma anche istituzioni come gli eserciti - significa non violare direttamente tali diritti, colpendo popolazione innocente. In secondo luogo, per quel che riguarda i fini perseguiti - sulla base dell'idea rawlsiana che una delle funzioni dei diritti umani consista proprio nel determinare i limiti della sovranità statuale - significa favorire per quanto è possibile la sostituzione di regimi antiegalitaristici e discriminatori (si pensi al trattamento delle donne in Afghanistan) con sistemi istituzionali egalitaristici ed equi. E ciò perché, come ha giustamente sottolineato Alain Finkielkraut, l'idea occidentale che il benessere, la libertà e la vita di ogni individuo abbiano lo stesso valore e debbano essere egualmente garantiti, non può rimanere una prerogativa dell'Occidente.
* Eticista

 

 

Bastava seguire l’odore dei soldi
di Giulietto Chiesa *

Quello che sta succedendo cambierà radicalmente anche il modo di fare giornalismo. Tutti i giornalisti e gli operatori dell’informazione dovranno elevare molto il livello della loro capacità critica e autocritica ed evitare di farsi prendere in giro dalle “bugie di guerra”. Ci saranno meno informazioni e dunque i giornalisti dovranno essere più corrivi e capaci di aggredire il potere, come per esempio hanno dimostrato di essere in Unione Sovietica, quando il potere non dava o riduceva al minimo informazioni e notizie su quello che stava facendo. Infine, e ci tengo molto a dirlo, i giornalisti dovrebbero riscoprire l’elemento etico della loro professione: gli imbecilli – di tutte le etnie, religioni e latitudini – prosperano anche e soprattutto sulla base delle notizie “false e tendenziose” che verranno loro distribuite. Sarebbe importante cercare di spezzare questa catena.
Quello che è successo non è qualcosa d’altro o di diverso da noi, ma un pezzo del nostro mondo che è impazzito. Vorrei dire tre cose. La prima è che è “nel nostro mondo” che vivono i terroristi, uomini disposti a tutto e con una terrificante voglia di disciplina e di fanatismo, ma che sono uomini molto più “occidentali” e “occidentalizzati” di quanto pensiamo. La seconda è che noi occidentali abbiamo costruito un mondo troppo diseguale per poter vivere in pace. L’Occidente ha cercato di imporre il suo marchio di fabbrica a tutto il mondo e gli Stati uniti in particolare si sono convinti di poter imporre il loro modello all’intera umanità, come se stesse per nascere un “secolo americano”. Che totale follia. Come può pensare 1/6 del pianeta di poter imporre la sua volontà a tutto il mondo? La terza cosa che voglio dire è che se è vero che tutta la gioventù del mondo vorrebbe vivere a New York, cosa succederà se le genti del mondo non possono o non vogliono vivere come a New York?
Come è possibile, ad esempio, cercare di occidentalizzare la Cina, un miliardo e mezzo di persone, da parte di un mondo occidentale che non arriva a 800 milioni? Come si può pretendere tanto?
È vero, il fondamentalismo islamico è stato usato dagli Usa per abbattere l’Urss, ma è molto più antico dell’America e dello stesso Occidente. Del resto, è tutto l’Islam che, inferiore per tecnologia, è di certo più profondo e più radicato per pensiero e per cultura del nostro mondo. In ogni caso, la tesi dello scontro di civiltà è grave e pericolosa: decisivo sarebbe invece riconoscere la pluralità del mondo, la sua diversità attraverso rapporti internazionali giuridicamente regolati con leggi che valgono per tutti e non attraverso la legge del più forte, come pretendono gli Usa. La comunità internazionale ha invece a disposizione poteri deboli e risibili, come si vede dal silenzio dell’Onu.
In Afghanistan, dove ora sto per tornare, sono stato l’ultima volta  in febbraio-marzo ed ho avuto la netta sensazione che il regime dei Talebani fosse in grave difficoltà. Prima di allora c’ero stato nel 1996 e la cosa che mi aveva impressionato di più era proprio questa: il Paese viveva nelle stesse, misere e terribili, condizioni nelle quali lo avevo lasciato, un Paese dunque raso al suolo sia dal punto di vista morale che materiale. Il consenso per il regime dei Talebani è via via scemato, anche i rapporti con il Pakistan si erano deteriorati da tempo, quelli con gli americani erano già interrotti. Inoltre, la resistenza dell’Alleanza del Nord, guidata da Massud, si faceva via via più insidiosa. Ma una cosa deve essere chiara: il regime dei Talebani non si sarebbe potuto mai insediare se dietro di loro non ci fossero stati i pakistani con le loro armi e i loro servizi segreti e dietro ancora una formidabile serie di interessi strategici degli Stati Uniti. Tra questi, il principale era senz’altro quello di tagliare fuori la Russia dal grande serbatoio di petrolio del Mar Caspio seguendo un canale che, appunto, tagliando fuori i russi, favorisse afgani e pakistani. Interesse primario di due delle grandi “sette sorelle” del petrolio, la Delta Oil (arabo-saudita) e la Uno Call (interamente Usa). Dell’oleodotto – dal costo di due miliardi e mezzo di dollari – fu iniziata la costruzione, con il consenso dei Paesi citati prima nonché del Turkmenistan, visto che doveva passare anche sul suo, di territorio, per arrivare poi in Afghanistan, vicino Erat, e scendere poi giù in Pakistan per sbucare nel Golfo Persico. Ma i talebani non sono riusciti a tenere sotto controllo tutto il loro territorio e così l’affare è sfumato. Inoltre, vi è tutta la questione – che descrivo con dovizia di particolari nel mio libro “Afghanistan anno zero”  – dei proventi del traffico di droga, consistenti in circa 250 tonnellate l’anno di oppio che è stato coltivato in territorio afgano prima dai muhaijddin e poi dai talibani, con gravissime responsabilità dell’agenzia Onu sui narcotici, diretta da Pino Arlacchi, che ha finanziato il commercio dell’oppio. Vi sono prove inconfutabili di questi traffici, come pure del riciclaggio dei proventi del traffico di droga e di armi transitato per l’Afghanistan per un valore stimabile in 10 miliardi di dollari, come spiega in uno studio fondamentale, “Talebani, il grande gioco”, l’analista pakistano Abdul Rashid.
Il Pakistan è senz’altro, punto di passaggio di soldi, armi e droga che transitano in Afghanistan, e il gioco  è condotto in particolare dal servizio segreto pakistano, e poi naturalmente gli Usa. Ma vi è anche un’altra fondamentale e importantissima responsabilità, quella delle banche – svizzere, di altri Paesi europei, anche italiane, e americane – che permettono la circolazione di 10 miliardi di dollari l’anno i quali poi finiscono nelle varie società off shore. Del resto, è accertato che su un volume di scambi generale che supera i mille miliardi di dollari, 60/70 miliardi di dollari sfuggono ad ogni controllo. Si tratta dei soldi della droga e delle armi e del loro riciclaggio, che avviene nelle principali e più importanti banche d’affari del mondo. Basta seguire i soldi, il loro odore, e si risale ai criminali.
*giornalista

 

 

Non deve vincere la cultura del sospetto
Innocenzo Cipolletta*

Lo sviluppo dell’economia moderna, quella che viene definita nuova economia, ed i processi della cosiddetta globalizzazione, hanno tra i loro fondamenti la libertà di comportamento e la fiducia reciproca. Non si sarebbe potuto immaginare uno sviluppo così forte della nuova tecnologia, una sua rapida diffusione e una crescita di reddito così importante se il mondo non avesse progredito sulla strada delle libertà (civili ed economiche) e se non si fosse allargata l’area della fiducia  che nel mondo coinvolge ormai oltre un miliardo di persone.
Gli atti di terrorismo dell’11 settembre negli USA sono diretti anche contro questa esplosione di libertà, malgrado essi siano stati possibili proprio grazie ad essa. Questa apparente contraddizione è insita nelle società che si aprono: l’ampliarsi delle libertà aumenta il rischio di azioni da parte di chi opera contro di esse. Il prodursi di tale rischio genera spesso un ritorno verso una maggiore chiusura e verso una atmosfera di sospetto reciproco che produce processi di involuzione. Quando ciò avviene, allora si può dire che il terrorismo ha effettivamente riportato una vittoria, ancorché parziale e temporanea, perché ha intaccato il modello di vita contro cui combatte e lo ha avvicinato a se stesso.
In una certa misura è inevitabile che ciò avvenga, ma è bene aver sempre a mente il rischio di involuzione per evitare l’instaurarsi di un circolo vizioso che ci potrebbe far regredire nella vita democratica. Per questo occorre ricorrere con precauzione a misure che limitano le libertà. Prendiamo un caso secondario, quello del divieto di avere rapporti economici e finanziari con persone e società sospettate di avere relazioni con il terrorismo mondiale, divieto a cui hanno aderito la maggior parte dei paesi. La misura è condivisibile nei sui obiettivi, ma la sua applicazione anche nei casi di operazioni lecite e senza alcuna conoscenza dei rapporti con persone indagate, sarà difficile e, se protratta nel tempo, potrà essere fonte di distorsioni, ingiustizie e soprusi, venendo così a generare una società del sospetto. Infatti, se oggi può essere relativamente agevole indicare un numero limitato di persone e società da mettere al bando, sarà comunque difficile individuare anche tutte le attività collegate ad esse che si camuffano in vario modo. Poi ne nasceranno altre che cercheranno in tutti i modi di nascondersi, sicché è da ritenere che si dovrà mettere in azione una sorta di polizia mondiale volta a selezionare i flussi finanziari e ad indagare sulle diverse attività. Poiché l’esigenza di sicurezza farà premio su tutto, è da ritenere che saranno sufficienti pochi sospetti per far entrare questa o quella attività nelle liste di proscrizione. E chi potrà mai escludere episodi di calunnia a scopo di falsare la concorrenza? In epoca di guerra fredda non sono state poche le aziende accusate di aver venduto prodotti o servizi strategicamente sensibili ad aziende di paesi dell’altra parte della cortina di ferro, che hanno subito ritorsioni economiche più o meno giustificate.
Questo esempio, come quelli relativi a tante altre procedure di controllo e di restrizione, può apparire secondario a fronte dell’efferatezza dei terroristi, dell’enormità del loro atto e delle reazioni belliche che rischiano di prodursi. Ma di esempi di questo genere se ne possono fare diversi fino a comprendere molte delle attività umane. La vita di milioni di cittadini del mondo libero è fatta anche di quotidiane piccole azioni che vengono svolte sulla base delle abitudini e della fiducia reciproca: mettere dei filtri a queste azioni, instaurare un clima di sospetto e di sfiducia reciproca vuol dire minare alle basi le nostre democrazie.
Ecco perché occorre fare attenzione, nella lotta al terrorismo, a non sacrificare anche le fondamenta del nostro vivere civile, consapevoli che le nostre libertà comportano anche il rischio che qualcuno si approfitti di esse. È un rischio che abbiamo saputo correre fino all’11 settembre scorso e che oggi ci appare enorme a fronte dell’eccidio commesso. Ma v’è da augurarsi che anche nel futuro sapremo correre tali rischi, magari riducendone la portata con lo sviluppo economico e civile diffuso e rivalutando la globalizzazione che, se riduce le differenze tra le diverse culture come qualcuno teme, consente anche di diffondere le libertà individuali fondamentali per l'umanità.
*Dirigente Marzotto

 

 

La ferita della Palestina
 Napoleone Colajanni*

Anche se largamente usato rimane sempre valido il richiamo che l’emozione non deve far passare in secondo piano il ragionamento. Più che mai in una situazione come l’attuale in cui l’emozione è grande per un evento assai più coinvolgente, grazie ai mezzi di comunicazione, di quanto non fosse l’assassinio di Serajevo che diede il pretesto per la prima guerra mondiale. Ragionare significa riconoscere che il terrorismo può davvero diventare il nemico più pericoloso del mondo occidentale, e proprio per questo occorre riflettere su due questioni: come è nato e come è possibile combatterlo, con la seconda questione che dipende dalla risposta che si dà alla prima.
Nel terrorismo o meglio nel terrorista c’è una certa componente psicologica o persino caratteriale, ma questa può spiegare soltanto il comportamento degli individui. Nella storia, quando ha avuto un peso reale, il terrorismo ha avuto sempre un retroterra ideale, una ideologia, come complesso di argomenti per legittimare la propria posizione. Gli anarchici dell’Ottocento credevano che uccidendo i re e le imperatrici si potesse arrivare alla distruzione dello Stato, concezione ingenua derivata dall’incapacità a comprendere la natura dello Stato moderno. Oggi il retroterra più forte del terrorismo è il nazionalismo, collegato il più delle volte a condizioni di vita inferiori rispetto alle nazioni dominanti, e rafforzato spesso, ma non sempre, dalla componente religiosa. Nell’Irlanda del Nord questo avviene, diversamente dalle province basche dove aggrediti ed aggressori sono tutti e due buoni cattolici. Di passata, potrò essere stato disattento, non ho mai sentito Papa Woitila, condannare apertamente i cattolici irlandesi o baschi. Naturalmente ci sono religioni che contengono una spinta al sacrificio individuale molto più grande di quanto non sia in altre, e questo è il caso dell’Islam, non esplicitamente, ma consentendo interpretazioni che vanno in questo senso. Si può capire che in questo modo nascono i kamikaze.
Il terrorismo di oggi è ben diverso da quello anarchico è la conseguenza storica dell’imperialismo, di quell’espansionismo militare, economico, culturale, che per due secoli ha caratterizzato la posizione dell’occidente verso altri popoli, cercando di subordinarli, e le cui conseguenze durano tuttora. Espansionismo che diventava tanto più oppressivo quanto più elevato era il livello di civiltà e di cultura dei popoli che investiva. Tre aree avevano cultura e civiltà originali, e quindi hanno resistito maggiormente: la Cina, l’India, il mondo arabo. Una quarta, il Giappone, ha scelto autonomamente, con la rivoluzione Meiji, di assimilarsi al mondo occidentale e mettersi in concorrenza con esso. La pratica distruzione di altri popoli, come gli indiani dell’America del Nord e del Sud e degli aborigeni australiani, il caos che regna tra i popoli africani, fanno parte del quadro, ma proprio la mancanza di una civiltà e di una cultura sufficientemente articolate di questi popoli non ha permesso loro di resistere.
Con le tre grandi aree non è stato così. Ma due di esse, la Cina e l’India hanno trovato in sé la strada per la propria emancipazione, l’India, pur lacerata al suo interno da profonde contraddizioni, ha raggiunto l’indipendenza con una ideologia geniale e originale, quella del Mahatma Gandhi, la Cina con la lotta armata contro le appendici dell’occidente nel proprio territorio. Il mondo arabo resta invece ancora subalterno, diviso, con alcuni regimi che non possono seriamente essere definiti indipendenti, incerto sulla strada da percorrere, e con una ferita ancora aperta come quella della Palestina. È questa e non l’Islam la motivazione della contrapposizione col mondo occidentale, che trova il suo apice nell’avversione verso gli Stati Unità, considerati giustamente come la punta di diamante dell’occidente. Certo l’Islam è stato un veicolo per diffondere certe concezioni fuori dal mondo arabo, in Iran o in Afghanistan, ma sarebbe profondamente errato interpretare la crisi come risultato di una contrapposizione tra l’islam e l’occidente. Le basi della contrapposizione sono storiche e politiche e ciò porta fra l’altro a giudicare interessanti dal punto di vista teologico, ma sprovvisti di significato politico e di conseguenze pratiche gli attestati che alla religione islamica vengono rilasciati da molti, compreso Giovanni Paolo II. Che poi la religione islamica consenta un’interpretazione che possa portare all’autodistruzione è un’altra questione, non è il centro del problema, fornisce un’arma ad una lotta che ha altre radici.
Come combattere allora il terrorismo? I mezzi militari sono efficaci solo in piccola parte, si può fare dell’Afghanistan una terra bruciata, ma il terrorismo risorgerebbe, perché non mancherebbero né i nuovi Bin Laden né i nuovi kamikaze.  La sicurezza all’interno dei paesi occidentali va certamente rafforzata, ma bisogna trovare un equilibrio con i diritti di libertà. Colpire nell’immediato ed affidarsi ai tempi lunghi della globalizzazione è illusorio. Puntare sulla globalizzazione per esportare un modello di civiltà è impossibile, sarebbe in pratica una edizione aggiornata dell’imperialismo ottocentesco, col suo «white man’s burden». La globalizzazione può avere un impatto positivo in quanto facilita lo sviluppo economico, ma non è una risposta alle esigenze di popoli che hanno una propria civiltà. Sbagliano profondamente ad esempio quanto ritengono che la Cina possa venire assimilata al modello capitalistico per il fatto che si diffondono le musiche, i balli, e gli abbigliamenti occidentali, e ciò vale anche per un mondo come quello arabo che pure è stato più lungo di quello cinese a contatto con l’occidente, ma ne ha ricavato solo umiliazioni e frustrazione.
La risposta può essere quindi solo politica. Nessuno può farsi illusioni che si possano avere risultati a breve tempo, come del resto non può portarli nemmeno l’azione militare. Nei confronti del mondo arabo l’Europa non è mai andata oltre le belle parole e i segnali di fumo.  La risposta politica degli Stati Uniti, dopo che nel 1956 con l’impresa di Suez l’Europa fu estromessa dall’area si è fondata su tre punti: azioni mirate di rappresaglia, qualche volta fallimentari (si ricordi il tentativo di uccidere Gheddafi o l’attacco ad una fabbrica di farmaceutici di Khartum scambiata per officina dei veleni); un sostegno ai regimi arabi moderati; difesa ad oltranza di Israele come punto di appoggio di tutta una politica. Tutti debbono rendersi conto oggi che questo tipo di risposta è inadeguato, anzi può aggravare la situazione, in primo luogo perché si tratta di una strategia che tiene conto soltanto dei gruppi dirigenti e ignora il sentimento dei popoli. Quel che è necessario è un radicale rovesciamento della politica, a cominciare dalla Palestina, che deve necessariamente comportare tempi non brevi se vuole raggiungere il consenso interno.
Il compito ricade interamente sugli Stati Uniti e sulla sua classe dirigente. Gli alleati possono fare ben poco, a parte qualche invio di unità speciali nell’immediato; passato il momento della solidarietà si renderanno conto, tranne naturalmente il Regno Unito, della complessità della situazione e prevarrà la voglia di non correre avventure. L’ondata bellicista che all’interno degli Stati Uniti attualmente chiede vendetta è perfettamente comprensibile e nessun governo può prenderla sottogamba, ma prima o dopo finirà per illanguidirsi. La preoccupazione maggiore è quella che viene dagli orientamenti della classe dirigente americana, che non appare unita. Quando il segretario alla difesa Donald Rumsfeld parla di bombe atomiche o di coinvolgere altri paesi non si rende conto di andare contro gli interessi del suo stesso paese a cui oggi si richiedono calma a consapevolezza. Altri, come il segretario di Stato Colin Powell sembrano averlo capito. È vero che gli europei non possono far nulla, ma solo dicendo apertamente quel che pensano possono dare un aiuto a quelli che vogliono avere dei risultati, perché i falchi non possono risolvere niente, possono solo prolungare ed aggravare il conflitto.
*Economista

 

 

Rimettiamoci a pensare
Fausto Colombo*

Ci sono almeno due ordini di motivi per cui - per uno studioso di media come me - la tragedia dell'11 settembre cambia radicalmente le cose.
Il primo riguarda quello che definirei il paesaggio quotidiano. Che è mutato radicalmente ma in una forma particolare, dolorosa e lancinante. Perché - come ha ricordato in un suo recentissimo intervento Alberto Abruzzese - nulla di ciò che è accaduto può dirsi completamente nuovo dal punto di vista mediatico. Le immagini che abbiamo visto in televisione erano già state messe in scena dal cinema in mille film catastrofisti. Gli effetti sulla popolazione occidentale sono descritti in una serie impressionante di volumi sulla propaganda. Infine, la ripetizione ossessiva della morte in diretta e la mistificazione della guerra televisiva hanno già trovato i loro cantori: rispettivamente in Benjamin (e più tardi nell'analisi dell'oscenità in Bazin) e nei molti analisti del rapporto fra media e conflitto (non ultimo Baudrillard). Eppure molto era nuovo, e in particolare la verità di quelle immagini, l'innegabile effettualità che ci schiaffeggiava davanti ai nostri schermi. Quella verità spostava per così dire di lato le nostre consapevolezze. Il paesaggio familiare diventava perturbante, secondo un processo già descritto da Freud più o meno un secolo fa.
Dunque il noto che si fa inquietante, angosciante, semplicemente pericoloso. E di nuovo siamo in presenza di una storia già raccontata da quel genere così radicato nella cultura moderna dell'Occidente che è l'horror, lo spaventevole letterario. Ecco, un andirivieni di riconoscimento e orrore ha colpito lo studioso di media, con una oscillazione il cui periodo non si abbrevia con il tempo: una oscillazione che continua e forse non potrà più cessare, insieme alla vertigine che procura.
C'è poi un secondo ordine di motivi. Riguarda il ruolo dello studioso. Ruolo che - per le scienze umane e la sociologia in particolare - è stato passato al microscopio soprattutto negli anni settanta, in quel movimento del pensiero francese che da Foucault arriva a De Certeau. Il primo ha mostrato il radicamento dello scienziato sociale nello stesso cuore della modernità, del controllo, della disciplina, dell'articolazione misteriosa ed efficace del potere. Il secondo ha radicalizzato il problema dell'origine del discorso scientifico (storico in particolare). Quella riflessione si è adagiata sul largo fiume del rispecchiamento degli intellettuali, e non ha mai smesso di agitare i sonni di noi tutti. Ora quelle questioni - mai sopite - tornano con la stessa violenza degli aerei gettati contro i simboli della modernità. Qual è il compito dell'intellettuale? Ci si chiede - come a tutti i cittadini - di schierarci, di non fuggire o di non compiere distinguo troppo sottili. E' tutto evidente, chiaro, persino cartesiano.
Ma io penso che la lezione di Foucault e De Certeau non possa essere rimossa. Penso che il mestiere dell'intellettuale sia di capire le radici dei fenomeni e di trasmetterle. Penso a "Farenheit 451" e agli uomini libro.
E immagino che quest'anno ai miei studenti spiegherò con ancora maggiore precisione che il nostro è solo un mondo possibile, abitato dai nostri sogni e dai nostri incubi. Ma che la miscela può mutare. Loro sono giovani, tanto più giovani di me. Hanno diritto di sapere e di lasciare la loro traccia. La lasceranno se si interrogheranno sul loro ruolo, sulla complessità della storia e sull'indicibilità del male. La lasceranno soltanto se si ostineranno a essere intellettuali. Penso che la semplicità dei fatti sia una mistificazione: dove appare lampante bisogna indagare, scoprire, guardare un po' di traverso. Questo farò, più di prima. Non è questione di seminare dubbi, ma di fare come Tomasz ne "L'insostenibile leggerezza dell'essere" di Kundera: è scappato dalla Cecoslovacchia invasa dalle truppe sovietiche. Ma decide di tornare. Un amico vuole farlo riflettere; fermarlo. Ma lui canticchia un'aria celebre: "Es musst sein" così deve essere.
Così, io torno a pensare. Provate a fermarmi, se potete.

