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Schroeder, Fischer e l'Europa delle chance



Daniele Castellani Perelli




Berlino. Guardare il mondo con gli occhi di ieri è un lusso che la Germania non può e non vuole permettersi. Di più, sarebbe un errore politico. Pertanto Gerhard Schroeder e Joschka Fischer corrono ai ripari, e, come ha scritto la Frankfurter Allgemeine Zeitung, "tendono la mano" all'alleato americano. L'intesa con la Francia rimane solida, come ha dimostrato il recente vertice a tre con la Polonia, ma sarebbe sbagliato ritenere identiche le posizioni dei due paesi. Sebbene entrambe, dall'inizio della crisi irachena, abbiano prudentemente alternato gesti distensivi a decisi attacchi verbali nei confronti dell'amministrazione Bush, tuttavia oggi il governo tedesco sembra intenzionato, come scrive "Le Monde", a "lasciare sola" la Francia "davanti al desiderio di rivincita degli Americani", per rassicurare i quali il ministro della Difesa tedesco Peter Struck ha intrapreso un viaggio negli Stati Uniti, al termine del quale, dopo aver incontrato Donald Rumsfeld e Condoleeza Rice, ha dichiarato: "Siamo sulla via della normalizzazione".

Anche il Cancelliere ha usato recentemente parole amichevoli in un discorso alla Camera di commercio americana in Germania. Il Cancelliere ha difeso la posizione presa dal proprio esecutivo durante la guerra in Iraq, ha rifiutato l'idea blairiana di un mondo "unipolare", ma ha anche apertamente assicurato fedeltà all'amico americano, parlando di "vitale amicizia" tra i due paesi. A pochi giorni dalla visita di Colin Powell a Berlino, Schroeder è insomma riuscito a coniugare ancora una volta la propria coerenza pacifista ed europeista con la fedeltà atlantica, affermando che la Nato non è affatto al capolinea, ma necessita solo di "una nuova divisione del lavoro". Ma ancora più sorprendente è apparsa la presa di distanze dalla Francia, con la quale il Cancelliere ha confermato il sospetto di Le Monde: "Nessuno - ha detto - deve provare a mettere la Germania di fronte all'assurda scelta tra l'amicizia con la Francia e l'amicizia con gli Stati Uniti".

In un'intervista al settimanale Die Zeit il ministro degli Esteri Joschka Fischer ha usato toni e concetti praticamente identici a quelli del Cancelliere. Entrambi continuano a difendere la propria posizione, con il ministro verde che ricorda che i mezzi pacifici per la soluzione della crisi non erano ancora esauriti, e che dice di legittimare l'uso della forza solo nei casi in cui sussista "una seria minaccia alla pace e alla stabilità o un pericolo di genocidio", arrivando ad escludere l'intervento militare anche nel caso in cui ci si trovasse di fronte "solo" ad una violazione dei diritti umani all'interno di un paese. Tuttavia, come Schroeder, Fischer preferisce concentrarsi pragmaticamente sul futuro, piuttosto che recriminare sterilmente sul passato. Così, se il cancelliere nel discorso citato non ha mai pronunciato la parola "Iraq", il suo ministro nell'intervista dichiara: "Ora non serve discutere del passato. Ora si tratta del futuro". Fischer riconosce che "la caduta di Saddam è motivo di gioia", ma alla domanda degli intervistatori, se una riuscita riorganizzazione del Medio Oriente non porti ad una legittimazione a posteriori della guerra in Iraq, egli risponde secco di no, e conferma che "ora si devono sfruttare le chance" della situazione. "Chance" è una parola-chiave, che già Schroeder, come notammo, aveva utilizzato. Anche il ministro degli esteri la utilizza in riferimento alla possibilità di un rafforzamento dell'Onu e