* docente di Teoria e Tecnica della comunicazione di massa all'Università Cattolica di Milano e direttore dell'Osservatorio sulla Comunicazione.

 

 

Quale tolleranza?
Raimondo Cubeddu*

Si discuterà a lungo, come l’immane tragedia americana richiede, sui sistemi di sicurezza anti-terrorismo, sulla loro efficacia, sul fatto che la minaccia tante volte denunciata sia stata inspiegabilmente sottovalutata. Non ci sono cascati addosso soltanto macerie e morti, ma anche l’illusione di poter vivere in condizioni di sicurezza, ed affidandoci alla tecnologia, in quella parte del mondo aperta alla convivenza di etnie, di religioni e di civiltà, ma circondata da un universo di povertà, di intolleranza e di fanatismo religioso. Difficile prevedere quali conseguenze tutto ciò potrà avere, anzitutto per quella tendenza, apparentemente inarrestabile, alla concentrazione della popolazione nelle grandi città.
È stato detto, e forse giustamente, che una fase della nostra civiltà è terminata con i tragici fatti di questi giorni. Ma proprio in questo momento bisogna difenderne e riaffermarne con vigore i valori fondamentali, e rivedere quella sorta di eccessiva tolleranza per gli intolleranti che da qualche decennio si era impadronita della civiltà occidentale in preda, per alcuni, all’edonismo, al nichilismo ed al relativismo. Una tolleranza può aver favorito la credenza nella nostra debolezza politica e morale.
Di fronte a tutto ciò l’errore maggiore è quello di trasformare un conflitto tra civiltà in un conflitto tra religioni. È indubbiamente vero che quella globalizzazione che ha dissolto gli stati nazionali in un’unica civiltà composta da una pluralità di culture, di etnie e di fedi religiose ha riproposto il tema degli esiti distruttivi che i conflitti confessionali avevano negli stati nazionali. E se si potesse osservare, forse anche giustamente, che dei conflitti a sfondo religioso se ne ha ormai abbastanza, non meno vistoso è il fallimento 1) della credenza che il mondo si avviasse pacificamente ad una forma di governo cosmopolitico fondato su quei valori e diritti che noi ritenevamo universali e che invece sono soltanto occidentali; e, 2) della teoria che la paura della morte violenta (Hobbes) o della fame (Locke) avrebbero indotto gli uomini a comportarsi in maniera più civile e ad uscire dallo stato di guerra di tutti contro tutti. Questa, purtroppo, era soltanto la nostra esperienza storica, non la tendenza di un’inesistente “storia universale”.
Forse ancor più difficile sarà accettare le limitazioni alle libertà individuali e allo “stato di diritto” che si renderanno necessarie in uno “stato di guerra” contro un nemico spietato ed imprevedibile quale il terrorismo. Ed è per questo che bisogna aver fin da ora chiaro che le eventuali restrizioni delle libertà individuali dovranno essere temporanee. Se guerra sarà, sarà per difendere la libertà dai violenti, e non per ridurla ulteriormente o definitivamente.
Nel difendere una civiltà che con tutti i suoi limiti ha voluto e saputo distinguere la sfera della convivenza civile dalla sfera della religione (la filosofia politica dalla teologia politica), tale distinzione, nonostante le palesi difficoltà, deve essere tenuta viva. Ciò che significa anche riconoscere che il modello di mercato globalizzato è stato vittima del proprio successo. Ha prodotto sia una serie infinita di aspettative individuali e sociali che solo parzialmente poteva soddisfare nei tempi attesi; sia la consapevolezza che la sua adozione avrebbe prodotto la distruzione di culture, civiltà e religioni. In altre parole un misto di attrazione e di odio del quale oggi vediamo prevalere il momento dell’odio. È indubbiamente vero che tutto ciò è stato anche favorito dalla credenza che si potesse esportare il modello di vita e di diritti umani della civiltà occidentale senza traumi e senza che le altre civiltà elaborassero adeguati modelli istituzionali e di comportamento economici. Ma è anche vero che siamo stati dei grandi ingenui nel pensare che tutto ciò non avrebbe prodotto delle violente crisi di rigetto.
La nostra forza non deve consistere nell’imposizione al mondo di un modello la cui civiltà si identifica con la propria religione, ma di un modello che ha accumulato una certa esperienza nel consentire la convivenza di libertà, di civiltà e di religioni.

*Ordinario di Filosofia Politica all’Università di Pisa

 

 

Dobbiamo studiare l’arabo
Giuseppe De Rita*

È davvero un evento che cambia il mondo quanto è accaduto a New York l’11 settembre scorso? Secondo me, per quanto odiosa possa sembrare questa affermazione, si tratta invece di un evento che certifica un cambiamento già in atto. Il mondo ha ormai da molti anni un assetto policentrico. È proprio questo policentrismo che riduce il potere del cuore del sistema, rendendolo meno importante e quindi più attaccabile. Senza che ciò comporti tuttavia una modifica del sistema stesso. Quello che appare più comunemente ai nostri occhi è una concezione monarchica del sistema: leggiamo con questa chiave la globalizzazione o il potere finanziario simboleggiato da Wall Street. Se accettiamo che ci sia un assetto monarchico, allora dobbiamo pensare che ci sia un cuore rappresentato da un re o dalla potenza militare o da due torri. È difficile accettare questo paragone ma è un po’ come quando le nostre Brigate Rosse rapirono Moro nel ’78. Lo fecero per colpire al cuore il sistema, convinti che in questo modo sarebbero riusciti a disintegrarlo. Con lo stesso intento oggi i terroristi hanno attaccato il cuore dell’America. Eppure io resto convinto di una cosa che già scrissi nel rapporto Censis del ’78: il sistema non ha un cuore unico. Viviamo in un assetto di policentrismo reale come dimostrato anche dal fatto che lo stesso processo di globalizzazione avviene per diffusione e non per verticalizzazione. O dal fatto che bisogna tener conto di nuove potenze nel sistema mondiale come l’India, la Cina, l’Europa. Ci sono articolazioni dei poteri – espressione questa che va usata al plurale - estremamente forti. Assistiamo ad un marcato stop all’etnocentrismo americano ed europeo visto che ormai dobbiamo tener conto delle altre culture, di quella islamica o di quella cinese solo per fare due esempi. Voglio aggiungere una considerazione pratica: oggi noi occidentali dobbiamo imparare l’arabo mentre finora ci cullavamo nella certezza che tutti dovessero imparare l’inglese: se un arabo conosce l’inglese e noi non conosciamo l’arabo, lui è in grado di fare speculazioni finanziarie e azioni terroristiche e noi non possiamo neanche fare le intercettazioni.
Viviamo insomma in un mondo che ha un assetto ad architettura distribuita, per usare un termine informatico, e non monarchico. Si tratta di un processo storico che durerà ancora almeno un trentennio, nel corso del quale sarà sempre più ridimensionato il ruolo degli Stati Uniti come superpotenza, superpoliziotto, superfinanziere. Il periodo monarchico aveva per simbolo la bomba atomica, ma il simbolo di questi anni è Internet che è appunto una rete.
Non fu facile convincere coloro che nel ‘78 parlavano di autunno della Repubblica che il sistema reggeva nella quotidianità. Eppure allora la sensazione di oppressione durante il rapimento di Aldo Moro si avvertiva molto forte a Roma ma bastava allontanarsi di qualche decina chilometri per tornare a vivere nella quotidianità. Questo era possibile perché i poteri venivano ridistribuiti.
E questo è ancora possibile, se non ci si ferma al vivere le immagini televisive e a verticalizzare le emozioni. La compresenza fra policentrismo e quotidianità è l’unica arma che possiamo avere contro l’aggressione al cuore del sistema, ed è anche ciò che fa superare la nozione stessa di cuore del sistema.
*Presidente del Censis

 

 

È nato un leader?
Ferdinando Fasce*

Parlare in una prospettiva un po’ più ampia della stretta cronaca, di presidente, stile di leadership e capacità di governo dinanzi a una tragedia così immane, per gli Stati Uniti e per quanti hanno a cuore le sorti della democrazia e della libertà, come quella del criminale assalto terrorista alle Twin Towers può sembrare inopportuno. E può reinnescare la trita diatriba sull’ “antiamericanismo”, tanto più popolare da noi quanto meno si conoscono gli Stati Uniti. Poiché penso che il modo migliore di testimoniare la totale solidarietà con il popolo americano e un sincero attaccamento al meglio della formidabile tradizione culturale e politica d’oltre Atlantico sia quello di guardare in faccia le cose, ritengo che sollevare lo sguardo si imponga. Specie dinanzi alle reazioni, della stampa e dei principali osservatori, d’oltre Atlantico e di casa nostra, al discorso tenuto dal presidente George W. Bush giovedì 20 settembre di fronte alle Camere congiunte. In quell’occasione, nel breve, ma intenso e solenne, spazio di tempo di tale appello, Forrest Gump, dicono le cronache, si è trasformato in un uomo di stato, ha fatto volare la colonnina del gradimento al 91%, ha mostrato di avere le doti di un Franklin Delano Roosevelt o di un Harry Truman.
Dal punto di vista strettamente tecnico della performance retorica presidenziale pare difficile dar torto allo storico della presidenza Michael Beschloss che ha definito il discorso alle Camere da “10 e lode”.
Primo perché, vincendo le trappole della dislessia che secondo alcuni studiosi lo affligge, Bush jr. è riuscito a leggere il testo approntatogli da Condoleeza Rice, la consigliera alla sicurezza, senza inciampi o cadute espositive.
Secondo perché il discorso confermava il commendevole sforzo, già mostrato qualche giorno prima in occasione della visita alla moschea, di correggere sensibilmente il tiro, rispetto alle prime dichiarazioni sulle “crociate”, che avevano scatenato le giuste recriminazioni dei musulmani (e di tutte le persone di buon senso), dentro e fuori degli Stati Uniti.
Terzo perché, forse raccogliendo, sia pure molto parzialmente, le indicazioni del grande esperto di studi strategici Michael T. Klare, Bush ha definito in maniera più circoscritta che nelle prime dichiarazioni la natura criminale della minaccia terrorista, come Arthur Schlesinger jr. ha giustamente sottolineato.
Infine perché il discorso mostrava una risolutezza e autorevolezza di toni ben lontane dallo smarrimento palesato dal presidente nei primi giorni.
Tutto questo, però, non deve farci dimenticare che George W. Bush non è e non è mai stato Forrest Gump, ma un uomo di punta dell’establishment statunitense. Né può farci dimenticare la pervicacia con la quale il presidente ha ripetuto per mesi una linea di politica estera che ha spinto non qualche pericoloso e irriducibile “antiamericano”, ma gli stessi osservatori d’oltre Atlantico oggi raccolti attorno alla bandiera, a parlare, con preoccupazione, di un soprassalto di “unilateralismo”. Sicché ha ragione il “Washington Post” a notare che, se è vero che Bush pare diventato un leader nazionale, non è ancora chiaro con quale indirizzo strategico e con quale rapporto fra la nuova agenda che la storia gli ha imposto (superamento dell’unilateralismo sul piano internazionale, misure parakeynesiane su quello interno), le sue dichiarazioni programmatiche e la pratica di governo esplicitamente conservatrice dei primi otto mesi.
È presto dunque per dire se dietro il leader capace di far suonare le corde dell’emotività nazionale registrata dai sondaggi c’è l’uomo di governo coerente in grado non solo di indicare obiettivi concreti e ragionevoli (cosa sostanzialmente assente dal discorso del 20 settembre), ma anche di fornire una visione del futuro del paese e della sicurezza, civile e politica, dei suoi cittadini meno miope di quella con la quale si è aperto, alla Casa Bianca, il ventunesimo secolo.
                                                
* Professore associato di Storia e Istituzioni dell'America del Nord nell'Università di Bologna.

 

 

 

La giusta proporzione
Alessandro Ferrara*

 In questi giorni convulsi ne abbiamo sentite tante, di reazioni, di sensazioni, di risposte "a caldo" che forse è bene cominciare cercare di guardare più "a freddo" a ciò che è successo l'11 settembre. Non credo che i saperi specialistici di per sé diano risposte: ripasso mentalmente quelli per i quali possiedo credenziali pubbliche ma non vi trovo risposte immediate, solo spezzoni e spunti. Più che applicazione di un sapere, capire quanto è avvenuto mi sembra piuttosto il lavoro del giudizio, del bilanciare le tante cose singolarmente giuste dette da tanti. Il difficile è dare loro "la giusta proporzione".
Soprattutto è il momento che ciascuno stia al suo posto. Gli intellettuali non tentino di fare il mestiere dei politici. Mentre a questi ultimi si chiedono (e giustamente) certezze, noi commerciamo in dubbi e interrogazioni. Viviamo all'alba di un giorno di cui non conosciamo che cosa porta in serbo a noi e ai nostri figli. Questo sentimento non possiamo cancellarlo e il primo compito che ci si impone è capire, non suonare il piffero per chicchessia.
L'11 di settembre l'America ha subito un attacco che per dimensioni, effetto, implicazioni è un atto di guerra, forse il più terribile della sua storia. Terribile. Perché nemmeno Hitler si sarebbe mai potuto sognare di bombardare il Pentagono. Un atto che sconcerta tutti noi occidentali - anche quelli che non amano i poteri simboleggiati dal Wtc e dal Pentagono - perché l'oggetto dell'attacco va al di là di quei simboli. È un attacco alla nostra forma di vita. Credevamo di averle già viste tutte, quelle strane bestie di guerre venute fuori dalla caduta del muro di Berlino.  Ma non ci sono solo le guerre etniche e le guerre "umanitarie". Il nuovo secolo ci riserva anche le "guerre del terrore", combattute da organizzazioni non statali contro stati. E chi dice che non è guerra fa come Don Ferrante: non c'è uno stato dietro, dunque non c'è guerra.
Secondo punto: se di guerra si è trattato, noi - noi Occidente, noi Americani ed Europei insieme - abbiamo subito una prima sconfitta, su cui occorre riflettere al più presto. E sui danni collaterali di questa sconfitta è aperto l'inventario. Quel movimento per una diversa globalizzazione che rappresentava un germoglio di differenziazione nel mondo unipolare intanto è sparito dai giornali. Quando si tratta della vita e della libertà, chi può preoccuparsi più di tanto di MacDonald's e di come e dove la Nike produce le sue scarpe da ginnastica? Questo schiacciamento al centro, tutti dietro a Bush chissà fino a quando, nessuna altra priorità, sostenere la Boeing e le borse in caduta libera che diventa un atto patriottico, la Cia rilegittimata e a briglia sciolta come ai tempi d'oro,  questo è un conto separato che la sinistra ha con Bin Laden…
Come è stato possibile un attacco del genere? È stato reso possibile dal fatto che forze ispirate dal fanatismo religioso hanno scoperto di possedere un'arma letale, inaccessibile all'Occidente, contro cui l'Occidente ha ben pochi rimedi, e rispetto alla quale i suoi arsenali di aerei invisibili, sommergibili atomici, missili teleguidati, bombe intelligenti, armi nucleari di teatro, e domani anche lo scudo spaziale sono del tutto impotenti.  E hanno usato quest'arma in modo dimostrativo nel modo più eclatante possibile, a freddo, una bella mattina di settembre, nel centro del financial district di New York. Quest'arma è un'arma umana, non tecnologica. È l'utilizzazione sistematica e razionale della disponibilità a morire, di una disponibilità a morire che non proviene affatto dalla follia in senso clinico ma si alimenta di fede religiosa e radici culturali e odio identitario. La disponibilità al suicidio di cui parliamo non è frutto di uno stato di esaltazione, il quale non può reggere per cinque anni.  Sono persone che hanno vissuto per anni all'interno della società occidentale, amalgamandosi con la gente tanto da non farsi notare, persone che hanno condotto una vita normale, sono andate al bar, al cinema, hanno fatto vacanze e cercato distrazioni, ma in cinque di contatto continuo con la società americana - non vivendo in un bunker o subendo un lavaggio del cervello - non si sono lasciate scalfire nel loro proposito. Purtroppo questa non è follia. E, come ha coraggiosamente detto Susan Sonntag, non è neanche viltà, perché non è vile chi muore deliberatamente per qualcosa, sbagliato e aberrante per quanto sia agli occhi altrui questo qualcosa.
La conseguenza più difficile da metabolizzare è che non esiste rimedio immediato, anticorpi atti a contrastare tutto questo, e tanto meno un rimedio solo militare. Nel lungo periodo - e il ventunesimo secolo è appena cominciato - il rimedio può solo venire da una capacità di creare consenso. O cambiamo il terreno di coltura su cui cresce questa mala pianta del terrorismo o loro cambieranno la nostra società in una società blindata e paranoica. Una società aperta e complessa come le nostre non può difendersi dalla minaccia terroristica senza snaturarsi. La vita blindata che forse ci aspetta per definizione va contro l'idea di una società aperta. Metal detectors dappertutto, doppi e tripli controlli in aeroporto, perquisizioni obbligatorie, tre ore di anticipo per prendere un aereo, difficoltà nella mobilità geografica, guardie di frontiera meticolose e feroci come i Vopos di Berlino Est, controllo delle comunicazioni personali su vasta scala, schedature, presenza capillare di forze di polizia antiterrorismo, forse anche leggi speciali antiterrorismo, legittimazione della cultura del sospetto, tutto questo significa cambiare la qualità della nostra vita per come abbiamo imparato ad apprezzarla. E ancora non ci mette al riparo dal gesto di chi è disposto a suicidarsi.
L'unico vero rimedio di lungo periodo è quello di tagliare le fonti di approvvigionamento umano ai terroristi. Impedire cioè quantomeno che i terroristi attraggano consensi non solo tra le file del fondamentalismo islamico, come già purtroppo è inevitabile che accada, ma che comincino ad attrarli anche tra i mussulmani moderati, poi magari tra i mussulmani non arabi e poi al limite tra i diseredati della terra neppure mussulmani. Noi in Italia abbiamo vinto la lotta contro un terrorismo che su scala ridotta, nazionale, era riuscito a produrre uno stesso senso di totale sconcerto con il rapimento di Aldo Moro. Non abbiamo vinto quel terrorismo mettendo un poliziotto ad ogni angolo di strada. Lo abbiamo vinto quando quelli che pensavano alle Brigate Rosse  come a "compagni che sbagliano" hanno cominciato a non pensarla più così.
Su scala globale questo richiede che si disinneschi quel generatore di frustrazione politica, rappresentato dal conflitto arabo-israeliano, il quale rende esplosiva la miscela di odio antioccidentale e diponibilità a immolarsi. La difesa dell'occidente è diventata soprattutto una questione di intelligenza politica. Prosciugare le sacche di frustrazione politica che radicalizzano in senso antioccidentale gruppi già religiosamente orientati verso il fanatismo. Questa è la sfida che ci sta di fronte, per non rendere lo sforzo militare, pur necessario, inutile nel lungo periodo.
* docente di filosofia politica all’università di Parma

 

 

Gli oneri del liberalismo
Anna Elisabetta Galeotti*

A due settimane dagli attentati in America, allo sbigottimento iniziale è subentrata la paura di quel che può succedere, di un conflitto infinito, insidioso che mina la nostra sicurezza quotidiana, mentre espone popolazioni povere e affamate a risposte militari che difficilmente riusciranno nell’intento di catturare la centrale del terrore. Le preoccupazioni sono legittime e l’invito alla moderazione ai leader politici e militari americani e occidentali sono opportune, data la difficoltà a localizzare il nemico e trovare le forme appropriate a questo speciale tipo di conflitto o guerra, come tutti la chiamano. Non vorrei entrare nel merito di quale tipo di risposta potrebbe essere migliore, problema che eccede le mie competenze, quanto piuttosto svolgere alcune riflessioni sul diritto all’autodifesa della nazione americana e dei suoi alleati. Spesso le difficoltà del come vengono rimbalzate sulla liceità del che: il fronte pacifista e no global marcia su questa confusione, fa fatica nella condanna dell’attentato e della violenza terrorista a non aggiungere di straforo una qualche collaterale condanna all’odiato sistema capitalistico globalizzato, fonte prima di tutte le nefandezze del mondo contemporaneo. Questa tentazione, per chi mai la provasse, va resistita con grande fermezza per una diversi motivi. Vale innanzitutto l’argomento generale che due ingiustizie non fanno una giustizia e se pure dietro la ferocia terroristica ci fosse l’esasperazione di popolazione affamate e sfruttate dall’Occidente spietato -il che non è esattamente, vista la sofisticata organizzazione finanziaria che sostiene il terrorismo - questo non giustifica, né in alcun modo attenua la condanna per le migliaia di morti innocenti intenzionalmente causate con fredda determinazione. Né toglie ai familiari delle vittime il diritto ad avere giustizia. Secondariamente, il tentativo di stemperare l’atrocità degli attentati terroristici col rinvio a colpe generali e originarie dell’Occidente capitalistico rappresenta lo stesso atteggiamento, con segno rovesciato, di considerare nemico l’Islam nel suo complesso senza differenziare. In questi giorni abbiamo sentito l’invito ricorrente di leader politici, religiosi, giornalisti e esperti a non fare l’errore di compattare l’Islam in un’entità coesa, univocamente fondamentalista e votata alla guerra santa, invito sacrosanto per ragioni di giustizia prima ancora che di prudenza. Specularmente, si deve ribadire che anche l’Occidente non esiste come entità unica, a vocazione predatoria e affaristica. La globalizzazione ha generato e genera problemi e sperequazioni nei paesi in via di sviluppo; cerchiamo allora di affrontare questi problemi, uno per uno, con umiltà e buona volontà, individuiamo le responsabilità dei vari attori e delle varie agenzie, ma non parliamo di colpe collettive, attribuite a tutti solo per il fatto di essere nati in certe zone del mondo, e poi a nessuno. Se come dice Michael Walzer la guerra al terrorismo si conduce su molti fronti, fra cui quello ideologico-intellettuale è centrale, lasciar passare un concetto come quello di colpe dell’Occidente significa prestare il fianco a una qualche giustificazione del terrorismo: se tutti siamo colpevoli, le vittime delle Twin Towers non sono, per definizione, innocenti. Una colpa generale e indiscriminata lascia spazio all’idea, moralmente aberrante, di punizione altrettanto indiscriminata, e questo i membri della rete del terrore ritengono che siano le loro azioni. Noi invece che abitiamo le società liberali e democratiche, che godiamo dei vantaggi del libero pensiero e libera espressione, abbiamo l’onere, come individui e come collettività, di discriminare nel nostro giudizio su questi atti e sulle risposte ad essi. La giustizia liberale rifugge dai concetti di colpa e punizione collettiva e questo costituisce per noi che abitiamo questo mondo un onere relativamente alle risposte moralmente ammissibili alla strage dell’11 settembre. Bombardare popolazioni inermi per colpirne i governi non è possibile, come non è possibile colpire a caso, non è possibile l’equazione arabo o musulmano= terrorista.  Ciò significa che fare giustizia sarà più complicato, lungo e difficile, ma è parte del fare giustizia anche non fare confusione sulle responsabilità e sul diritto all’autodifesa.
*Ordinario di filosofia politica all’Università del Piemonte orientale

 

 

 
Un giorno insensato o forse inventato
Simonetta Gori Savellini*

È irreale che si pensi immediatamente, quando ancora stiamo vedendo quanto accade, di stare assistendo a una vicenda epocale di quelle che lasciano un segno nella storia degli uomini. Se questo è vero di quale accadimento in realtà si tratta?
Terrorismo, ma quale terrorismo di chi, contro o a favore di chi? Troppo semplice - anche se gli eventi rilevanti spesso sono essenziali, almeno nel loro svolgersi - mentre più complessa può apparire la lettura, l'interpretazione di quello che stiamo vedendo. Intanto risulta già la percezione di quanto si crede di osservare in un primo momento: si tratta di una finzione da film catastrofico, viene forse mostrato un fotomontaggio e comunque quale è la realtà se di questa si può, si deve ancora parlare?
Come oggi viene frequentemente osservato la vita non copia la buona letteratura ma la cattiva televisione. Ma all'interno di tanti programmi quale filone si deve scegliere?
Per comprendere forse si può partire dall'elemento più certo, le vittime: di tante nazionalità, diverse per provenienza, lontane per scelte professionali. Prima della morte spesso non emergenti in una società assertiva, competitiva. A parte è il discorso sui soccorritori e sulla loro scelta di rischiare, ma sapevano fino a che punto?
Ora poi ci si chiede quali siano gli artefici dell'evento e alcuni, molti pensano di poter indicare una sola causa che tutto comprende e nulla esclude: il terrorismo e tale indicazione è comprensibile, corretta, ma a quale terrorismo si fa riferimento e quante sono le cause coinvolte nella  genesi del fenomeno?
Non si comprende il ruolo dei cosiddetti agenti dei servizi segreti che sembrano quasi trasformarsi in studiosi di storia capaci solo di trovare spiegazioni a quanto è già avvenuto, mentre molti pensavano che i servizi stessi  potessero, addirittura dovessero evitare prevenendo. Anche volendo accettare una spiegazione a fatti avvenuti può apparire limitata e limitante la domanda a chi giova, ma viene fatto di porsela ugualmente e sono probabilmente elencate internamente in ognuno di noi conseguenze diverse.
Ci sono i guadagni dei mercanti di armi, ci sono i vantaggi di chi ama dividere gli uomini in buoni e cattivi anche secondo la razza di appartenenza e il paese di provenienza. Alla fine forse sarà lo stesso succedersi storico degli eventi a farci leggere meglio i segni di quanto è accaduto e portarci a comprenderne meglio il significato.
Se in queste giornate iniziali di un nuovo millennio talora siamo stati collocati nel ruolo di spettatori passivi, lo stesso scorrere degli eventi ci costringe invece riconoscerci di nuovo artefici di una storia che di nuovo riconosciamo ancora parte, maggiore o minore, opera nostra.

*Docente di Storia Della Psicologia  all’ Universita' di
Firenze

 

 

Violenza e giustizia in età globale
di David Held*

Il maggiore filosofo dell'Illuminismo, Immanual Kant, scrisse più di 200 anni fa che siamo "inevitabilmente fianco a fianco" . Una violenta abrogazione della legge e della giustizia in un luogo ha conseguenze su molti altri luoghi e può essere sperimentata ovunque. Quando si soffermava su questi temi e sulle loro implicazioni nel lungo periodo, non poteva sapere quanto sarebbero diventate profonde e urgenti le sue preoccupazioni.
Dall'epoca di Kant, le nostre reciproche interconnessioni e vulnerabilità sono cresciute rapidamente. Non viviamo più, se mai così è stato, in un mondo di distinte comunità nazionali che abbiano da sole il potere e la capacità di determinare il destino di coloro che vivono al loro interno. Piuttosto, viviamo in un mondo di comunità i cui destini si sovrappongono.
Le traiettorie e il futuro degli Stati-nazione sono ora pesantemente confusi tra loro. Nel nostro mondo, non è solo l'eccezione violenta che lega fra loro gli individui al di là dei confini nazionali, ma è la natura effettiva dei problemi e dei processi quotidiani a congiungere le persone in molti modi.
Dalla circolazione delle idee e dei prodotti culturali alle questioni fondamentali sollevate dall'ingegneria genetica, dalle condizioni dell'equilibrio finanziario al degrado dell'ambiente, il destino e le fortune di ognuno di noi sono profondamente intrecciate.
La storia del nostro ordine globale non è una storia al singolare.
Esistono molti miti riguardo alla globalizzazione ed uno in particolare è pericoloso: cioè, quello che quest'età sia sempre più definita dai mercati globali, dai processi economici e da forze sociali che inevitabilmente sfuggono al controllo degli stati e dei politici. Piuttosto, l'espansione dei mercati delle merci, dei beni e delle finanze ha alterato il terreno politico.
Ma la storia della globalizzazione non è solo una storia di espansione di mercati, di deregulation neoliberale e di abdicazione da parte della politica; perché è anche una storia di crescenti aspirazioni ad un diritto e ad una giustizia internazionali.
Dalle Nazioni Unite all'Unione Europea, dalle modifiche del diritto di guerra alla difesa dei diritti umani, dalla comparsa di movimenti ambientalisti internazionali all'istituzione di una Corte Criminale Internazionale, c'è anche un'altra storia che viene raccontata - la storia che cerca di riformare l'attività umana e trincerarla al riparo della legge, dei diritti e delle responsabilità.
Questo è il motivo per cui l'11 settembre è un momento determinante per il genere umano. La violenza terrorista è stata un'atrocità di proporzioni straordinarie; è stata un crimine contro l'America e contro l'umanità; un oltraggio che va annoverato tra i delitti più nefandi del mondo; ed è stato, senza dubbio, un attacco ai principi fondamentali della libertà, della democrazia, delle regole del diritto e della giustizia. Questi principi non sono solo occidentali. Alcuni loro elementi nasconoo all'inizio del periodo moderno in Occidente, ma loro validità va molto oltre. Poiché questi principi sono le basi di una società giusta, umana e decorosa, di qualsiasi religione o tradizione culturale. Parafrasando il teorico legale americano Bruce Ackerman, non esiste nessuna nazione senza una donna che desideri uguali diritti, nessuna società senza un uomo che rifiuti la sottomissione e nessuna nazione in via di sviluppo senza una persona che desideri i minimi mezzi di sussistenza per poter affrontare la vita di ogni giorno.
I principi della libertà, della democrazia e della giustizia sono le basi per la realizzazione e la difesa dell'uguale libertà di tutti gli esseri umani, dovunque essi siano nati o cresciuti.
L'intensità della serie di reazioni alle atrocità dell'11 settembre è pienamente comprensibile da qualsiasi punto di vista. Non possono esserci molte persone nel mondo (nonostante le immagini di festa in alcune zone veicolate dai media) che non abbiano provato shock, repulsione, orrore, sconcerto, rabbia e desiderio di vendetta. Tale varietà di emozioni è perfettamente naturale nel contesto degli eventi attuali. Ma non può essere la base di una risposta più saggia e ponderata.
I principi fondanti della nostra società, i valori realmente attaccati l'11 settembre, ci impongono di fermarci a riflettere; di non generalizzare troppo la nostra reazione sulla base di un singolo momento e di un singolo insieme di eventi; di non saltare a conclusioni basate sui timori che si sviluppano in un solo paese; e di non riscrivere, di non rifare la storia da un posto solo.
La lotta alla paura deve poggiare su nuove basi. Non si può ritornare all'approccio disorganizzato e compiacente nei confronti del terrorismo del 10 settembre. I terroristi devono essere sconfitti e coloro che li proteggono e li finanziano devono essere messi di fronte ad una resa dei conti. In queste circostanze la completa non tolleranza è pienamente giustificata. Il terrorismo va contro le nostre ambizioni e i nostri principi più cari.
Ma qualsiasi reazione giustificabile, sostenibile e difendibile all'11 settembre dev'essere in armonia con i nostri valori fondamentali e con le aspirazioni della società internazionale alla sicurezza, al diritto, all'amministrazione imparziale della giustizia - aspirazioni dolorosamente realizzate dopo l'Olocausto e la Seconda Guerra Mondiale.
Se i mezzi utilizzati per combattere il terrorismo contravverranno a tali principi, forse il sentimento del momento potrà essere soddisfatto, ma si accrescerà la nostra reciproca vulnerabilità. Finiremo con l'andare ancora un passo indietro rispetto ad un ordine mondiale più sicuro e giusto. Questo potrebbe facilmente implicare la crescita dell'intolleranza nei confronti di tutti i tentativi di protesta e di modifica delle circostanze politiche, anche di quelli rispettosi della legge e pacificamente orientati.
La guerra e i bombardamenti sono una delle opzioni per l'immediato futuro; ma un'altra è l'istituzione di una Commissione Internazionale sul terrorismo globale che potrebbe essere ispirata ai modelli dei tribunali di guerra di Tokyo e Norimberga, che operi sotto l'autorità delle Nazioni Unite rivitalizzate e dotate di nuova energia. Una commissione del genere potrebbe essere potenziata per scoprire i responsabili del nuovo terrorismo di massa e consegnarli alla giustizia. Sostenuta dalla possibilità di imporre sanzioni economiche, politiche e militari - e supportata tra l'altro dalle capacità militari delle Nazioni Unite e della Nato - potrebbe essere la base di un sistema di indagine e di punizione che richiede un appoggio globale.
Potrebbe essere la base non solo per il rafforzamento degli assetti legali e multilaterali esistenti, ma anche il punto di partenza per contribuire alla creazione di un nuovo ordine democratico, giusto e attendibile.
I mezzi devono essere in accordo con i principi minacciati. Il terrorismo dev'essere criminalizzato su basi internazionali, non sradicato con un'atto violento e arbitrario.
Io non sono un pacifista. La ragione di queste raccomandazioni non è quella di evitare l'uso della forza coercitiva in ogni circostanza. Piuttosto, dipende dal desiderio di continuare a costruire sugli elementi più umani e giusti del nostro ordine globale che sono stati stabiliti nei vari ultimi decenni, e di difenderli in modo tale che essi possano ricevere rispetto e fedeltà da tutti, dovunque.
Ma, per usare una sola frase, dobbiamo essere forti non solo nei confronti del crimine ma nei confronti delle cause del crimine. Chiunque siano stati i responsabili degli attacchi terroristici dell'11 settembre, sappiamo che ci saranno sempre volontari per missioni suicide, bombardamenti suicidi e raggruppamenti terroristici se non ci preoccupiamo delle più profonde questioni della pace e della giustizia sociale nella comunità globale.
Nella nostra età globale plasmata dalle immagini guizzanti della TV e dei nuovi sistemi informativi, le enormi ineguaglianze nelle opportunità di vita in molte regioni del mondo alimentano un delirio di rabbia, ostilità e risentimento.
Senza una giusta pace in Medio Oriente e senza il tentativo di ancorare la globalizzazione ai principi significativi della giustizia sociale, non ci potrà essere una soluzione duratura al genere di delitti a cui abbiamo appena assistito.
Naturalmente, crimini del genere possono spesso essere opera di semplici alienati e fanatici e quindi non ci può essere la garanzia che un mondo più giusto sia anche un mondo più pacifico sotto tutti gli aspetti.
Ma se voltiamo tutti insieme le spalle a queste sfide, non c'è speranza di migliorare le basi sociali del divario spesso sperimentato nei paesi più poveri e più emarginati. Gravi ingiustizie, legate a un senso di disperazione nato da generazioni di oblio, alimentano l'odio e l'ostilità. Il sostegno popolare contro il terrorismo dipende dal convincere la gente che c'è un modo legale e pacifico di indirizzare le proprie insoddisfazioni.
Kant aveva ragione; la violenta abrogazione della legge e della giustizia in un luogo riecheggia in tutto il mondo.Non possiamo accettare l'onere di stabilire la giustizia solo in una dimensione dell'esistenza - la sicurezza - senza allo stesso tempo cercare di stabilirla ovunque.
*Professor politics alla London School of Economics

 

Quale globalizzazione vogliamo?
Pietro Ichino*

Un primo punto di vista: il maledetto ventesimo secolo non vuole finire. L’11 settembre abbiamo assistito a un altro suo drammatico sussulto: un contraccolpo dello scontro mediorientale, le cui radici storiche affondano, ben oltre lo sterminio nazista degli ebrei e la nascita dello Stato di Israele, nei grandi sommovimenti della prima metà del “secolo breve” che ne hanno costituito le premesse.
Un secondo punto di vista: è incominciato (male) il ventunesimo secolo. L’11 settembre abbiamo voltato pagina rispetto a un mondo diviso tra grandi potenze, in cui le guerre venivano preventivamente proclamate da una nazione contro un’altra e si combattevano con gli eserciti schierati, mentre i grandi scontri sociali avvenivano all’interno di ciascuna nazione, tra ricchi e poveri di uno stesso paese, tra padroni e lavoratori di uno stesso sistema produttivo. Ora la guerra è tra le grandi potenze planetarie da un lato e dall’altro manipoli di guerriglieri che si ergono a rappresentanti dei disperati e dei diseredati della parte povera del mondo, che si nascondono dovunque e colpiscono senza preavviso, che per colpire non usano le proprie armi, ma ritorcono contro il nemico gli strumenti stessi del suo potere: innanzitutto i suoi mezzi di comunicazione e informazione di massa, ma anche i suoi mercati finanziari, le sue scuole e centri di addestramento, le sue grandi opere civili, i suoi aerei, persino il carburante in essi contenuto; e domani – Dio non voglia – anche le sue industrie chimiche e le sue centrali nucleari.
Un terzo punto di vista: la tragedia delle Twin Towers, come un secolo fa quella del Titanic, segna la fine di una nostra seconda Belle Epoque. L’11 settembre chiude bruscamente un periodo felice e forse troppo spensierato di crescita economica che si credeva illimitata, di pace tra i paesi ricchi e di progressiva integrazione mondiale, umiliando la presunzione di onnipotenza tecnologica e invulnerabilità dell’Occidente.
Coglie sicuramente una parte di vero ciascuno dei tre punti di vista. Comunque si interpretino i fatti di questi giorni, non cambia però il problema cruciale che l’Occidente deve risolvere: quello di convincere la parte restante del mondo che la globalizzazione, se ben governata, è un gioco a somma positiva da cui tutti – anche la parte più povera del mondo – hanno soltanto da guadagnare; e che le barriere tra i popoli e le nazioni possono essere abbattute senza pregiudizio per la coesistenza di culture e religioni diverse.
Se questo è il vero problema, non mi sembra che su questo terreno ci si possa attendere qualche beneficio dal grande dispiegamento di potenza militare con cui gli Stati Uniti si propongono di reagire all’atroce offesa subìta. Riusciranno forse ad abbattere il tetro regime dei talebani in Afganistan, ma al prezzo dell’ulteriore radicarsi in una parte considerevole del mondo islamico dell’idea che la globalizzazione si identifica con l’egemonia politico-militare-culturale americana sul mondo intero. Mi sembra una scelta ottusa, anche da un punto di vista puramente egoistico: forse che potremmo sentirci più sicuri, sui due lati dell’Atlantico settentrionale, quando l’insediamento a Kabul di un governo filo-occidentale sarà stato ottenuto a quel prezzo?
Certo, è giusto combattere senza tregua i regimi criminali, porli in condizione di non nuocere, fare tutto il possibile per farli cadere; così come è giusto stanare e punire severamente i terroristi. Ma qualsiasi vittoria militare contro i primi e/o contro i secondi sarà un buco nell’acqua se contemporaneamente non si sarà ottenuto il loro isolamento politico e culturale. Vedo invece il rischio che, nell’immenso vivaio dei diseredati al quale i terroristi possono attingere, il colossale schieramento di portaerei, bombardieri ed elicotteri americani nel Medio Oriente oggi produca un risultato opposto.
Sono convinto che le migliori teste d’uovo della Casa Bianca queste cose le sappiano benissimo. Il guaio è che in un sistema democratico, quale certamente è quello statunitense, non è “giusta” la politica che scienza e coscienza dei consiglieri migliori indicano come tale, ma quella che come tale è percepita dalla maggioranza degli elettori; e gli elettori statunitensi oggi sono troppo profondamente feriti per ragionare lucidamente. In questo sta il vero successo della mente diabolica che ha concepito e organizzato la strage.
* Docente di Diritto  del Lavoro all’Università degli studi di Milano  

 

 


L’incontro con l’Altro
Paolo Inghilleri*

Ci sono dei momenti, purtroppo spesso tragici come questo, in cui la Storia entra, in modo dirompente, nella Psicologia e nello studio del comportamento: penso ad esempio alla riflessione di Freud che, subito dopo il dramma della prima guerra mondiale, preveggente il nascente nazifascismo, definì in modo esplicito il concetto di pulsione di morte. È oggi davvero possibile accettare l’idea, propria di tanta psicologia e delle neuroscienze contemporanee, di un uomo e di una mente isolati dai loro contesti e dai loro gruppi, regolati da stretti vincoli biochimici o cognitivi? Mi immagino i pensieri, ma soprattutto le emozioni e gli affetti delle vittime nei momenti degli attacchi; ma penso anche ad emozioni e ragionamenti dei terroristi e dei kamikaze e delle loro famiglie, padri, madri, forse figli….la scena di donne e bambini che in paesi lontani, danzano di gioia, per l’attacco riuscito…Questi eventi ci mostrano, come uomini e come scienziati, la complessità dei fenomeni psicologici e sociali. Non ci può bastare una spiegazione che si basi solo su pulsioni e dinamiche individuali (la possibile psicosi di un terrorista, l’aggressività su base genetica di un omicida, gli schemi cognitivi che stanno alla base del pregiudizio) o solo su fattori di tipo sociale (la povertà, l’oppressione politica ed economica). Occorre uno sforzo creativo per fornire nuovi modelli per comprendere ed agire. Cosa unisce un giovane di New York, uno di Kabul e uno di Milano? Non è forse la possibilità di poter reciprocamente sentire e comprendere che la fenomenologia dell’esperienza che si prova nel corso delle relazioni con il mondo esterno ha caratteristiche simili a quella degli altri, anche lontani? E che questa similitudine del funzionamento delle strutture esperienziali e di coscienza avviene al di là delle differenze biologiche (ad esempio il colore della pelle o il tasso di mediatori chimici cerebrali)  e culturali (ad esempio le norme, gli oggetti di uso quotidiano, i sistemi simbolici). Anzi, è proprio la differenza che permette questa assonanza: ognuno di noi ha infatti esperienza “buona” quando può sperimentare la continuità della relazione tra la propria identità e la cultura a cui appartiene, la quale però tende a variare da luogo a luogo, da popolo a popolo. Il comprendere che sentimenti e cognizioni che si provano seguendo una idea politica, partecipando ad un rito religioso, stando con la famiglia, facendo un lavoro che piace, sono gli stessi che prova “l’altro”, al di là della diversità, talora enorme, di questi elementi culturali, rappresenta un formidabile fattore di comunicazione e di possibile sviluppo comune. L’ esigenza dello studio scientifico e clinico della fenomenologia dell’esperienza (e delle sue basi psicologiche, biologiche e culturali) va di pari passo con quella dell’azione politica e quotidiana tesa a creare continue possibilità di ponti tra individui di paesi e culture differenti: questo, a mio avviso, rappresenta l’impegno attuale e più urgente per ogni cittadino ed ogni studioso. Occorre favorire lo sviluppo globale di scuole, situazioni lavorative, forme artistiche e  spettacolari dove i giovani del mondo possano mettere in gioco le loro intelligenze, la loro creatività, il loro benessere, i loro problemi e possano sentire la diversità e l’unione delle esperienze soggettive.

*Ordinario di Psicologia Sociale, Università degli Studi di Verona

 

 

È andato in scena il gran finale
Maurizio Maggiani*

Quello che sono riuscito a leggere negli attentati terroristici di New York e Washington è che non ho un futuro, che ho vissuto per tutta un’epoca convinto che me ne sarei andato lasciando un mondo diverso da come l’ho trovato quando sono nato, e che invece me ne andrò con la certezza di lasciare un mondo peggiore di quello che ho trovato. Mi è impossibile vedere un qualsiasi progetto di redenzione, una speranza che possa realizzare, come dicono gli anarchici, una Umanità Nuova.
Di fronte agli attentati la domanda che sono portato a rivolgere a me stesso è se sto con gli Americani o con i terroristi, ma io non voglio essere schiacciato tra queste due sole scelte: pensavo di avere un’intelligenza, una dignità, una libertà di pensiero, e invece non l’ho più, devo vivere con l’intelligenza degli altri, con la dignità che si vogliono assumere gli altri, col pensiero degli altri.
Prima di questi avvenimenti potevo pensare di poter vivere con una speranza, ma ora ho l’impressione di aver assistito al gran finale. Non è vero che è cominciata o sta per cominciare la terza guerra mondiale, ma è finita ed ho perso perché il crollo delle due torri non porta nessuna giustizia, nessuna speranza e nessuna dignità.
Quello che sta per succedere invece è l’inizio della quarta guerra mondiale. Noi, da parte nostra, non possiamo fare altro che stare a guardare e provare a ragionare con i “se” che però non ci aiutano per niente: se ci fosse una sinistra italiana potrebbe cominciare una splendida, fruttuosa e lunga battaglia per le libertà. Ma quello che vediamo é l’inizio di una nuova guerra al termine della quale parleranno gli uffici stampa del vincitore e mi racconteranno l’esito vittorioso di una guerra che mi ha comunque visto sconfitto.
*Scrittore

 

 

Un gigantesco lutto da elaborare
Mauro Mancia*

Di fronte ad un avvenimento di morte così eccezionale è necessario che ognuno, vicino o lontano dalla tragedia, rifletta sulle cause che hanno potuto produrre eventi così catastrofici e disumani, che lavori sulla propria mente e pensi alle proprie emozioni mentalizzando l’angoscia ed elaborando una strategia che gli permetta di riorganizzare e dare stabilità al proprio mondo interno che il terrorismo con i suoi folli gesti ha fortemente destabilizzato.
L’apporto più consistente che la psicoanalisi può portare alla conoscenza di questo evento che ha cambiato la nostra storia è quello di indicare come elaborare il gigantesco lutto che si è abbattuto su tutti noi e non solo sugli americani o sugli abitanti di New York, e come proteggerci dalle risposte paranoidi con forti componenti persecutorie che ognuno è spinto a dare di fronte ad un attacco così mostruoso da parte di un nemico sconosciuto e quindi ancor più persecutorio di un nemico visibile.
Da un’intervista di Alexander Stille a Phil Herschenfeld, psicoanalista dell’Istituto di New York, emerge che in ogni superstite si sono manifestati fenomeni gravemente isterici, come quel poliziotto la cui mano destra è restata paralizzata, a suggerire che lo shock non era pensabile e poteva essere significato solo con il corpo, cioè con una conversione isterica. Altri si sono così profondamente identificati con le torri gemelle che si disgregavano di fronte ai loro occhi al punto da temere una disgregazione della propria identità. Questo dell’identificazione è un processo di grande rilievo in queste catastrofi che le televisioni hanno contribuito a portare in ogni casa nel mondo e ad amplificare creando quindi situazioni emozionali che sono esplose quasi simultaneamente in tutto il globo provocando una specie di “globalizzazione” dell’angoscia.
La destabilizzazione del mondo interno di ogni individuo del mondo occidentale ha creato una situazione di angoscia unita alla paura e alla diffidenza che hanno contribuito a creare un clima paranoico in cui il vicino di casa, specie se mussulmano, poteva essere visto come un pericoloso nemico.
Queste ansie sono state particolarmente forti nei bambini. Telefono azzurro, ad esempio, ha raccolto testimonianze di bambini che vedevano kamikaze dappertutto, che comparivano in sogni angosciosi. Tutti questi bambini dichiaravano di non poter dormire e di avere paura della guerra e non erano in grado di gestire le proprie emozioni.
La concentrazione delle colpe nel personaggio Bin Laden e la sua immagine ossessivamente presentata in TV e nella stampa hanno certo contribuito a ridurre l’angoscia in quanto il nemico aveva un volto, ma hanno creato il pericolo di un pensiero pre-logico: poiché Bin Laden è mussulmano, tutti i mussulmani sono potenzialmente terroristi.
Il personaggio Bin Laden resta tuttavia molto inquietante. Il suo paradosso consiste essenzialmente nel fatto che i vari giornalisti che lo hanno conosciuto e intervistato parlano di lui come di un uomo timido, gentile, semplice, che non ha nessuna delle caratteristiche del terrorista. Il suo phisic du rôle è piuttosto quello di un mistico solitario, impegnato più in questioni religiose che in organizzazioni di attentati terroristici. Eppure, nell’immaginario mondiale si è creata di lui un’immagine di uomo cinico, ricco, potente e fondamentalmente assente. Il suo potere, cioè, nasce dall'essere assente, nascosto nelle montagne dell’Afghanistan e quindi introvabile. Viene così ad impersonare l’oggetto persecutorio per eccellenza che non si sa dove sia, ma che può colpire in ogni momento.
Appare sempre più chiaro, inoltre, che i terroristi – sponsorizzati o meno da Bin Laden – hanno creato una organizzazione capillare che coinvolge anche il mondo occidentale. La razionalità vorrebbe allora che l’operazione anti-terroristica fosse mirata e altrettanto capillare e non diretta contro nazioni e cittadini indifesi. Non è di forza che abbiamo bisogno in questo momento, ma di intelligenza. E fa parte di questa intelligenza separare nel mondo arabo e mussulmano la parte terrorista dalla parte più sana e non compattarle in una guerra di religione o di civiltà, parlando senza conoscenze storiche adeguate e senza sensibilità diplomatica di una cultura occidentale superiore a quella mussulmana.
La parola guerra, per quanto sui generis, attiva antichi fantasmi, aumenta l’angoscia in ogni cittadino del mondo occidentale e mussulmano, crea panico che si ripercuote nel mercato azionario e nella produzione internazionale. Capisco che Bush abbia dovuto, sotto l’impatto emotivo, promettere agli americani vendetta, ma l’operazione deve essere affidata alla razionalità e alla tecnologia più avanzata in modo da paralizzare i nuclei terroristici che non sono soltanto in Afghanistan ma anche in altri paesi. Vedo anche altre possibilità come quella, forse non così difficile, di rovesciare il regime dei talebani affiancando l’esercito antigovernativo del nord. L’importante è comunque che tutto il mondo occidentale si mobiliti per paralizzare questo movimento terroristico che rischia di distruggere la nostra civiltà, e ad un tempo rinforzi la sua alleanza con la parte pacifica del mondo mussulmano aiutandolo ad uscire dalle difficoltà umane, giuridiche e sociali in cui è caduto.

* Neurofisiologo dell’Università degli Studi di Milano
Membro ordinario con funzioni di training della Società Psicoanalitica Italiana
Campo di studi: Neurofisiologia del sonno, ricerche sul sogno, sulla memoria e sugli aspetti narcisistici della personalità.

 

 

Un gesto contro l’Islam
conversazione con Renato Mannheimer*

In che cosa il proprio sapere può essere d’aiuto in momenti drammatici come quelli attuali?
Il proprio sapere è l’esperienza di ciascuno di noi, un sapere storico, politico e anche quotidiano che ci deve aiutare ad affrontare le terribili circostanze nelle quali ci troviamo. Ma io credo anche che questo sia uno straordinario momento di sapere e di apprendimento per tutti noi: non a caso, dopo la prima iniziale reazione di sconcerto, la reazione della maggior parte dell’opinione pubblica è stata ragionevole, non certo irragionevole. Dunque, riepilogando: una prima reazione di incredulità, una seconda di paura, di terrore persino, e di sconcerto, infine una reazione positiva, di ribellione, determinata nella sconfitta del male, eccezion fatta per qualche settore isolato e minoritario.

Dunque, a suo parere, l’opinione pubblica occidentale vuole portare fino in fondo questa guerra?
Io credo che l’opinione pubblica occidentale – massimamente quella americana, al 90 % diciamo, ma anche quella europea, solo che al 60-70%, dunque con una netta maggioranza a proprio favore – abbia individuato una priorità ben precisa, quella di sconfiggere il nuovo nemico dell’umanità, oggi rappresentato dal terrorismo, fatto del tutto nuovo e imprevedibile solo fino a pochissimo tempo fa. La schiacciante e determinata maggioranza che si è creata intorno a tale obiettivo mi ha sorpreso.

Il cocktail guerra e recessione rischia di diventare esplosivo.
Non sappiamo che tipo di guerra sarà, ma certo è che la paura della recessione economica sarà senz’altro molto forte. Però non credo sia legata alla paura della guerra in se stessa, ma alla situazione generale d’insicurezza e di paura. Ovvio che la crescita economica ne risenta fortemente.
D’altra parte, sono in molti disposti ad accettare anche questo rischio, specialmente negli Usa, ma anche in Europa. La gente ragione in questo modo: se non facciamo la guerra, se non estirpiamo il male del terrorismo alla radice, ci saranno altri attentati e i terroristi potrebbero non fermarsi mai. Poi, come dicevo prima, vi sono differenze tra l’opinione pubblica americana e quella europea, ma entrambe ritengono utile, necessario e prioritario un attacco militare per sconfiggere il terrorismo.

Quali ripercussioni la nuova drammatica fase che si è aperta avrà nella vita quotidiana delle persone?
I terribili attentati di New York e Washington hanno colpito profondamente la psiche dell’opinione pubblica. È aumentata, ad esempio, la vendita di sigarette: la gente è nervosa, preoccupata. Inoltre, l’elemento nuovo e cruciale di questo attacco terroristico è la sua capacità di colpire ovunque e con modalità inaspettate. Io ho mangiato all’ultimo piano delle Torri Gemelle lo scorso gennaio: se avessero colpito allora, oggi non sarei qui. Il nuovo terrorismo è un nemico insidioso e che si può attaccare ovunque: non si sa più a cosa e a chi bisogna fare fronte e difendersi. Ecco perché la condanna del terrorismo che miete vittime civili in modo indiscriminato è totale e inequivocabile. Uno strumento di lotta, dunque, che – a differenza del passato – diventa oggi inaccettabile, anche se condotto in nome dei diritti e delle difficili condizioni di vita di alcune popolazioni. Non a caso, non vi sono più stati attacchi kamikaze da parte dell’Intifada palestinese dagli attentati negli Usa in poi. Oggi, anche i palestinesi sanno che un attacco terroristico non verrebbe più giustificato da nessuno.

Cosa dice a chi parla di scontro di civiltà?
Mi rifiuto categoricamente di pensare che i terroristi siano l’espressione della civiltà islamica: si tratta semplicemente di estremisti fanatici, come nel corso della storia ve ne sono stati anche tra i cattolici o tra gli ebrei. Peraltro, chi conosce la civiltà islamica sa bene che il mondo mussulmano e lo stesso Corano escludono categoricamente l’uccisione di civili innocenti per affermare l’Islam. Questo è un atto perpetrato contro l’Islam e contro la sua storia. L’unico scontro di civiltà in atto – e che va portato fino in fondo – è quello tra la civiltà dell’uomo e il fanatismo.
* Docente di Scienza politica all'Università di Milano.Studioso dell’opinione pubblica.
*

 

Ecco perché Rambo non ci salverà
Guido Martinotti*

“Attacco!L’è el gran dì. Ma chi capisen no che semm dree anda a muriì” canta con ironia amara il fantaccino della Prima Guerra Mondiale. Ed è difficile non condividere questo senso di fallimento morale e intellettuale  mentre sentiamo le notizie di centinaia di aerei e navi che si muovono nel Golfo Persico. Come nella triste canzone popolare c’è chi suona la tromba. E che lo facciano Bush e (parte de) il suo governo non stupisce nessuno. Ma perché tutti gli speakers(esses) delle radio di stato devono assumere quel tono marzial-trionfale quando raccontano delle navi che partono e degli aerei che volano verso il Golfo Persico?
Avrei una preghiera personale, ma dal profondo del cuore, per queste ottime persone. Sentitevi le registrazioni dei vostri predecessori durante la seconda guerra mondiale e, qualsiasi cosa vi abbiano insegnato, non usate quel tono, non fate le stentoree voci di guerra, chi le ha sentite annunciare avanzate che non c’erano e rotte che venivano chiamate “ripiegamenti tattici” si è sentito tradito da voi e vi odiava. La guerra è favorita anche da un clima di guerra. Il parapaa, parapaa, parapaa, tenetelo in serbo per il campionato di calcio, il Giro d’Italia o la notte degli Oscar. Della guerra si può parlare con voce umana anche quando il mestiere obbliga a dire cose false.
E purtroppo di cose false ne cominciamo già a vedere, a bizzeffe, come quelle scene del carro armato con l’Afghano in turbante sopra, che in una inquadratura muove qualche metro da sinistra a destra del campo e in quella successiva torna indietro degli stessi metri. Inquadratura ripetuta ossessivamente a ogni notiziario (Rete 4 del 26 Settembre). Il cronista può anche essere obbligato a questi trucchi puerili per produrre un certo footage, ma non c’è bisogno di aggiungerci un’adesione emotiva. E invece i mezzi di comunicazione di massa si sono buttati sul clima e sulle immagini militaresche con una foga, un’avidità e un’adesione emotiva che lasciano sconcertati e fanno temere il peggio in caso di vere ostilità. Le voci del dissenso come quella dello studente americano intervistato da Radio Popolare la sera del 23 Settembre notano con grande inquietudine soprattutto questa grande mobilitazione dei mezzi di comunicazione che fa veramente paura perché lascia il comune cittadino totalmente indifeso.
La Grande Armata Navale sta per attaccare un paese che non ha neppure un metro di costa., con una densità di popolazione di 26 abitanti per kmq e che per parte del tempo è avvolto da una sabbia così sottile che i visitatori si ammalano. Ho un ricordo personale del grande sociologo tedesco René Koenig che per anni, dopo una permanenza in Afghanistan, ha avuto seri problemi di respirazione. Paradossalmente la densità abitativa dell’Afghanistan non è molto diversa da quella americana (27.5 ab/kmq) ma è un dato ingannevole perché negli USA il 75% della popolazione è urbana e la percentuale di addetti è all’agricoltura è del 2.% mentre in Afghanistan la popolazione urbana è del 19.2%. La speranza di vita alla nascita nell’Afghanistan è di 44 anni per gli uomini e 45 per le donne, in USA  è  di 73.0 per gli uomini e 79,7 per le donne. Che cosa potranno fare in un paese così le forze armate più potenti del mondo, con elicotteri i cui filtri già in Iran hanno dato prova di non reggere troppo bene a condizioni estreme è un mistero. Non lo dico io, lo spiega  con buona conoscenza di causa il generale russo che ha perso la guerra in quel paese. “We will bomb them back into the Stone age”, è una frase che se ricordo bene viene dalla guerra del Vietnam (con i risultati per gli USA che abbiamo visto, 50.000 giovani americani morti in dieci anni di guerra persa). Ma come dice lo scrittore afghano Tamim Ansary,  è “già stato fatto”. Nell’età della pietra il paese è stato gettato da anni di guerre, dalla distribuzione di dieci milioni di mine uomo (l’Afghanistan è il paese più minato del mondo) e dai bombardamenti degli stessi talebani.
Una “guerra” che sembra quel racconto di fantascienza in cui militari e scienziati (leggi guerrafondai e pacifisti) litigano sui mezzi con i quali far fronte alla minaccia di un blob energofilo, che vive cioè succhiando energia dall’ambiente. Gli scienziati riescono a convincere i militari che un bombardamento sarebbe controproducente perché il blob assorbirebbe l’energia delle bombe e se ne nutrirebbe ingrandendosi. Allora i militari hanno il colpo di genio:”nuke it!”- bombardalo con l’atomica. Senza sentire ragioni, caricano il blob su un razzo a testata nucleare e lo spediscono nello spazio interplanetario in un punto abbastanza lontano dalla Terra per far detonare la bomba H al sicuro. Dopo l’esplosione i militari esultano, il blob è stato spedito nel vuoto in minuscoli frammenti. Ma gli scienziati, che continuano a tenere l’occhio al telescopio si accorgono ben presto che i milioni di frammenti del blob si dirigono rapidi verso il sole succhiandone l’energia immensa e ingrandendosi a vista d’occhio.
Mentre i massmedia suonavano le fanfare e il Presidente americano cercava di rinsaldare la propria opinione pubblica promettendo “we will smoke them out” come si fa con gli insetti nocivi o con le puzzole, si è prodotto un  movimento piuttosto ampio di moderazione e di ripensamento, che naturalmente è stato subito bollato dai crociati come il generale Janne come buonismo, viltà o connivenza con il terrorismo. Ma è esattamente il contrario, chiunque abbia un minimo di discernimento capisce, o dovrebbe capire, che “alzare il livello dello scontro”, come si diceva una volta, fa parte della strategia evidente di chi ha organizzato il massacro dell’11 settembre. Ma i contorni della strategia e la natura degli attori sono ancora del tutto oscuri, nonostante  i fiumi di inchiostro e di immagini prodotti in queste poche settimane. Il presidente del Consiglio però non ha dubbi, è uno scontro di civiltà e noi siamo superiori. Mi ricorda un flemmatico amico che risalendo da una immersione piuttosto impegnativa ragionava così con lo squalo che gli stava davanti: ”Io sono superiore a lui perché ho letto Platone”. Il Cavaliere, Platone forse non lo ha letto, ma ha consiglieri che hanno idee precise sullo scontro tra il nostro mondo e quello dell’Islam e soprattutto legge Guzzanti che per salvare il padrone ((“io poi ho sofferto come una bestia in Senato vedendo Silvio Berlusconi costretto se non a chiedere scusa…”) rispolvera acrobaticamente la distinzione spenglerian-weberiana tra “Kultur e Zivilisation”.
Non c’è da sorprendersi di quel che Berlusconi ha detto, e per una volta tanto, l’ho sentito dal vivo. Intanto non è la prima volta, né sarà l’ultima, che un uomo politico italiano fa la figura del cugino sciocco degli americani. È nella natura della nostra posizione nei confronti degli Usa, di “best friend” combinata con la particolare foga di affollarsi nei primi posti del filoamericanismo che contraddistingue molti politici e intellettuali nostrani. Di suo Berlusconi ci ha solo aggiunto la sua sincerità, che è quella di una classe media che non legge molto, che probabilmente crede che Il crisantemo e la spada sia un film storico, Ruth Benedict un autore di gialli e Clifford Geertz un suonatore di jazz, ha vaghe ma ben radicate nozioni del mondo, basate su salde convinzioni che la Fallaci sia la più grande letterata contemporanea (convinzione totalmente condivisa dalla stessa) che Di Bella sia lo scopritore del Dna, Sgarbi maestro di eleganza, e Muccioli l’autore di Paideia. Nulla da stupirsi, Berlusconi la pensa così, esattamente come i leghisti che seguono Telepadania sono perfettamente convinti di quel che gli racconta l’avv. Taormina, che ne è parimenti fermanente convinto, che gli albanesi sono feroci per un fatto genetico. Mussolini peraltro era perfettamente convinto che gli americani hanno la maturità intellettuale di un quattordicenne e non credo che abbia mai cambiato idea. Le fortezze volanti, le navi Liberty, le portaerei e i mezzi da sbarco? Un accidente della storia. Il dibattito sul relativismo culturale tra Marshall Shalins e Gananath Obeysekeyre? Pirlate. E via dicendo e soprattutto peggiorando con la tecnica tutta italiota di dire e poi smentire. Ma Geddafi, che è intelligente, rifiuta la modesta ritrattazione di Berlusconi dicendo giustamente che Berlusconi era sincero e che esprimeva ciò che pensa la “gente”. 
Se non capiamo la natura di questo terrorismo, non riusciremo a sconfiggerlo. Si potrà spianare l’Afghanistan, ma quelle che i mass media chiamano “le volpi del Desert storm” rischiano di fare la fine del coyote di quei cartoons che vi fano vedere in aereo. Il coyote usa tutti gli strumenti del bricolage meccanico americano (Acme steel nails, Acme TNT, Acme hunting pellets e tutti gli innumerevoli prodotti che si trovano da Home Depot o da Kmart) per incastrare il velocissimo road runner. E ogni volta va a finire che il razzo gli scoppia in mano o il masso gli cade sulla testa.  Se potessi obbligherei tutti i generali americani, compreso il texano Bush che ne è il capo in testa, a rivedersi il cartoon del coyote prima di dare l’ordine di attacco. Tra l’altro il cartoon è ambientato in un contesto desertico e polveroso non molto diverso dai paesaggi afghani che ci regala la televisione. Operazione Aquila Nobile, non meno di dieci anni. Ma in dieci anni si fa un piano Marshall per l’Afghanistan e per tutta l’area mediorientale in grado di portare questi paesi fuori dalla disperazione e dare un impulso all’economia di tutto il mondo. Vi ricordate le proposte di guerra alla fame di Ernesto Rossi e di Paolo Sylos Labini? non erano poi tanto irrealistiche.
Il problema però non si può risolvere così facilmente. Che sia “guerra” come piace ai militari o “atto criminale” come piace alle assicurazioni, quello che è avvenuto è un atto di guerra, tanto più  pericoloso perché non è stato dichiarato da un attore convenzionale. Ed è anche perpetrato con mezzi non convenzionali, anche se abbondantemente previsti dall’immaginario scenico. Quello straodinario abitante di Harlem con il cappelletto rosso che intervistato dal corrispondente newyorkese di Santoro racconta che mentre il primo degli aerei entrava in una delle Twin Towers lui se ne stava davanti alla televisione a farsi una canna e la prima cosa che ha pensato è stata: “Dio, questa roba deve essere davvero buona”.
E per capire la natura di questo terrorismo dobbiamo entrare nella psicologia della disperazione. Che non è islamica o afghana o orientale, ma appartiene al mondo del martirio e dell’eroismo. I difensori di Alamo o i giovani tenentini che andavano all’assalto sul Grappa erano dei suicidi o no? 
Il terrorismo va combattuto, ma non è detto che il bombardamento dell’Afghanistan sia il modo migliore per combatterlo. E se non servisse a nulla o peggio fosse proprio una delle conseguenze intese dai terroristi? Certo l’Fbi, la Cia e tutti gli altri servizi avranno montagne di informazioni che noi non abbiamo, ma finora non hanno dimostrato di essere molto “guzzi” o “sharp” e tutto sommato al di là delle informazioni specifiche occorre poi tenere presente principi generali . E anche chi è convinto che non si tratti di un confronto tra l’Islam e la cultura occidentale (spero davvero che non lo si proponga perché rischiamo anche di perderlo) e chi è convintissimo che le diseguaglianze del mondo costituiscano il terreno di cultura del terrorismo, esistono tempi e modo diversi nell’intervento. Se brucia la casa potrò ben pensare che nelle costruzioni si debbano usare accorgimenti finora tralasciati, ma intanto bisognerà pure che spenga subito le fiamme.
Anche se siamo ben lontani, ma veramente lontani, dall’avere un quadro chiaro, ci sono alcuni punti sui quali vale la pena di fissare l’attenzione, intanto, come è buona norma, andandosi a rileggere le dichiarazioni dei principali interessati che ci erano sfuggite nel mare magnum delle informazioni stampate e raccontate
a) Ha ragione Bin Laden (non perché egli sia buono o giusto, ma perché si tratta di un dato di fatto incontrovertibile) quando dice – un paio di anni fa, se non sbaglio - che le compagnie petrolifere hanno portato a casa miliardi di miliardi di dollari. Ma altrettanti soldi sono rimasti nelle mani delle élites arabe, e Bin Laden appartiene a queste. La quantità di denari accumulata nelle mani di alcune porzioni di queste élites è inimmaginabile, come dimostra la vicenda del Sultano del Brunei. E le operazioni di alta finanza che hanno preceduto e accompagnato l’11 settembre puntano nella direzione di gruppi che non sono solo poveri studenti del Corano armati di Kalashnikov.
b) Non è invece inimmaginabile, anche se al di fuori del mondo romanzato pochi ci hanno finora veramente pensato, che una parte di questo denaro sia in mano a porzioni di queste élites che invece di dilapidarli in scarpe e mogli come il sultano del Brunei, vogliano usarlo per operazioni di potenza, cioè per fare politica.
c) La politica oggi la fanno anche le multinazionali e il petrolio è multinazionale per eccellenza. Per non perdere di vista l’inquietante ma ineliminabile legame tra l’immaginario e il reale, basterà ricordare che  due dei polpettoni dell’estate 2001, quello di Tom Clancy e quello di Le Carrè, pur assai diversi per trama e qualità, hanno in comune il vilain principale, una grande multinazionale. Il romanzo di Tom Clancy è particolarmente interessante perché l’eroe (diciamo l’Anti-smersh) è una forza speciale segreta nominalmente internazionale – ma in realtà del tutto gestita dagli Yankees – non diversa da quella che si sta organizzando oggi. Anticipo le scrollate di spalle alla citazione di testi non paludati, ma per capire quel che sta avvenendo occorre anche quella che Jim Clark deviniva un certo grado di “nuttiness”. Cioè liberarci della categorie convenzionali.
d) Ci sono focolai spinti di un fondamentalismo, che rimane ancora largamente inspiegato per ferocia e capacità di sopravvivenza, in paesi da cui dipendiamo energeticamente come l’Algeria. Ci sono persistenze inspiegabili come quella di Saddam Hussein. Sfido chiunque a dare una spiegazione plausibile del perché Saddam sia ancora lì e che ci facciano i caccia che ogni tanto bombardano militari e popolazione civile con azioni che le vittime non distinguono, per ferocia e  apparente futilità da quelli alle Twin towers.
e) Anche le multinazionali hanno bisogno di basi statali. Il che non significa che la guerra venga da uno stato. È noto che le grandi organizzazioni criminali competono con gli stati per controllare il territorio e hanno bisogno dei famosi “santuari”, cioè dei retrobottega in cui organizzare le retrovie. E la scelta dell’Afghanistan come santuario è eccellente. Ma con tutta probabilità, dal punto di vista strettamente militare, mentre Sas e Seals sono infiltrati nel Panshir le squadre per il secondo colpo (o il terzo) sono già sul luogo di possibili attacchi.
f)  L’attacco dell’11 settembre si è proposto di dare una lezione, non soltanto con il sangue, ma anche con l’eleganza di una prova filosofica ben riuscita. E oltre che con l’orrore tutti sono stati colpiti e atterriti anche dalla incredibile lucidità dell’ideazione e dall’efficienza nella realizzazione. È stata posta una sfida morale. Perché il suicidio pone una sfida morale portata all’estremo. Dire così non significa ovviamente né condividere le motivazioni dei suicidi o dei loro mandanti né lodarli. Ma chi pensa che si possa vincere questa guerra limitandosi a ripetere “l’orrore, l’orrore” si sbaglia. I dirottatori, sono stati chiamati “vili e codardi”, termini usati soprattutto dalla stampa di destra anche per definire i suicidi dell’Intifada. Ma sono termini sbagliati che servono solo a confondere le nostre idee e ad accecarci. Come si può definire vile chi sacrifica la propria vita per una causa? Possiamo chiamarlo fanatico o criminale (anche se in questo contesto il termine andrebbe ridefinito) ma non vile. Queste persone sono degli eroi per milioni e milioni di persone, e trascurare questo fatto, per dar aria alla nostra indignazione, fa un pessimo servizio a noi, e non sposta di un micron l’ammirazione degli altri. Mi ha molto colpito un passaggio del discorso del Presidente della Camera nel quale l’On. Casini esprime il suo stupore per chi sacrifica il bene supremo dell’istinto di conservazione per ragioni ideologiche. Ma un cattolico dovrebbe ben sapere che questo è possibile. L’idea di testimoniare con la propria vita per una idea l’hanno inventata i cristiani con i martiri (testimoni) e questi atti figurano così prepotentemente nel catechismo che mi ricordiobenissimo che c’è stato un periodo della mia infanzia in cui il mio eroe era Tarcisio e aspiravo a morire come lui. Non ci vuol molto a comprendere come in contesti in cui l’esempio del martirio viene raccontato non da un buon prete di campagna in una società relativamente pacifica, ma nell’area della disperazione i ragazzini che ammirano i Tarcisi del caso sono certamente molti e molti quelli veramente disposti ad imitarli.
g) C’è un atteggiamento tipico dei benpensanti per cui chiunque si sforzi di esaminare questi fatti senza far ricorso a categorie convenzionali (il suicida vile e pazzo, le plebi fanatiche dei musulmani, il diavolo Bin Laden eccetera eccetera) viene trattato da delinquente. Eppure non ci vuole l’intelligenza e la competenza di un Cardini (che si aggira sconsolato tra tutti i fogli della destra per cercare di spiegare qualcosa sull’Islam) per capire che in questa situazione non c’è nulla di convenzionale e che se non corriamo rapidamente ai ripari facciamo tutti la fine dei cavalieri francesi ad Azincourt. La povera Susan Sontag che ha cercato di sollevare il problema delle motivazioni etiche dei dirottatori si è subito fatta rimbeccare da Arrigo Cipriani che peraltro ha solo proposto i soliti insulti, ma non ci ha dato una spiegazione alternativa.  Ma ci siamo dimenticati che una delle chiavi di volta non solo del successo militare, ma soprattutto della pace in Giappone è da attribuire al gruppo di Leighton che studiava le culture a distanza e che consigliò McArthur di non eliminare l’imperatore? Ricordiamo che ai tempi di Pearl Harbour i militari americani erano per lo più convinti che i giapponesi essendo piccolini le avrebbero prese dagli Yankee nel corpo a corpo (remember judo?).
h) Purtroppo l’indignazione combinata all’ignoranza è una pessima combinazione per un conflitto rischiosssimo che si annuncia già più simile a una partita a scacchi che a una operazione di carri armati nel deserto. E la destra ha già dato fiato alle trombe, come dimostra il caso del reverendo Falwell che ha dovuto chiedere scusa. Io non so se dall’altra parte della scacchiera ci sia il diavolo e di qui l’angelo. Tendenzialmente rifiuto questo tipo di costruzione che nella storia ha portato più danni che vantaggi. Ma se c’è un diavolo è uno che sta giocando una partita in cui noi siamo in svantaggio perché l’avversario ha certamente avuto molto tempo per preparare parecchie mosse di riserva prima che noi si capisca lo svolgimento della partita.  La creazione di una opinione pubblica che chiede una “retribution” immediata a qualsiasi costo è quasi certamente una mossa della partita, e chi ci cade rischia di farsi mangiare un bel po’ di pezzi prima di recuperare l’orientamento.
i) Fortunatamente, nonostante tutti gli sforzi di una “destra con le palle” che ormai parla come un personaggio di Tom Clancy, in questa partita non c’è contiguità tra la sinistra e i terroristi e l’operazione maccartista, già in pieno svolgimento, del “guilt by association” qui non regge. Bin Laden e i Talebani non hanno nulla neppur lontanamente di sinistra, semmai cercano di costruire la situazione in modo speculare alle destre nostrane. Come loro vogliono la crociata e lo scontro di civiltà. Ma la civiltà dei Talebani è semplicemente un’altra forma di nazismo con il Corano al posto della Bibbia, o del libretto rosso come nel caso di Pol Pot. Sono tutti movimenti prodotti da un disadattamento tra modernità e feudalesimo. Bin Laden è un capitalista feudale che ha i soldi del petrolio e usa tutte le strutture del più sofsticato capitalismo globale. Anche i nazisti parlavano a nome delle cristianità (Gott mit Uns) e si appellavano ai valori dell’Occidente, ma l’Occidente li ha combattuti in nome di valori universali, non occidentali. E ha vinto perché c’è stata una alleanza con il comunismo, che questi valori predicava, anche se i suoi regimi praticavano il dispotismo. Anche oggi dobbiamo puntare ai valori universali, e non è vero che il relativismo culturale ce lo impedisce, perché esiste una dichiarazione universale dei diritti che serve da base per la leva.
j) Si è detto che l’11 settembre segna la fine della globalizzazione, ma è una di quelle stupidaggini che suonano bene, ma non dicono nulla. Semmai un evento come quello dell’attacco alle Twin Towers è la globalizzazione, dentro alla quale si perseguono scopi diversi il profitto, il potere, la conoscenza, non meno della vendetta. Non c’è la “globalizzazione buona” e la “globalizzazione cattiva” questo concetto è il prodotto del puerile modo di ragionare dei media, che devono sempre usare un linguaggio infantile. Esiste un sistema d’accessibilità che crea delle opportunità, che vengono usate da chi è in grado di impiegarle per i propri scopi. Punto. L’attacco alle Twin Towers non fermerà il processo di globalizzazione, non più di quanto le rapine ai treni abbiano fermato la diffusione delle ferrovie.
k) Non è assurdo immaginare che la guerra di Bin Laden ( o del califfo virtuale  come lo chiama Gianni De Michelis) abbia per obiettivo il Pakistan, l’Arabia Saudita o, perché no, anche l’Algeria. La conquista di questi paesi darebbe alla multinazionale nazi-islamista (non all’Islam) il potere di porre una seria minaccia al sistema capitalistico mondiale. E al sistema mondiale tout-court.
Per tutte queste ragioni ho l’impressione che le mosse di risposta all’11 settembre, soprattutto quelle alla Rambo, siano molto al di sotto della sfida che è stata lanciata e che i vaneggiamenti o le furbizie che si sono manifestati in queste settimane servano solo ad accecare e a farci perdere la capacità di elaborare una politica lungimirante. Può darsi che una azione militare serva a colpire questo o quel gruppo di terroristi, ma la rete e il terreno di cultura rimarranno in piedi finché non si elimineranno le condizioni che le nutrono.

*Sociologo. Docente di sociologia urbana all’università di Milano-Bicocca

 

 

Il contrasto diventi  il dialogo
Enrico Menduni*

L'uso pubblico della ragione è difficile quando dall'altra parte non c'è nessuno con cui trasformare il confronto in dialogo. Non c'è un nemico. Satana aveva un impero, l'impero del male, poi prosaicamente è passato in clandestinità. Le Brigate rosse lanciavano proclami, quelli che i giornali chiamavano "farneticanti". Gli attentati alle Torri e al Pentagono non hanno rivendicazioni. Il sospettato Bin Laden nega, e scompare.
L'America ferita richiede una punizione esemplare, una esibizione di forza, chiede che si faccia qualcosa anche se non sa che cosa e dubita, nel proprio intimo, dell'efficacia. Bush deve trovare una testa di turco (interessante metafora) su cui concentrare le passioni di un popolo e l'Afghanistan dei Talebani si presta assai bene. I bombardamenti non distruggeranno se non povere case, nulla cambierà nelle cause profonde del terrorismo, ma ci saranno e dureranno a lungo. Un gran polverone senza risultati e tanti morti.
Il concentrato del sacrificio della vita più l'alta tecnologia mina le basi della nostra convivenza e provoca inquietudini che ci accompagneranno a lungo. Nulla si fa per capire le ragioni di tutto questo. Ma non so se il momento sia adatto. Ora tutto viene travisato, malinteso. Forse ci vorrà del tempo anche per ragionare.
*Docente di Linguaggio televisivo all’università di Siena


 

Cambia il rapporto Usa - Europa
 Antonio Missiroli*

È facile dire che il mondo è cambiato l’11 settembre. Meno facile è immaginare come, in quali possibili direzioni, e con quali prevedibili effetti. Anche perché il mondo cambierà soprattutto in base alla risposta che verrà data alla sfida terroristica. Ad esempio, la solidarietà e la collaborazione (anche militare) offerte a Washington dagli alleati europei nella “guerra” dichiarata dal presidente Bush avranno implicazioni importanti nelle relazioni transatlantiche, soprattutto per quanto riguarda la sicurezza internazionale. Fino all’attacco contro le Twin Towers e il Pentagono, infatti, Stati Uniti ed Europa si erano trovati a dissentire su un numero crescente di temi: dal protocollo di Kyoto alla non-proliferazione, dallo “scudo” antimissile all’eurodifesa. I dissensi non erano cominciati con l’elezione di Bush, si badi. Ma l’approccio adottato dalla nuova amministrazione americana - il “multilateralismo à la carte”, come l’ha definito un suo autorevole esponente, l’ambasciatore Richard Haass – aveva senz’altro accentuato le divergenze. Gli Stati Uniti apparivano sempre più reticenti ad assumersi responsabilità complesse (dal Medio Oriente ai Balcani) e sempre più concentrati su se stessi, dai tagli fiscali alla difesa strategica.
Lo shock dell’11 settembre ha quanto meno rimescolato le carte. Innanzitutto, purtroppo, gli Stati Uniti si sono scoperti più vulnerabili che mai, e ad opera di un aggressore che non ha certo usato missili nucleari intercontinentali ma, più semplicemente, le linee aree interne americane: un aggressore assieme primitivo nella sua violenza e post-moderno nella sua condotta - usando strumenti civili contro simboli economici e politici - in un’azione che è stata allo stesso tempo messaggio, mezzo e fine. Nel dichiarargli “guerra”, gli Stati Uniti si sono accorti di aver bisogno di collaborazione – anche da parte di paesi non proprio amici – e di dover perfino svolgere proprio quel ruolo di “sceriffo globale” che avevano appena dichiarato di rifiutare. In questo contesto, gli europei hanno fatto la cosa giusta: hanno offerto appunto una solidarietà incondizionata e un sostegno invece più mirato, basato anche sulla loro esperienza. Un’esperienza di lotta, più che di guerra, contro i terrorismi – al plurale, endogeni come esogeni – che li hanno afflitti nei decenni passati. Una lotta che puntava più a contenere e a prevenire (e qualche volta dirottare altrove) il terrorismo esogeno che a cancellarlo, ben conoscendone le capacità di rigenerazione, e che accettava un certo livello di vulnerabilità. Certo, gli europei hanno anche assunto un rischio: quello di partecipare ad un’azione che difficilmente potranno determinare in tutti i suoi aspetti e di cui potrebbero comunque subire le conseguenze. Ma, appunto, hanno presentato agli alleati americani la loro ‘carte’ del multilateralismo, che comprende collaborazione diretta, condivisione delle responsabilità e dei rischi ma anche, sperabilmente, una qualche influenza sul corso dell’azione comune.
Difficile al momento indovinare cosa accadrà allo “scudo” antimissile, o alla stessa Nato, soprattutto se sarà chiamata a svolgere un ruolo militare diretto nella risposta all’11 settembre. Ma è probabile che, se gli Stati Uniti dovranno trovare un equilibrio diverso fra unilateralismo e multilateralismo, l’Europa dovrà trovarlo fra protezione e proiezione, accelerando sia la sua integrazione interna sia la sua capacità di azione esterna. Ciò vale tanto per le politiche antiterrorismo - da condurre sempre più su scala transnazionale, superando le schermaglie bilaterali sull’estradizione e sullo scambio di dati - quanto per le operazioni di mantenimento della pace. È quasi inevitabile, infatti, che l’impegno americano nella “campagna” (forse il termine più appropriato) contro il terrorismo finirà per lasciare sempre più l’Europa agli europei - a cominciare dai Balcani - rafforzando in questo caso, più che modificando, una tendenza già in atto, ad esempio in Macedonia. Per diventare un attore internazionale degno di questo nome e un partner credibile per gli Stati Uniti, l’Europa sarà dunque costretta a fare i conti con le sue esitazioni e incoerenze interne – il che non significa necessariamente che vi riuscirà.

* Ricercatore presso l’Institute for Security Studies, Western European Union (Ueo - Unione Europea Occidentale), Parigi.

 

 


Uno scontro tra cattivi?
Stefano Nespor*

 “All’improvviso, ho visto un missile contro il palazzo, tutto ha preso fiamme, ho visto gente che si buttava fuori dalle finestre e cadere, cadere; poi l’edificio è crollato. Sono morte centinaia di persone”.
Non stiamo parlando del World Trade Center.
Questa è la deposizione di una donna che ha assistito alla distruzione di un condominio residenziale nel centro di Panama City, colpito da un bombardamento durante l’attacco degli Stati Uniti, per ordine del presidente Bush (il primo), per catturare il presidente\delinquente Noriega, portato al potere dagli stessi Stati Uniti in precedenza. Vi ricordate di Panama, o televisione e quotidiani non ne hanno parlato abbastanza?
È stato un atto di polizia, di autodifesa, di aggressione, di guerra o di terrorismo?
Certamente, non è stato un caso isolato.
Questo significa che non siamo in presenza di uno scontro tra buoni e cattivi. Siamo in presenza di uno scontro tra cattivi, anche se di diverso grado e intensità.
Chi perde, in questo scontro, gli sconfitti, le vittime, sono sempre gli incolpevoli.
A Panama, al World Trade Center  e con buona probabilità in Afganistan.
 Eppure, il terrorismo e l’attacco al Wtc non sono la conseguenza della politica militare, economica, ambientale degli Stati Uniti?
Il terrorismo e l’attacco al Wtc sono molto di più. Sono un attacco al pensiero occidentale, allo stato di diritto, all’idea non tanto di libertà quanto di tolleranza che il pensiero occidentale ha faticosamente conquistato, dopo secoli di guerre di religione e di contrapposti fanatismi. Sono questi i valori che ai fondamentalisti religiosi (non necessariamente fanatici, e non necessariamente islamici)  non piacciono.
È uno scontro non di politiche, ma di religione Bush (il secondo) lo ha capito e per questo ha detto che Dio è con noi (rispolverando parole in disuso dalla prima guerra mondiale).
 Il Wtc marca qualcosa che tutti avevamo più o meno sottovalutato (e che la Gran Bretagna ben aveva compreso nel XIX secolo, allorché aveva perseguito l’obiettivo primario di mantenere l’Europa continentale frazionata), e cioè la fragilità, l’instabilità e l’imprevedibilità di un sistema monopolare di governo del mondo. 

*Avvocato

 

 

“Impariamo a conoscerci”
Sergio Noja Noseda*

Mi ha sinceramente colpito la chiarezza della domanda-affermazione di Reset  nell’invitarmi a scrivere queste poche righe sugli avvenimenti – gli aggettivi, pur centrati, si sprecano – dell’11 settembre 2001 .
Sì, gli attentati di quel giorno hanno modificato la nostra ordinaria visione del mondo . Senza analizzarne le ragioni non fu tale il bombardamento di Guernica, podromo tecnico alla distruzione di Coventry e ai bombardamenti su Londra. Questi furono solo esempi per l’ avversario: gli aerei alleati risposero con lo stessa tecnica su Dresda e le altre città tedesche e in minima parte anche su quelle italiane. Ma la coscienza della nostra civiltà , e secondo me di tutte le civiltà disegnate dall’Huntington , compresa, è bene dirlo subito, quella islamica si rifiuta di imitare quell’esempio riempendo di missili edifici ed inermi cittadini .
L’incredibile infausto momento che abbiamo vissuto mentre gli stragisti, che si suppongono di matrice islamica, uccidevano con la loro pazza azione combinata migliaia di americani ignari di cosa stava accadendo: dal super manager davanti alla sua scrivania onusta di video terminali alla donna delle pulizie con il suo carrello carico di scopette e di detersivi, non mi fa deviare di un millimetro da ciò che ho lentamente elaborato nel mio pensiero: l’Islam non è solo una religione ma una civiltà con tutti gli estremismi del pensiero, estremismi che all’uomo risalgono e non al mondo nel quale è stato educato e vive tanto è vero che anche le efferatezze naziste fanno parte della civiltà europea. L'Islam caratterizza con questo nome tutto ciò che congloba: lo si può addirittura vedere come uno stato più che una religione nel senso che ormai diamo in occidente a quest’ultimo termine e tutto ciò di quel mondo è figlio e da quel mondo promana va chiamato "islamico".
L’Islam è una civiltà che nasce dalla religione islamica, come la civiltà occidentale deriva dalla religione cristiana. Ma la civiltà occidentale contiene in sé Voltaire come Hitler. E così l’Islam è una civiltà composita, articolata che al suo interno contiene anche un grande poeta come Abu-Nuwas che, come altri, cantava il vino, proibito dalla religione. La religione islamica è una religione di Legge, legge divina naturalmente. Alcuni Stati all’interno di questa ecumene hanno stabilito che l’unica legge in vigore sia la legge divina. Ma questo nulla ha a che vedere con gli attacchi terroristici scatenati contro l’America. Il giovane che uccise il generale Kléber durante la ritirata dei francesi in Egitto, lo fece su un preciso disegno "politico" che a lui era stato spacciato per religioso".
Confondendo gli stragisti ( sono orgoglioso di usare questa parola coniata da Montanelli su “Il corriere della sera” e ristampato su “Oggi” del 19 settembre nel nobile tentativo, riuscito solo in parte, di eliminare dalla nostra lingua “bombarolo” e “kamikaze”: bombarolo è sparito ma kamikaze è sopravvissuto) di New York e di Washington , ancorché nati nell’Islam, musulmani e ispiratisi all’Islam, con la civiltà islamica si commette un errore madornale. Basta pensare che solo un piccolo numero di abitanti dell’Africa è cannibale !
L’Occidente non cada nella trappola dello scontro fra civiltà. Samuel Huntington ha fatto un bellissimo lavoro nel disegnare le civiltà ma ha commesso l’errore di porre nel titolo del suo libro la parola clash ovvero ‘scontro’.
Sono sempre stato convinto, ed oggi più che mai, che questa parola vada sostituita con "contrapposizione", sfida, competizione, che non necessariamente devono essere armate. Il pericolo risiede ancora nell’ignoranza, perché le masse arabo-musulmane vivono per quello che gli hanno trasmesso e insegnato gli avi e oggi i media e non per quello che realmente è la nostra e al limite la loro civiltà".
Si parla tanto di aggressività della “civiltà islamica”. Certamente lo è ma nel senso che intende portare l’Islam al mondo, cioè convertirlo. Ma questa non è prerogativa dell’Islam: anche la religione cristiana, infatti, è missionaria, tende al proselitismo, cosa che non è, per fare un esempio, la religione ebraica. Ci sono peraltro religioni missionarie, come quella buddista, che non prevedono la lotta armata: i tibetani erano un popolo guerriero e crudelissimo ma che, convertito al buddismo, è diventato un popolo pacifico e pacifista.
Non possiamo praticare oggi quella che una volta, buona per lo spirito dei tempi, fu "la politica delle cannoniere" di sua Maestà Britannica. Non possiamo usare la tragedia di Manhattan per regolare i conti con l’Islam, fosse anche solo con la sua parte più radicale. È questo, ancorché capace di cambiare il modo di fare la guerra su base planetaria , il comportamento di un limitato numero di persone fondamentalmente in malafede, rispetto all’Islam – ma anche da noi: chi non ricorda il film Il Dottor Stranamore ? - e che, come molte volte nella sua storia, hanno strumentalizzato la religione per fini di potere. Questo anche e proprio all’interno dell’Islam dove la religione è stata spesso e volentieri strumentalizzata da gruppi di potere per uno scontro politico alla mors tua vita mea tra le varie fazioni. A ciò va aggiunto che oggi la cosiddetta “Guerra Santa” - tralascio le spiegazioni pseudo-filologiche – è una “bufala” che piace molto in occidente a chi ama vedere l’Islam fatto di minareti, lune, e cammelli mentre l’Islam ha imparato a gestire sofisticatissime tecnologie con una fantasia e una creatività andata al di là di ogni nostra , purtroppo statica , immaginazione.
Entrando nel particolare vi è un grosso – uso quest’aggettivo per dire che il fenomeno è più “grossolano” che “grande”’ – ostacolo che non è facile rimuovere: quello della “conoscenza reciproca” .
Di qui e di là, diciamo del Mediterraneo, si studia poco l’altro e comunque di più in Occidente l’Islam di quanto non si studi l’Occidente in Oriente.
Gli è che le Chiese cristiane si sono sempre occupate, e a loro modo a ragione, di essere missionarie e di mostrarsi felici della conversione dei musulmani . Il materiale pubblicato nei secoli è stato ed è sempre missionario. Basti pensare che questi libri nelle lingue dell’Islam, massimamente l’arabo, furono sempre stampati a Roma in dimensioni ridotte per essere occultati in dogana e che, quando nel 1922 si parlò di “repubblica” nell’ex Impero Ottomano la stampa cattolica si aspettò milioni di convertiti che, con tristezza in Vaticano, furono solo due!
Rimanendo in questo campo le difficoltà corrono all’ estremo con il cosiddetto “colloquio tra le religioni” portato avanti dal Vaticano a Roma con il Pisai, il Pontificio Istituto di Studi arabo islamici, e da molti vescovi come a Milano con il misero caso del Cadr, il Centro Ambrosiano di documentazione per le religioni . Ancora una volta si batte sul tasto “religione” - anche se la prima frase del documento illustrativo del Cadr dice “alle soglie del terzo millennio, l’incontro fra le diverse culture e tradizioni rinnova il volto delle società -- e non su quello della “civiltà”.
Tra le religioni non si può e non si deve “dialogare”. Questo è il mio pensiero. Ogni dialogo porta con se sempre una nube ove si nasconde , e anche malamente, un “tentativo di conversione” .
L’unica possibilità di dialogo è uno sforzo dei governi e delle istituzioni ad esso legate per promuovere la conoscenza reciproca senza parlare di religione. E qui vedremo .

*docente di Lingua e Letteratura araba presso l'Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano

 

 

La democrazia come la dittatura?
Corrado Ocone*

Abbiamo visto, in questi giorni, tante immagini. E abbiamo letto tanti commenti e interpretazioni. I punti fermi alla fine, a mio modo di vedere, sono pochi. Ne enuclerei sostanzialmente due: l’attacco alle Torri Gemelle di Manhattan è forse il primo eclatante episodio di un nuovo tipo di guerra (new war), che io chiamerei la guerra postmoderna; l’Occidente, o ciò che approssimativamente chiamiamo tale, si è trovato sprovviste di armi concettuali e pratiche atte ad affrontare questo nuovo tipo di guerra.
L’attentato di New York è, per vari motivi, qualcosa di più di un tradizionale atto terroristico. Ma è pure, da un altro punto di vista, qualcosa di meno, o meglio qualcosa di diverso, da una guerra, o almeno dalla guerra come siamo abituati a concepirla.
Rispetto ai tradizionali atti terroristici, quello dell’11 settembre presenta caratteristiche nuove. Ha destato meraviglia il fatto che i terroristi abbiano dimostrato una profonda maestria nell’utilizzo delle più sofisticate possibilità offerte dal progresso occidentale ( possibilità tecniche, economico- finanziarie, di comunicazione mediatica). Ma è secondo me importante sottolineare anche il fatto che, almeno fino ad oggi, sia mancata, da parte dei terroristi,  una formale rivendicazione dell’attentato: che anzi i talebani abbiano detto: “all’America ben gli sta, ma non siamo stati noi”. La strategia di chi ha colpito è quella di seminare panico, di diffondere paura, di generare incertezza. Di trasmettere un messaggio ambiguità: un messaggio insieme di lontananza (“siamo diversissimi da voi”), ma anche di vicinanza (“siamo fra voi, stiamo assediando la vostra cittadella che nonostante tutta la vostra potenza non è affatto così sicura come credevate” ).
I terroristi uniscono l’estremamente arcaico di un’interpretazione quasi “rurale” della religione con l’estremamente contemporaneo del sapersi muovere con destrezza fra i nostri più raffinati e sofisticati strumenti. D’altronde il postmoderno è proprio questo: la capacità di muoversi fra vecchio e nuovissimo, fra locale e globale, fra misticismo e razionalismo astratto.
Le domande che ora sorgono sono tutte inquietanti: ammesso e non concesso che Bin Laden sia l’unico mandante dell’operazione, quanti Bin Laden potenziali o reali, quanti stati e quante organizzazioni intra e interstatali, possono presto agire con uguale impeto e forza? E il fatto stesso che l’impensabile sia accaduto non allarga per ciò stesso lo spettro delle possibilità? E come può l’America colpire un nemico che, anche se distrutto, può riemergere come un araba fenice (nomen omen) in un altro posto; che, come è stato detto, non è solo altro da noi ma anche fra noi (studia nelle nostre università, fa affari con noi, conosce meglio di noi le tecniche della comunicazione simbolica e politica)? E un eventuale attacco all’Afghanistan come può essere di esempio se in molti non temono, anzi cercano, la propria morte e la morte della gente comune? Si consideri a tal proposito un fatto: se la morte dei civili era nelle guerre antiche rara; se poi nel “secolo breve” è diventata un semplice “effetto collaterale”, detestabile ma comunque da mettere in conto; ora, nella nuova guerra, nella guerra del nuovo secolo, i civili sono di proposito l’obiettivo che si vuole colpire. E perciò, come a New York, si colpisce dove ( come nei grattacieli ) ve ne sono di più. Noto en passant: un misticismo religioso così radicale non è poi tanto lontano dal nichilismo cinico di tanti giovani occidentali, di tanti gruppi da “Arancia meccanica” che per noia o indifferenza, senza un motivo, uccidono.
Cosa fare? Come agire? Quali alleanze deve cercare chi finora ha creduto nella ragione e nel liberalismo e vuole continuare a credervi anche nella postmodernità?
Per agire, secondo me, dobbiamo iniziare a capire. Comincio con l’osservare, a tal proposito, che una volta tanto Berlusconi ha ragione (d’altronde non c’è da preoccuparsi nel dare ragione al Cavaliere: i leader politici tutto sommato contano poco e passano, mentre i valori rimangono). La civiltà occidentale è superiore alle altre: non diversa, ma superiore. Solo se anche noi di sinistra avremo il coraggio di dire ciò, di dirlo a voce alta, avremo un futuro.
Capiamoci. L’Occidente ha commesso e commette non solo tanti errori, come qualsiasi individuo o aggregato di individui, ma ha commesso e commette continuamente nefandezze e porcherie. Ma il problema è un altro. In certi casi, se si vuole comprendere a fondo qualcosa, bisogna tenere rigorosamente distinto l'ambito empirico da quello ideale. E, sul terreno ideale, l’Occidente, ripetiamolo, è superiore. Il suo principio è infatti etico: l’Occidente promuove sempre in primo luogo il dialogo, il confronto, la soluzione ragionata, persino l’onorevole compromesso. Di fronte all’altro da sé l’Occidente inteso come concetto ideale non si pone mai, all’inizio, di petto, ma sfodera subito le armi della critica e dell’argomentazione. Dal diverso trae fuori tutto quanto è accettabile e condivisibile e lo metabolizza. Trasforma l’altro e ne è trasformato. L’Occidente non è un’ipostasi, non è nulla di statico, non è un insieme fisso di valori. E’ piuttosto un insieme di valori in continua trasformazione. Ma di valori appunto si tratta. Ha ragione Panebianco ahimé (anche questa volta bisogna dar ragione a chi spesso non ci convince). Il nemico dell’Occidente è il relativismo, cioè un modo falso di intendere i suoi valori. Che sono valori forti e che vanno fortemente difesi, anche se sono i valori del pluralismo, della tolleranza, della democrazia. L’Occidente non può porsi in modo paritario verso il suo contrario né verso chi ritiene che tutto sia uguale, la democrazia come la dittatura. L’Occidente offre spazio al diverso, il suo contrario lo demonizza. Per poter continuare a dare spazio al diverso l’Occidente deve perciò combattere il suo contrario.
D’altronde, il fatto stesso che tanti antioccidentali a buon mercato siano fra gli abitanti dell’Occidente, soprattutto fra i giovani, è un segno della sua forza: l’Occidente dà così tanto spazio alla critica  da permettere che persino i superficiali e gli irriflessivi dicano la loro. Sarebbe però auspicabile che almeno le élites intellettuali abbandonino una volta tanto la facile strada del “politicamente corretto” e che comincino a ragionare senza atavici preconcetti. Nell’arte del capire, cioè nella messa in opera della sua essenza più profonda, consiste l’unico contributo che l’Occidente può dare in questo momento.
Il sapere può dare un importante contributo alla battaglia che tutti combattiamo, e va da tutti accuratamente coltivato. Ancora una volta è però essenziale che siano i chierici a dare l’esempio e a non tradire.
*Giornalista

 

 

Meno libertà per tutti
Massimo Paci,*

Ripensare a quanto è successo è già un momento di sconcerto e la prima osservazione non può che essere personale: in queste poche settimane io stesso ho subito una sorta di riposizionamento etico-pratico e vedo come misere e insignificanti alcune questioni della vita quotidiana che prima mi sembravano momenti cruciali della mia vita o grandi temi, grandi battaglie sulle quali spendersi, compresi i difficili e complessi consigli di amministrazione del grande ente che oggi presiedo, l'Inps. Ma queste incombenze quotidiane mi appaiono ben diverse, oggi, dai problemi di fondo del mondo d'oggi: è come se mi risvegliassi da una situazione d'assenza dei valori fondamentali dell'esistenza. Bisogna che noi tutti rimettiamo nel giusto e dovuto ordine le cose, anche noi scienziati, intendo.
Del resto, se il distacco dalle cose minori della vita è proprio dello scienziato, bisogna capire di quale scienziato stiamo parlando. Lo scienziato classico (il filosofo o il naturalista) osserva le cose senza lasciarsi coinvolgere (è un classico l'esempio del "naufragio con spettatore") con un atteggiamento che può portare a guardare a un terremoto come inevitabile conseguenza degli sconvolgimenti naturali (come Plinio il Vecchio davanti alla distruzione di Pompei). Poi c'è un altro tipo di scienziato, quello sociologico, che ha una visione altrettanto distaccata, ma meno coinvolta dalla politologia o dalla storia perché studia la scienza del comportamento irrazionale degli uomini, la scienza degli effetti inattesi. Il sociologo non è un osservatore neutrale, ma partecipante e lo sforzo dovrebbe essere proprio quello di riuscire a capire cosa succederà adesso e quali effetti avranno sul futuro le risposte che cerchiamo di dare. Ecco, ad esempio io credo che la guerra sia una risposta sbagliata in quanto non c'è un esercito nemico evidente da combattere, ma credo anche che le restrizioni alle nostre libertà saranno sempre maggiori. Il crollo dei consumi, persino la limitazione di certe forme di pubblicità, che è uno degli effetti di questa guerra, anche forme salutari di autocontrollo e di autoriduzione dei propri sprechi, si accompagna però ai rischi di una popolazione civile limitata e autoregolamentata nelle proprie scelte. Controlli sempre più stringenti sugli aerei, negli stadi, persino nella circolazione automobilistica, limitazione alla privacy negli Usa, l'introduzione della carta d'identità nel Regno Unito, alcune tentazioni censorie presenti persino nel nostro Paese, rischiano di essere un rimedio peggiore del male e non aiutano a fare il vuoto attorno ai terroristi ma aumentano il controllo occhiuto dello Stato sulle vite delle persone e spingono i cittadini a chiudersi a doppia mandata a casa propria. Del resto, è lo Stato stesso - nella sua concezione classica, nazionalistica, territoriale - che non è in grado di combattere un terrorismo che è ovunque, che si riproduce su scala mondiale, mentre il pericolo di un'involuzione radicale delle libertà nella società moderna si fa, anche grazie a questi tragici fatti, via via più concreto. Temo che questo attitudine al controllo dall'alto non potrà che crescere e dunque il terrorismo finisce per manifestare il suo vero volto, quello di strozzare la "globalizzazione buona", che ne esce sconfitta. Dunque, avremo più barriere e più controlli, si ridurranno la mobilità delle persone e lo scambio d'informazioni. Una catena di effetti perversi e inattesi, è la dote del terrorismo, e pericolosissima.

*sociologo e presidente dell'Inps

 

La ragione democratica
Gianfranco Pasquino*

Dove come quando abbiamo sbagliato noi occidentali, democratici, progressisti? E, adesso, possiamo rimediare, e come? Sì, credo che quello fra il mondo arabo-musulmano e l’Occidente sia effettivamente uno “scontro di civiltà”. Non è tale perché si contrappongono due religioni, l’islamismo e il cristianesimo, che entrambe contengono radicati pericolosi sanguinosi fondamentalismi. E’ tale, invece, nell’accezione più pregnante di civiltà: usanze, credenze sociali, aspettative, comunioni di storia e memoria, stili di vita.
   A fatica e mai completamente, in Occidente siamo riusciti a separare la politica dalla religione e a renderla un’attività per lo più autonoma dai dettami religiosi e da coloro che, purtuttavia, continuano a pretendere di dettare i comportamenti. Non mi risulta che l’interpretazione prevalente del Corano consenta, faciliti, accetti la separazione fra politica e religione.
   A fatica e incompiutamente, in Occidente siamo riusciti a costruire sistemi politici nei quali il potere viene affidato, temporaneamente, a chi vince le elezioni, e viene utilizzato secondo regole precise che stabiliscono, fra l’altro, che l’opposizione deve avere suoi spazi e non deve mai essere eliminata. Non mi risulta che esista un solo Stato arabo nel quale il potere è stato acquisito da governanti che hanno vinto libere elezioni e nel quale gli oppositori hanno qualche possibilità e qualche probabilità di conquistare pacificamente il potere di governare.
   A fatica e contraddittoriamente, in Occidente abbiamo esteso i diritti civili, politici e sociali a tutti i cittadini e, spesso, anche ai non-cittadini. Non mi risulta che esista eguaglianza di diritti in nessuno Stato arabo persino a prescindere (ma perché mai?) dalla deplorevole condizione delle donne in Afghanistan, in Iran, in Arabia Saudita. In Occidente critichiamo le inadeguatezze dei nostri sistemi politici e dei nostri governi e le violazioni che continuano ad avvenire, e di cui siamo acutamente consapevoli, in nome di principi e di criteri formulati in Occidente, ma che, in qualche modo, possiamo oramai considerare universali. Non è certamente un caso se, dal Pakistan di Benazir Bhutto all’Algeria, dall’Egitto alla Birmania del Premio Nobel Aung San Suu Kyi, gli oppositori facciano costante e tenace riferimento ad una concezione di democrazia, di diritti, di giustizia sociale che è nata in Occidente ed è, anche grazie a loro, diventata universale.
   Condividendo questi principi, questi diritti, queste concezioni noi europei e americani, perché non abbiamo provato ad esportarli? Abbiamo forse sbagliato nel pensare che “loro”, gli altri, gli arabi hanno tradizioni che debbono essere rispettate, che sono ugualmente valide, anche quando mutilano le loro donne, lapidano gli adulteri, tagliano mani e teste a ladri e oppositori? Abbiamo forse sbagliato a pensare che non esistano effettivamente diritti umani universali? Abbiamo forse sbagliato a disinteressarci perché, in fondo, era un problema loro, dell’arabo della strada, quello di detronizzare elites corrotte, violente, ingiuste che si appropriano di tutte o quasi le ricchezze dei loro paesi e mantengono le “loro” masse in uno stato di impoverimento brutale per meglio asservirle e manipolarle? Crediamo, in maniera etnocentrica, che quei popoli non siano capaci di costruire e praticare la democrazia?  Siamo assertori di un deprecabile e fallimentare relativismo etico e culturale?
   Per fare un buon uso collettivo della ragione, credo che dovremmo cominciare a discutere del valore universale della democrazia, dei diritti, della giustizia sociale (magari sapendo e dicendo che le società giuste sono abitualmente molto più sviluppate delle società ingiuste). Dovremmo abbandonare un malposto, malformulato, fuorviante etnocentrismo che è, in effetti, razzismo, più o meno consapevole (noi, sì, sappiamo fare funzionare una democrazia, loro, no, non sono adatti). Senza rinunciare alla punizione dei terroristi, che è un principio cardine dei sistemi giudiziari di qualsiasi democrazia, dovremmo lanciare una potente e pressante offensiva diplomatico-culturale. In assenza di una critica delle idee rimarrà soltanto la critica delle armi. Si giungerebbe ad uno scontro di fondamentalismi, che sono l’esatto contrario del ragionare discreto, argomentato, prolungato che l’Occidente ha imparato spargendo per secoli il suo sangue, il sangue dei suoi dissenzienti, dei suoi democratici.
*Politologo  

 

Il centro e la periferia dell’Impero
Pasquale Pasquino*

La mattina dell’11 settembre stavo andando al mio ufficio nella School of Law della New York University, dove insegno, quando la torre est del World Trade Center mi è scoppiata davanti agli occhi. Ci ho messo più di qualche ora a capire che la combustione del carburante dell’aereo aveva prodotto una temperatura di 2000 gradi, e che ne bastano mille per fondere le putrelle d’acciaio, che sostenevano l’impalcatura delle Twin Towers.
Quando allo stupore dinanzi al crollo si è sostituito l’orrore per i morti sono scappato a casa di un amico non per paura, ma per il bisogno insopprimibile di non essere solo e di poter parlare con qualcuno di ciò che stava accadendoci addosso.
Nei giorni che hanno seguito l’attentato terroristico a New York abbiamo diviso il tempo fra il forzarci a riprendere, al più presto ed al meglio, le nostre attività quotidiane ed il parlare di quello che, in un terso mattino d’estate, aveva stralunato le nostre vite.
La prima reazione è stata, insieme ai gesti della solidarietà, la parola. Non solo come tentativo di articolare una risposta razionale agli eventi, ma come un mezzo di sfogo delle paure, di condivisione delle angosce, di tentativi, confusi, dolenti o furiosi di anticipare lo sviluppo degli eventi.
Ieri sera, però, il paese si è fermato e si è messo all’ascolto. Il 20 di settembre, il Presidente Bush ha parlato dinanzi al Congresso per l’America; e, volenti o nolenti, questa è ormai la voce che riassume per il prossimo futuro la volontà della nazione colpita.
G.W. Bush ha parlato il linguaggio del primo impero senza più frontiere. Michael Walzer, una delle voci più limpide della cultura liberale americana, ha richiamato stamattina sulle colonne del New York Times la necessità in questo momento di definire il "campo di battaglia" di una strana guerra che non conosce frontiere. A me sembra che il carattere saliente di questo scontro sia che esso proviene al tempo stesso dal centro e dalla periferia dell’impero. Dall’interno degli Stati Uniti, perché è qui che vivevano i terroristi che hanno abbattuto il World Trade Center ed è in questo paese che hanno imparato a guidare gli aerei, usati nel loro attacco come missili da guerra contro i simboli del nostro mondo. Dalla periferia, perché non c’è più un luogo altro, come negli anni della guerra fredda e fino alla fine dell’illusione comunista, che identifichi un’alternativa possibile alla nostra concezione della civiltà, un altrove con cui l’occidente debba misurarsi, fare i conti o proteggere frontiere comuni. Nemmeno la Cina pseudocomunista rappresenta più un’alterità di questo genere, affaccendata com’è a costruire la sua versione predemocratica di una società di mercato.
Sono rimaste ai confini dell’impero solo lande desolate: le città morte dell’Afganistan, i milioni di poveri cristi oppressi dal tiranno di Bagdad, i palestinesi abbandonati a loro stessi in Cisgiordania e nella striscia di Gaza. E altri luoghi di inenarrabile miseria, dai villaggi del Magreb alle baraccopoli dei più poveri fra i paesi abbandonati da dio e dagli uomini.
Questa periferia dell’impero soffre, sempre, in silenzio come nell’Africa nera. Essa talvolta maledice e brucia le nostre bandiere; raramente produce, purtroppo per noi e per loro, una forza d’odio che va oltre la soglia della vita, nutrendo squadre di dannati che gridano di nuovo, contro di noi e contro se stessi, il vecchio ritornello di "viva la muerte".
Il nemico dell’occidente è questa palude infetta dove si confondono povertà materiale, miseria morale di ogni specie, e l’assenza feroce di ogni speranza.
L’impero colpito, e sia chiaro che io con esso io mi identifico perfettamente, ieri sera ha ruggito ed è pronto oggi a combattere ed a pagare il prezzo di una lotta lunga e difficile contro gli insetti feroci che infestano la palude e che portano altrove, fino alle nostre case, la peste della morte nostra e loro. E certo questo combattimento di emergenza è dolorosamente inevitabile. Anche se nessuno ci può promettere che sarà condotto in modo intelligente ed efficace.
Ma se la palude non sarà bonificata, se le lande non verranno un po’ alla volta ricoperte di alberi, se la nostra ricchezza non diventerà, in qualche misura, anche la loro, se gli sbatteremo in faccia le porte della speranza, ai nostri figli e ai figli dei nostri figli capiterà di dover dire: guai a noi, per colpa di quei nostri padri che hanno vinto.
* Docente alla School of Law della New York University.

 

 


Il sapere, un bimbo che deve crescere
Luigi Pedrazzi*

Di fronte al terrorismo, che dall’11 settembre sembra divenuto una potenza mondiale di tipo nuovo, e alla guerra crociata che gli Usa si propongono di condurre cercando l’appoggio di una larghissima e difficile alleanza internazionale, la vostra domanda, coraggiosamente (o ingenuamente?), chiede quale sia il valore del “sapere” .
Modestissimo, direi, almeno al fine di preparare e dirigere azioni politiche. Altri aspetti dell’interiorità umana, molto diversi qualitativamente dal sapere (la paura, il pregiudizio, le abitudini comode, l’ambizione, l’arroganza ideologica, i calcoli di interesse) prevalgono nel determinare le decisioni umane, senza  che sia utilizzato gran che del sapere esistente: quel sapere che già è in atto nella mente degli uomini più riflessivi, o sta disseminato silenzioso nelle nostre biblioteche, o oggi è potenzialmente accessibile in migliaia di siti, file, link. Per tacere dei cuori che sono sapienti per l’esperienza del dolore e della semplice bontà di voler bene al prossimo.
Sono prevalenti tra noi decisioni che utilizzano solo un minimo del sapere esistente (e quasi nulla della fraternità sperimentata): Esse prendono forza piuttosto dalle ondate delle emozioni e si incanalano in improvvisazioni sovente pericolose: avviene ad opera di singoli uomini, nell’ambito delle loro responsabilità private, e, in misura ancora più abbondante, ad opera delle persone che hanno responsabilità pubbliche, al vertice delle nostre istituzioni, sotto la pressione di tanti “sondaggi” delle opinioni: con conseguenze pesantissime, quali emergono in tempi medi e durano poi a lungo.
Anche per questo il “sapere”, tra noi, è sempre un bimbo che deve crescere, aspettando che nella storia prendano un volto più adulto gli eventi che di continuo entrano nel nostro cronotopo, talvolta con una irruenza  che lacera schemi a lungo prevalenti. Oggi, in particolare, dobbiamo riconoscerci in attesa di “aggiornamenti” indispensabili.
La potenza terroristica che ha organizzato l’attacco agli Usa teletrasmesso al mondo l’11 settembre dalla organizzazione mediatica che ci avvolge, ripeterà altri attacchi? Dove localizzati? Con quali esiti?
O dovranno passare molti mesi e anni, prima che un 11 settembre si ripeta? E , allora intanto, la guerra crociata di Bush ne prenderà il posto nei media, con tutte le sue vicende e le sue canzoni? La grande guerra americano –internazionale, già dichiarata ma per ora combattuta solo con un raffica di cento annunci, si svolgerà davvero per anni contro il terrorismo internazionale, che ha nel fondamentalismo islamico la sua internazionale, la sua cellula staminale? Salderà con i suoi dolori, e qualificherà con le sue vittorie, un diverso ordine internazionale, necessariamente più pluralistico e più equilibrato di quello di ieri e di oggi? O svelerà che gli Usa, nonostante tutto, sono un gigante d’argilla zeppo di illusioni, e  quindi un vero ordine internazionale arretrerà quasi all’anno zero?
O, restano del tutto lontani da sviluppi di tipo “pluralistico”, la celebrazione e la verifica dei rapporti di forza prodotti dalla guerra e dai suoi risultati obiettivi, confermeranno che l’attuale fase storica è tutta nel segno del primato statunitense e della prima egemonia culturale, oltre che economica e militare?
Gli interrogativi, in attesa della risposta dei fatti che saranno davvero compiuti dai protagonisti in campo, sono troppo numerosi e densi di alternative radicali per caricare il “sapere” di cui disponiamo di un valore con qualche analogia con la scienza. Non a caso, siamo del tutto privi di poteri previsionali e ordinatori, che ci mettono in grado di esprimere giudizi affidabili in dimensione storica: oggi inutilmente evocata dai media quotidiani, fastidiosamente loquacissimi.
Quanto a giudizi etici di qualche dignità, li possiamo attingere solo congiungendo le informazioni essenziali con il piccolissimo patrimonio di onestà e di equità di cui eventualmente riusciamo a disporre nei confronti dei popoli e continenti.
Con buona pace dell’ottimismo di Bacone, il sapere e l’informazione, di per sé, non ci consegnano nessuna “potenza”: anzi, ciò che veramente si sa già , se lo guardiamo in volto, ci consegna piuttosto ad una grande debolezza pratica, sostenibile con l’abito dell’umiltà piuttosto che con la divisa del coraggio e delle sfide gridate.
 È vero: quanto è avvertito l’11 settembre va condannato come inaccettabile e irripetibile.Va posto fuorilegge, come è già fuori mercato. Ma la ricerca, l’arresto e la punizione dei colpevoli di quel crimine esige un ordinamento giuridico, o almeno una capacità di accordi, mediazioni, progettazioni e operazioni, che lo stesso Bush, pur gettato e proiettato ad agire da un dolore nazionale enorme, ha indicato non percorribili in tempi brevi: ma allora, con quali energie morale con quali poteri istituzionali ne potremo sostenere una praticabilità necessariamente lunga? E la sua dinamica, a quali modelli giuridici darà luogo nel suo svolgimento? Tra sei mesi, o dodici, o diciotto, saremo più forti nell’alleanza che gli Usa propongono all’Occidente di allestire e gestire nel mondo?
È possibile, anche se tutt’altro che sicuro. In questo caso, fortunato o assolutamente il più augurabile, sarà cresciuta la sola egemonia della forza americana o, augurabilmente e solo sorprendentemente, avremo anche visto svilupparsi un profondo riequilibrio internazionale? In questo ultimo e migliore caso, cose nuove dovrebbero consolidarsi, di grande interesse, tra Usa e Russia, tra Nato e Ue; in Medio Oriente, tra arabi ed ebrei; nel mondo e all’Onu, tra ricchi e poveri; con le religioni che assumono in comune un ruolo grande di pace, in tutte crescendo la distanza dall’errore integralista e dall’eresia fondamentalista. Sarebbe di fatto, una sorta di rifondazione dell’Onu, per aver finalmente una istituzione adeguata ai bisogni crescenti di legalità e parità del genere umano.
Ma se,  invece Dio non lo permetta, le cose dovessero profilarsi drammatiche e pesantissime, per tutti, per la guerra santa di Bin Laden e per la  crociata di Bush: se, dopo tante parole sovrabbondanti, le iniziative concrete non ottenessero risultati significativi; se a lungo rimanessimo con Bin Laden non catturato, e la resistenza dei Talebani sufficientemente forte per destabilizzare paesi islamici entrati avventurosamente  nell’alleanza promossa dagli Stati Uniti: con Israele e Palestina in fiamme più di quanto non siano già ora; con morti innocenti orribilmente più numerosi in Asia di quelli già contati con dolore e umiliazione nelle torri di Manahattan e negli uffici di Washington: che cosa potremmo dire di “sapere”?

*Saggista, editorialista

 

 


La pancia e la testa
Riccardo Perissich*

Le tragedie hanno l’effetto di semplificare tutto.  In condizioni “normali”, abbiamo tempo e voglia di dare spazio alla riflessione, al trattamento analitico dei problemi, al rispetto delle procedure, alla ricerca dei compromessi. Idee nuove hanno il tempo di germogliare, di essere dibattute, se sono buone di imporsi. Le condizioni “normali” conducono anche a comportamenti perversi. L’interesse particolare tende a prevalere su quello generale; i dettagli ingigantiscono di importanza; si perde il senso della priorità; la morale lascia lo spazio al moralismo. La paziente ricerca del consenso si trasforma in diritto di veto; i processi decisionali rallentano, poi si paralizzano; i problemi, che sembrano marginali si accumulano senza soluzioni. La tragedia, quando arriva, semplifica ed accelera tutto. Le priorità ritrovano istantaneamente il loro posto; ciò che sembrava gigantesco una settimana fa diventa irrisorio, mentre scopriamo improvvisamente che problemi lasciati nascosti sotto il tappeto contenevano candelotti di dinamite. L’azione diventa più importante del compromesso. Il grigio cessa di essere un colore di moda.  La tragedia, soprattutto quando é provocata da eventi umani premia l’istinto sulla riflessione, la pancia rispetto alla testa, la forza rispetto al consenso. Il pronome “noi”, che sembrava così ambiguo, acquista una chiarezza abbagliante. Improvvisamente le ragioni nostre diventano molto più importanti delle ragioni degli altri e le ragioni della politica riprendono il sopravvento su quelle dell’economia.
Ritorniamo con la memoria ai giornali di prima dell’11 settembre. Gli Stati Uniti dibattevano dell’opportunità e entità di tagli fiscali. L’Europa si trastullava nella ripartizione di modesti fondi regionali in vista dell’allargamento dell’Unione Europea; oppure bloccava importanti decisioni sulla organizzazione dello spazio aereo o sui mercati finanziari a causa dello Statuto del territorio di Gibilterra; Stati Uniti e Europa cercavano di mettere fine alla guerra delle banane. Le manifestazioni di Genova erano  riuscite a convincere persino una parte dell’establishment che la “Tobin tax” costituisce il nodo principale per l’organizzazione di un ordine mondiale più giusto. L’Italia si trastullava nella determinazione del probabile “buco” nelle finanze statali. Il giornaliero bagno di sangue stava facendo lentamente entrare il Medio oriente nella categoria dei problemi insolubili “con cui bisogna convivere”. Non sappiamo cosa ci riservi il futuro, ma di una cosa possiamo essere certi: tutte queste cose hanno improvvisamente cambiato dimensione e il loro posto nelle priorità collettive. La tragedia dell’11 settembre ha anche fatto in pochi minuti giustizia di una convinzione ormai profondamente radicata in America: che le guerre possono essere combattute e vinte senza alcuna perdita di vite umane da parte nostra.
Non so se bisogna chiedersi, ma io non ne posso fare a meno, se sia meglio la normalità o l’eccezione, la pancia o la testa, l’istinto o la riflessione. Da questo punto di vista la storia non ci insegna quasi nulla. Nell’agosto del 1914, il trionfo delle emozioni condusse a una spirale perversa che spazzò via in poche settimane il paziente, anche se bizantino, lavoro di diplomatici che avevano assicurato all’Europa 40 anni di pace e la condusse a una guerra suicida che nessuno aveva veramente voluto. D’altro canto, negli anni 30, il prevalere della prudenza concesse ad Hitler alcuni vantaggi strategici quasi decisivi e rese la guerra allo stesso tempo più probabile e più terribile.
Gli americani scoprono per la prima volta nella loro storia che il loro territorio é vulnerabile; una cosa che gli europei sanno da sempre. E’ facile prevedere che sceglieranno più facilmente l’istinto, mentre l’Europa sarà più facilmente portata alla riflessione. Sarebbe un bene se ciò ci conducesse a una sintesi. Sarebbe un disastro se fosse fonte di disunione.  Il pericolo é grande, perché le tragedie, proprio perché semplificano, premiano l’azione unilaterale su quella multilaterale, il nazionalismo economico sulla cooperazione internazionale. Il mondo invece, anche se deviato da due anni di dibattito sbagliato sulla globalizzazione, avrebbe bisogno di più azione multilaterale e di più globalizzazione governata. Nulla é ineluttabile. Si uscì dalla prima guerra mondiale, gestita dagli europei, con Versailles, le crudeli riparazioni economiche e l’’umiliazione della Germania. Si uscì dalla seconda guerra mondiale, gestita dagli americani, con il piano Marshall, Bretton Woods e la Nato.
Chi ha assistito in diretta televisiva alla commemorazione avvenuta nello Yankee Stadium, non può non essere stato profondamente colpito da quella straordinaria sintesi di orgoglio civico, di patriottismo nazionale di sincretismo religioso e di recupero di valori universali che ha caratterizzato tutta la cerimonia. Con grande  sforzo di tensione morale un paese  multiculturale cercava la mobilitazione, nel dolore, intorno a valori condivisi. Non credo che esistano precedenti nella storia. Non é detto che ciò produca buoni risultati, ma lo sforzo é impressionante. Dobbiamo lucidamente dirci che é difficile immaginare che una simile tensione morale una simile proiezione verso il futuro, potrebbe prodursi oggi in un qualsiasi paese europeo. Il momento della cerimonia che strappò gli applausi più scroscianti fu la dichiarazione del Sindaco Giuliani: “Dicono che New York non sarà più quella di prima. È vero; sarà migliore”. È probabile che l’uccello da cui si devono guardare gli americani sia il falco. Per l’Europa non é la colomba, ma lo struzzo. Negli ultimi giorni i governanti europei hanno detto e fatto tutte le cose giuste. Spenta la televisione con la cerimonia di New York, rimane però la preoccupazione per l’assenza, in Europa, di un analogo messaggio unificante e mobilizzante. Come se i nostri governanti ci volessero dire che la situazione é certamente grave, ma che cercheremo di gestirla con un equilibrato dosaggio di pragmatismo, di determinazione e di buon senso.  Che, al di là della retorica, questa é una “guerra americana”. Il rischio é che questo atteggiamento, così profondamente europeo, non riesca a dare all’opinione pubblica né tranquillità né coraggio
 Mai come nelle tragedie, siamo nelle mani dei leader. Il guaio é che scopriamo solo in ritardo se erano all’altezza o no. Ma non dimentichiamo che conta anche moltissimo il comportamento di ogni singola persona. Dipenderà anche da ognuno di noi se cederemo alla paura, o se continueremo a viaggiare, a consumare, a lavorare. Dipenderà da ognuno di noi se faremo sentire al nostro vicino mussulmano il peso della nostra paura. Dipenderà da ognuno di noi se i nostri governanti saranno, o non saranno, tentati di fare, come in passato, vigliacchi accordi con i terroristi per guadagnarsi un po’ di tranquillità e, se continueranno a fare dell’anti-americanismo, o del filo-americanismo, per pura strumentalizzazione della politica interna.

In ultima analisi vale sia per noi che per i governanti il principio kantiano dell’unica morale che riesce a conciliare la ragione e il cuore: agire come se il principio che ci guida avesse valore di legge universale. Facile.
*Dirigente Pirelli

 

Spettatori, vittime e attori
Elena Pulcini*

La prima sensazione che si prova nell’accingersi a fare una riflessione sull’attentato terroristico negli USA è il timore di diventare immediatamente obsoleti, di essere rapidamente superati dagli eventi. La “velocizzazione del tempo”, che è una delle cifre della nostra epoca, ha raggiunto il suo apice laddove la realtà diventa vertiginosamente anticipatrice dell’immaginazione.
L’ingresso nell’ètà globale si è simbolicamente e traumaticamente compiuto nello choc e nello stupore collettivo davanti al fuoco che divampa nelle Twin Towers, che ci strappa dal passivo ruolo di “spettatori”, nel quale finora potevamo, sia pure illusoriamente, rifugiarci alla ricerca di un luogo, di un punto di osservazione immune dagli eventi del mondo. Neppure il filtro massmediale che ancora agiva con il suo impatto derealizzante durante la Guerra del golfo, rendendola, nonostante tutto, astratta e lontana, funziona più di fronte all’immagine di corpi che si lanciano nel vuoto; rendendo improvvisamente cruenta l’immagine familiare e patinata della metropoli americana.
L’immunità, su cui la modernità aveva costruito il suo progetto e fondato la sua legittimità, affidando allo Stato e alla politica la salvaguardia della vita umana e la possibilità della convivenza pacifica, è ora irrimediabilmente finita. Non solo perché è stata colpita al cuore la sovranità dello Stato più potente dell’Occidente; non solo perché ne è stata minata la mitica capacità di controllo e di previsione; ma anche perché è immediatamente emersa la consapevolezza di una condizione di insicurezza globale, che si fa beffe di frontiere nazionali e di confini territoriali, coinvolgendo bruscamente l’intero “genere umano” nei futuri scenari possibili. Se la globalizzazione è interdipendenza, “compressione spazio-temporale”, perdita dei confini e del controllo, e contagio planetario, in virtù del quale un evento “locale” produce effetti mondiali e, viceversa, decisioni mondiali possono trascinare nel proprio gorgo le più remote realtà locali, le Twin Towers ne sono evidentemente il simbolo che autorizza, come è stato fatto, a parlare dell’inizio di una nuova era.
Guerra globale, si ripete sempre più spesso; senza forse rendersi sufficientemente conto che per la prima volta viene detto l’indicibile, viene “pensato l’impensabile”, viene agitato nella domestica quotidianità delle nostre vite inermi e quasi meccanicamente fiduciose nella saggezza della ragione, quello che finora era solo uno spettro virtuale, una minaccia tanto più spaventosa quanto più facilmente sottoponibile a rimozione: quella dell’autodistruzione del genere umano.
Ma l’inverarsi di questa possibilità dovrebbe spingerci ad una presa di coscienza più profonda, che non si lasci sedurre, come mi pare stia accadendo, dal ricorrere a facili dicotomie tra bene e male, tra civiltà e barbarie, tra ragione e irrazionalità. L’efficacia del terrorismo trae alimento dalle passioni “disinteressate” di popoli che rivendicano il loro diritto all’identità religiosa e culturale, e che non è possibile liquidare con frettolose accuse di arcaismo o anacronismo. Ma non solo. La violenza del terrore si serve dell’uso freddo e sapiente dei più sofisticati strumenti prodotti dallo sviluppo occidentale moderno (dalla tecnica, alla rete di informazioni, alla speculazione finanziaria). La globalizzazione crea queste contaminazioni paradossali, in virtù delle quali l’attuale, efferato nemico dell’Occidente trae forza parassitariamente da ciò che l’Occidente ha di fatto reso possibile. S’impone allora una assunzione di responsabilità che ci spinga tutti ad interrogarci sul senso e sulla legittimità di un modello di sviluppo e di sapere che ha generato, come sua possibilità endemica e spettralmente reale, la distruzione dell’umanità e del pianeta. Il terrorismo è solo la punta dell’iceberg costituito dai “rischi globali” (minaccia nucleare, disastri ambientali, epidemie virali, global warming): effetto spesso invisibile e irreversibile del potere economico e tecnologico che varca ogni confine, e del suo automatismo prometeico, ormai libero di scatenarsi in assenza di efficaci istanze di controllo e di previsione.
La politica, certo, svolge ancora il suo ruolo, soprattutto se si è disposti a riconoscere il vuoto creato dalla crisi della sovranità degli Stati e la necessità di una governance transnazionale; purché questa sia capace non solo di assumere l’onere dell’emergenza, ma anche di aprire nuovi spazi di contrattazione e di decisione tesi a future operazioni preventive. Ma la posta in gioco è troppo alta per affidarla unicamente a soluzioni istituzionali. I pericoli della globalizzazione esigono una mobilitazione soggettiva, in cui ciascuno si riconosca, al di là delle legittime differenze, membro di uno stesso genere umano e si pensi come nodo di una rete, coesa e fragile allo stesso tempo; in cui ciascuno sappia vedersi nella triplice e simultanea funzione di spettatore, vittima ed attore.
Nella sua terribile crudezza, l’evento americano cela forse al suo interno un’immagine simbolica rivelatrice di questa possibilità o, se si preferisce, di questa speranza: l’immagine di quei passeggeri dell’aereo che hanno consapevolmente scelto, sulla base di una drammatica e lucidissima deliberazione comune, di opporre resistenza al terrore, votandosi a morte certa e salvando così molte vite umane; l’immagine di un piccolo scampolo di umanità che “di fronte all’estremo”, non ha esitato a varcare la soglia dell’individualismo compiendo il salto verso un agire disperatamente solidale.
* Docente di Filosofia politica all’Università di Firenze

 

 


L’ultima parola
Sergio Rostagno*

Personalmente non riesco a pensare ad altro. Non ci sono mezzi più civili per far valere le proprie ragioni? Veramente esiste solo questo mezzo, l'attacco terroristico efferato? Queste sono domande che poniamo agli autori dell'atroce gesto, ma che dovremmo farci per primi. Non sono per caso stati i nostri governi occidentali a ironizzare su ogni sforzo per il riavvicinamento dei popoli? Davvero l'Onu andava indebolita e scavalcata ogni volta che fosse possibile? Governi e Servizi segreti non stanno forse raccogliendo quel che hanno essi stessi seminato? Tutte le volte che il mondo si trova sull'orlo di un baratro, ci si ricorda dei buoni propositi; passato lo spavento, si comincia come prima. Il terrorismo è colpevole illusione di poter arrivare da soli e direttamente, laddove le persone ragionanti impiegano tempo. Sono scorciatoie irresponsabili, oltreché atroci. Ma per essere meno cinici, occorre anche trovare interlocutori. 
Giorni fa su “Repubblica” Augias, se non ricordo male, invocava un messaggio risoluto da parte delle tre religioni monoteistiche. Qualche cosa gli deve essere rimasto nella penna: che c'entra essere tre o cinque, essere o non essere monoteisti? E non sarebbe meglio dare qualche notizia su ciò che le religioni hanno già detto e fatto da decenni? Forse che le religioni aspettano l'11 settembre per parlare? Sono sveglie da tempo. Chi non lo è, invece, dovrebbe essere svegliato. Sono anni che le religioni avvertono che sarebbe finito così. Le religioni possono dire (e dicono) quel che nessun politico si può permettere: chi è causa del suo mal, pianga se stesso. Certo c'è modo e modo di dirlo; e piangere con le vittime fa anche parte del conforto religioso. 
Accanto a ciò, deve starci un richiamo fermo rivolto alla propria parte e al proprio paese. Non vi è dubbio che l'assassino tale resta e va fermato. Ma nessuno può lavarsi le mani come se fosse innocente. Questo le religioni non hanno difficoltà a dirlo, sia pure nel loro linguaggio sempre un po' velato e liturgico. Più difficile, per loro, denunciare il fondamentalismo interno. Si è sempre tentati di identificare la propria causa con la causa di Dio. Si aspetta anche il buon momento per lanciare messaggi 'profetici', talvolta ambigui. Altre sono le necessità, per esempio la maturazione efficace di un messaggio di umanesimo: non vi è altra soluzione. 
Ma quante volte è stato detto questo dal Dalai Lama, dalle assemblee ecumeniche cristiane, dai pulpiti più modesti o più autorevoli? È stato detto in tutti i toni. Non ci avete mai dato ascolto e ora venite a chiederci di parlare. Il futuro è preoccupante abbastanza. Non si può tornare indietro, e non si sa dove si stia andando. Alla mossa dei terroristi, si risponde con contromosse. Ammettiamo che ci sia qualche ragione tattica per farlo; sicuramente non è una soluzione di lungo respiro. Il mondo non può essere governato così. Occorrono politici lungimiranti. Il crimine non giova alle iniziative lungimiranti delle persone laiche o religiose che vogliono costruire. Taglia loro le gambe e allontana da loro il consenso. Gli atti terroristici non giovano mai al pensiero umanistico, capace di distinguere laicità e religione, che vuole rispetto delle convinzioni per la causa comune dell'umanità, che crede nella scuola per informare correttamente e aumentare la duttilità e la profondità delle convinzioni stesse. Il terrorista non vuole niente di questo. Il mondo ora pare suo. Speriamo che non abbia l'ultima parola. 
Ma perché non l'abbia, occorre che le parole ritrovino il potere di analizzare, convincere, illuminare. Mi è accaduto sentire in treno una persona augurarsi che vengano mandati a combattere i giovani dei motorini e telefonini, perché "provino un po' anche loro cosa vuol dire". Altri parlano di "pace" solo per poter continuare a vivere come se nulla fosse stato. Queste insensatezze vanno prese sul serio e confutate con l'informazione. *Ordinario di teologia sistematica, Facoltà Valdese di Teologia, Roma.

 

 

Ipocrisia di governo
Paolo Sylos Labini *

La tragedia di New York e Washington e le sue conseguenze potrebbero portarci a ragionare intorno a molte cose, dal conflitto di civiltà alle guerre di religione, ma ritengo che spostare lo sguardo all’interno dei nostri confini possa aiutarci a fotografare la situazione e a mettere in evidenza alcuni aspetti della politica italiana.
Il crollo delle torri del World Trade Center e l’aereo abbattutosi sul Pentagono portano all’evidenza della nostra attenzione un disegno di legge progettato prima dell’11 settembre, ma che da questi eventi trae nuova e, ritengo, più forte rilevanza. Si tratta del provvedimento, già approvato al Senato e che tra poco sarà discusso alla Camera, che renderebbe le rogatorie internazionali molto complicate. In sostanza, a pochi giorni dgli attentati terroristici, una tra le massime priorità del governo italiano è di portare in porto un disegno di legge che di fatto pone ostacoli ad indagini che, al di fuori dei confini nazionali, riguardino persone sospettate di reati gravi, come quelli connessi al terrorismo, al riciclaggio di denaro, al traffico di stupefacenti, a crimini di mafia.
Come può, questa situazione, non suscitare l’imbarazzo di chi, all’interno della maggioranza o dell’opposizione, si rende conto della estrema gravità che pesa sull’approvazione di questo provvedimento, della vergogna che ne scaturirebbe per gli italiani di fronte alla comunità internazionale proprio in giorni come questi, in cui non si parla che di collaborazione dei Paesi civili in una lotta senza frontiere al terrorismo.
E come non vedere allora, e mettere in evidenza, l’ipocrisia di coloro che da una parte deprecano il terrorismo come uno tra i più grandi mali da debellare dalla nostra società, mentre dall’altra si privano di uno strumento efficace, come quello delle rogatorie internazionali, per portare a compimento questa lotta.
Se quella che stiamo cercando, di fronte allo sconcerto degli attentati terroristici, di fronte alla paura e all’orrore, è una risposta razionale, la risposta del governo italiano, con la volontà di approvare in tempi brevi questo disegno di legge, non ha nulla a che fare con la razionalità, ma rappresenta, al contrario, la negazione della ragione.

*Economista

 


Vittime del nostro egoismo
Laura Toscano*

Quelle immagini in diretta dell’11 settembre sono ancora nei nostri occhi. Quell’urlo collettivo dalle macerie di una civiltà è ancora nelle nostre orecchie. Il mito dell’indistruttibilità non esiste. Non esiste più. Fino a ieri il catastrofismo di certe immagini sembrava solo un’ostentazione hollywoodiana. Ma dentro a quelle torri non c’erano eroi. C’erano vite, amori, problemi. C’erano segretarie, camerieri, studenti, pompieri, poliziotti, non i guardiani, dei destini del mondo. Potevamo esserci noi. Tragica forza dei media. Quando l’emozione sarà passata, e passerà, perché la nostra memoria ha un passo corto, forse cominceremo a farci domande. Ci chiederemo come sia potuto succedere, ci chiederemo come sia possibile che la maggiore potenza mondiale si sia fatta beffare da un centinaio di uomini armati di temperini, ci chiederemo perchè l’Occidente è considerato l’Impero del Male? Da dove viene tanto odio?  La colpa di quali ingiustizie passate e presenti stiamo pagando?
Oggi si pensa “ad una necessaria reazione armata degli Stati Uniti e degli alleati”. Contro chi? Osama Bin Laden? I Talebani? Afghanistan? E  chi altri? Sulla base di quali prove? Possibile che improvvisamente a pochi giorni da quei tragici fatti che hanno colto di sorpresa il mondo intero, ora sia tutto chiaro? È pacifico che un attentato così grave non possa restare impunito ma i “venti di guerra” che emotivamente spirano in tutto l’Occidente fanno temere la possibilità di altri “errori” di altre orrende ingiustizie: fanno temere reazioni. Si parla di nucleare, di guerra chimica.
Da qui lo smarrimento. Giusto quindi orientare la ragione, riflettere, capire. Giusto quindi che , al di là dell’ovvia partecipazione ad una tragedia così esecrabile, qualcuno ci spieghi.
Giusto quindi ribadire con fermezza un no alle vendette affrettate, alla compensazione vendicativa con altre vittime innocenti.
E chiederci se la radice del male non sia in un senso di “giustizia” troppo utilitaristica che spesso ha mosso l’Occidente in direzione di esclusiva opportunità, a scapito dei più deboli, di quelli senza voce. Altrimenti perché correre in soccorso del Kuwait e non del popolo curdo da anni disperso, massacrato dalla Turchia? Il terrorismo e l’ideologia fanatica trovano fertile terreno proprio là dove le ingiustizie sono più gravi e plateali.
E se questa operazione “giustizia infinita” dovesse diventare solo la guerra del ricco Occidente contro i diseredati del mondo, avremmo già perso. Almeno nel profondo delle nostre coscienze. Si dice che dall’11 settembre la nostra vita è cambiata. Non me ne sono accorta. L’attimo dell’orrore e dell’incredulità è passato scavalcato da altre preoccupazioni.
De l resto la nostra vita non è cambiata per i sei milioni di ebrei trucidati dai nazisti. Non è cambiata per le vittime dell’atomica di Hiroscima e Nagasaki. Non è cambiata per il milione di bambini iracheni morti in seguito all’embargo. Abbiamo una capacità di adattamento agli eventi che solo una grande tragedia collettiva può mutare. La nostra miopia circoscrive gli orizzonti, ci porta a credere che le colonne d’Ercole delle abitudini del nostro quotidiano siano invalicabili. Ci siamo chiusi sempre di più in un egoismo esistenziale che di tanto in tanto viene smosso da  violente scariche di adrenalina. I problemi privati si enfatizzano. La televisione è il nostro unico interlocutore. Se l’attentato dell’11 settembre servisse a riaprire la nostra mente alle emozioni collettive, alla solidarietà, al dialogo, alla comprensione della diversità, all’equanimità di giudizio sulle tante ingiustizie del mondo, invece che alla vendetta cieca, allora forse il terrorismo nascerebbe sconfitto e i Bin Laden della terra e gli altri folli assassini come lui non avrebbero seguito né scampo.
*sceneggiatrice
 

 

Libertà contro paura
Marco Vitale*

I nemici di uno sforzo serio per un nuovo ordine all'altezza delle grandi sfide alle quali ci troviamo di fronte sono l'ignoranza, la mistificazione, i fondamentalismi, le "elite" che prive del potere satrapesco che derivava loro dai regimi collettivismi cercano, attraverso il caos dei rispettivi paesi, di impadronirsi del potere economico (James parla di "elite sponsored caos"),coloro che, nell'incertezza delle nuove prospettive, temono di trovarsi tra i perdenti e tanti altri. Sufficienti per permetterci di concludere che la speranza di una evoluzione verso una globalizzazione "soft", che pure avevamo nutrito, è da ripiegare e mettere ordinatamente nel cassetto. Come tutti i grandi processi della storia dobbiamo mettere in cantiere passaggi molto dolorosi. E' questo che fa dire, ben prima di Genova e di New York, a James: "vi sono almeno quattro ragioni per pensare che una violenta reazione (al processo di globalizzazione) "sia inevitabile". E dunque dobbiamo prepararci, organizzativamente ma ancor più moralmente, a fronteggiarle.
E questo mi sembra che sia anche il significato principale dell'immane tragedia di New York e Washington. Non voglio aggiungere troppe parole alle tante che sono già state dette. Mi sembra che la natura dell'attacco e la responsabile risposta dell'America non lascino spazi al minimo dubbio. Dobbiamo essere tutti al fianco, senza la minima esitazione, dell'America. L'11 settembre ho inviato al console americano a Milano un messaggio di condoglianze dicendo: oggi mi sento newyorkese. Ed ancora lo sono, anzi sempre di più osservando gli ammirevoli comportamenti dei cittadini di quella meravigliosa città. Dirò di più. Non di una solidarietà astratta contro un terrorismo senza volto si tratta. Ma di una presa di posizione aperta contro il fondamentalismo islamico e contro le sue radici culturali e religiose. E' vero che dobbiamo evitare lo scontro di civiltà o indebite e grottesche classifiche di superiorità tra civiltà? Come è vero che la civiltà ed il pensiero islamico sono cosa ben diversa dal pensiero di questi assassini. Ma il fondamentalismo islamico se non è l'Islam fa pur parte dell'Islam . E quindi è necessario contrastarlo anche sul piano culturale, religioso e politico, senza timori. Dobbiamo chiamare il pensiero islamico serio a fare passi avanti sulla via della libertà, dei diritti civili, del laicismo, come noi abbiamo fatto, circa mille anni fa rigettando per sempre i tentativi di imporre un regime teocratico, che pure ci sono stati anche nei paesi cattolici. E dobbiamo chiamare i saggi dell'Islam, i tanti personaggi di grande cultura di questi paesi a prendere posizione aperta e non equivoca nei confronti di questi loro concittadini e compagni di fede che si buttano contro le Twin Towers con aerei pieni di vittime sacrificali, pronunciando le magiche parole Allah Akbar. Sono loro e non noi che devono dirci e soprattutto dire ai loro concittadini e compagni di fede se Allah è d'accordo e questa è la Jihad di cui parla la loro religione, e se non lo è che cosa è. Ma non devono dirlo solo con le parole di solitari studiosi. Lo devono dire pubblicamente, ufficialmente, rumorosamente, affinché i popoli odano e comprendano.
Ma tutto ciò non deve impedirci di riflettere e di fare anche le nostre autocritiche. Pochi giorni dopo l'attentato sono andato a Bombay e questo mi ha dato la possibilità di guardare alla tragedia anche da un punto di vista indiano. Anche qui tutti quelli che ho incontrato erano a fianco dell'America. Il governo ha indetto, per il 18 settembre, il giorno della solidarietà contro il terrorismo; tutti i partiti sono stati compatti su queste posizioni; il capo di governo ha fatto pubblicare sui giornali intere pagine contro il terrorismo, affermando: "ogni indiano deve essere parte di questa guerra globale contro il terrorismo. Noi dobbiamo scacciare, e ci riusciremo, questo demonio dalla nostra terra e dal mondo". Ma le stesse pagine pongono l'immagine dell'attacco alle Twin Towers al termine di una serie di altre immagini che rappresentano altri gravi attentati terroristici, subiti dall'india, dalle stesse fonti terroristiche, negli ultimi dieci anni; per sottolineare l'unitarietà della lotta e dell'impegno comune.
Vi sono tre punti sui quali dobbiamo riflettere e tentare delle nuove risposte mi hanno detto degli amici indiani: l'America ha contribuito a creare personaggi come Osama Bin Laden e come Sadam Hussein; perché? Quali sono le forze ed i motivi che inducono tante persone a sacrificare la loro vita e di tanti altri per dare una lezione all'America? Perché l'America si muove solo quando il terrorismo la colpisce direttamente; lo sapete che l'India ha avuto 53.000 vittime del terrorismo e nessuna solidarietà? Queste domande non sono poste con intenzione polemica ma come necessità di riflessione, per costruire una solidarietà mondiale vera, una globalizzazione, anche di pensiero, vera, contro i mali del mondo. La speranza di una nuova più costruttiva politica non può non passare anche attraverso una riflessione critica di questo tipo. Qui, oltre che nell'azione di polizia internazionale, può radicarsi la speranza.- Se non vogliamo che tutto il mondo si riduca come si è ridotto Israele nel suo confronto senza fine con i Palestinesi.
Nella fermezza, dunque, ma dobbiamo avviare una revisione critica profonda di tante cose. Come scrive Harold James:
"Questi mutamenti ci rendono consapevoli di come la nostra attività è ormai legata con il destino di altri miliardi di esseri umani nel mondo. Il dramma delle trasformazioni economiche che stiamo vivendo richiede un riordino sostanziale delle nostre istituzioni, non un loro abbandono ma un ripensamento completo delle politiche tradizionali, come esse si sono sviluppate nel corso del secolo scorso"
Nell'immensa tragedia che ci ha colpito io vedo anche dei segnali potenzialmente positiva. Innalzi tutto la natura allucinante dell'attentato stesso mi sembra espressione più di un delirio che di una forza; mi sembra un atto di disperazione di chi non ha un disegno ed una prospettiva (come le BR con l'uccisione di Moro; come la mafia con l'assassinio di Falcone e Borsellino). Vedo, invece, un maturo equilibrio nei governi, un desiderio diffuso di tornare a pensare; una maggiore consapevolezza che il mondo richiede maggiore responsabilità ed unione; una apertura nuova in certi paesi islamici; la stupita amarezza degli americani nello scoprire che non tutti li amano; la sensazione che una fatica lunga e dolorosa ci aspetta ma che può trattarsi di una fatica positiva, illuminata da una luce, da un senso: costruire veramente un mondo più unito in una globalizzazione più seria e profonda; la riscoperta profonda dei nostri valori più autentici ed universali, quelli che fecero dire a Truman nel suo discorso inaugurale, il 20 gennaio 1949, sulla collina di Washington:
"Il popolo americano desidera, e per questo è pronto a lavorare, un mondo in cui tutte le nazioni e tutti i popoli siano liberi di governarsi come meglio credono e di raggiungere una vita decente e soddisfacente. Sopra ogni altra cosa il nostro popolo desidera, e per questo è pronto a lavorare, la pace nel mondo - una pace immediata e duratura - basata sullo spontaneo accordo liberamente raggiunto tra uguali…
Il nostro scopo dovrebbe essere quello di aiutare i popoli liberi del mondo, attraverso i loro stessi sforzi, a produrre più cibo, più vestiti, più materiali per costruire le loro case e più energia per alleggerire il peso delle loro vite.
Noi invitiamo gli altri Paesi a mettere insieme le loro risorse tecnologiche per realizzare questa impresa. Ogni loro contributo sarà caldamente benvenuto. Questa dovrebbe essere un'impresa di cooperazione in cui tutte le nazioni lavorano perfettamente insieme attraverso le Nazioni Unite e la le loro agenzie specializzate. Deve essere uno sforzo che coinvolga il mondo intero per il raggiungimento della pace, della ricchezza e della libertà.
Tutti i Paesi, compreso il nostro, trarrà enormi benefici da un costruttivo programma per un migliore uso delle risorse, umane e naturali, del mondo. L'esperienza ci insegna che il nostro commercio con altri paesi si espande se questi paesi progrediscono a livello industriale ed economico.
Solo aiutando il meno fortunato dei suoi membri ad aiutare se stesso, la famiglia degli esseri umani può raggiungere una vita decente e soddisfacente che è diritto di ogni individuo.
Soltanto la democrazia può fornire la forza vitalizzante necessaria a sollevare individui di tutto il mondo verso azioni trionfanti dirette non solo contro i loro oppressori umani, ma anche contro i loro antichi nemici come la fame, la miseria e la disperazione….
Noi siamo aiutati da tutti coloro che desiderano vivere liberi dalla paura, ed anche da coloro che oggi vivono oppressi per la paura verso i loro governanti ..."
Forse questo appello può suonare un po' retorico oggi. Ma non era retorico allora. E può ritornare a non suonare retorico oggi. Parte importante degli impegni assunti in quell'appello (la ricostruzione dell'Europa; la resistenza sino alla vittoria contro il terrore comunista) sono stati portati a termine.
Altri devono essere ripresi, nello stesso spirito e la stessa convinzione, oggi. E noi Europei, che allora non esistevamo più ma che oggi esistiamo di nuovo, anche grazie all'America ed a quell'appello, dobbiamo fare la nostra parte. Senza viltà ed astuzie e sapendo rimettere in gioco un po' del nostro futile modo di vivere.
Se così sarà, allora se è vero, come tanti hanno scritto, che l'11 settembre 2001 ha cambiato il mondo, si potrà aggiungere: ma, come è di tutte le grandi prove e tragedie, forse non lo ha, necessariamente, cambiato in peggio.

*Economista d'impresa


      

 

Prima definiamo il campo di battaglia
Michael Walzer*

C’è una vecchia vignetta di Bill Mauldin nella quale due attempati gentiluomini siedono in un club per signori.  Uno si piega verso l’altro e fa: “Ti dico che è guerra,  Throckmorton, e ti dico anche : “Combattiamo!”
A Washington dall’11 settembre si sono sentiti molti discorsi del genere.  E si sono sentiti anche in tutta la nazione:  ci sentiamo un po’tutti come l’amico di Throckmorton.  Ma c’è la guerra? E se c’è, come dobbiamo apprestarci a combatterla?
Di certo tutti noi abbiamo un nemico, qualunque sia la nostra ideologia politica, qualunque sia la nostra fede religiosa. Le nostre esistenze e il nostro modo di vivere sono stati attaccati – lo dicono tutti, ma è vero. Quest’attacco può aver avuto le sue origini più dirette nella Guerra del Golfo; può essere stato alimentato dai risvolti  fanatici e profondamente distorti del blocco Iracheno e del conflitto tra Palestinesi e Israeliani.
Ma le sue cause sono molto più profonde: il rancore verso la potenza americana e l’odio per i valori che a volte, almeno, guidano la sua politica. Comunque questa non è una “guerra di civiltà”, dal momento che il nostro nemico non rappresenta una civiltà.  Non siamo in guerra con l’Islam, anche se i terroristi sfruttano il fervore  religioso Islamico.
E’ dunque guerra? Il termine è inoppugnabile, purchè coloro che lo utilizzano si rendano conto che è una metafora. Non c’è, in questo preciso momento, uno stato nemico, non c’è un ben definito campo di battaglia.  Il termine “guerra”, comunque, si può prestare bene come metafora che stia a significare lotta, impegno, resistenza. L’azione militare, sebbene possa arrivare, non è la prima cosa a cui dobbiamo pensare.  Piuttosto, in questa “guerra” al terrorismo, altri tre aspetti hanno la precedenza: un lavoro intensivo delle forze di polizia al di là dei confini nazionali, una campagna ideologica per impadronirsi di tutti gli argomenti e le giustificazioni a favore del terrorismo ed eliminarli, ed uno sforzo diplomatico serio e sostenuto.
Ciò che le forze di polizia devono fare è ovvio, ma c’è un compito anche per i capi religiosi e gli intellettuali, perché l’ambiente intellettuale in molte parti del mondo non è sufficientemente ostile al terrorismo.  I terroristi vengono protetti moralmente come fisicamente, ed il solo rimedio è la discussione politica.  I  nostri diplomatici devono fare molto di più di quanto hanno fatto nel costruire la coalizione che ha combattuto la Guerra del Golfo.  Quella era un’alleanza scadente, adatta al momento ma non alle lunghe distanze.  L’alleanza contro il terrorismo dev’essere strutturata per durare: deve riposare su patti esigenti e che possano essere fatti rispettare.
Ma ciò di cui tutti vogliono parlare è l’azione militare – non la metafora della guerra, ma la guerra vera. Che cosa possiamo fare, quindi?  Ci sono due condizioni da soddisfare prima che si possa combattere in maniera giusta.  Dobbiamo identificare dei validi obiettivi – persone effettivamente impegnate nell’organizzazione, nel supporto o nell’esecuzione delle attività terroristiche.  E dobbiamo essere in grado di colpire tali bersagli senza uccidere un gran numero di innocenti.
A dispetto delle critiche per gli “assassinii” Israeliani da parte di ufficiali statunitensi, io non credo che importi, da un punto di vista morale, se gli obiettivi sono gruppi di persone o singoli individui, a patto che queste due condizioni vengano rispettate.  Se non riusciamo a rispettarle, difenderemo la nostra civiltà semplicemente imitando i terroristi che la stanno attaccando.
Da questi due criteri consegue che le incursioni dei reparti d’assalto sarebbero verosimilmente meglio di attacchi con missili e bombe.  Quando il bersaglio è, per dire, un piccolo e sparpagliato gruppo di terroristi durante le esercitazioni, un soldato armato di fucile è più abile della bomba più efficace.  Ma cosa succede se lo scopo del nostro attacco è quello di costringere i governi che appoggiano le attività terroristiche a consegnare i terroristi o a smettere di finanziarli? Questo è certamente un valido scopo – in realtà uno scopo necessario per qualsiasi alleanza che si opponga al terrorismo. Ma le nostre capacità coercitive in tale sfera sono moralmente limitate.  Non possiamo convincere i governi terrorizzando le loro popolazioni civili. In paesi disperatamente poveri come l’Afghanistan, noi non possiamo cominciare a distruggere sistematicamente ogni infrastruttura rimasta.  Reti elettriche e impianti di purificazione delle acque non sono obiettivi legittimi.
Possiamo bombardare gli edifici governativi, che probabilmente saranno stati evacuati.  E forse se il bombardamento sarà spettacolare e i piloti eroici, quest’atto simbolico ci consentirà di andare avanti con ciò che realmente bisogna fare. Gli stati terroristi devono essere isolati, ostracizzati e messi sotto embargo; bisogna chiudere le loro frontiere; bisogna penetrare le loro organizzazioni segrete; bisogna rifiutare dovunque le loro giustificazioni ideologiche.
Il pericolo più grande in questo preciso momento è che dopo aver realizzato danni sufficienti – da qualche parte- ci allontaniamo da quei compiti e da quell’impegno di risorse necessari per sconfiggere il terrorismo.
Dobbiamo perseguire la guerra metaforica;  aspettiamo, per quella vera.

* Filosofo della politica all’ Institute for Advanced Study  di Princeton e co-direttore della rivista “Dissent”.

Questo articolo di Michael Walzer è stato pubblicato sul New York Times

 

Vi e' piaciuto questo articolo? Avete dei commenti da fare? Scriveteci il vostro punto di vista cliccando qui

Archivio Attualita'


homearchivio sezionearchivio
Copyright © Caffe' Europa 2001

 

Home | Rassegna italiana | Rassegna estera | Editoriale | Attualita' | Dossier | Reset Online | Libri | Cinema | Costume | Posta del cuore | Immagini | Nuovi media | Archivi | A domicilio | Scriveteci | Chi siamo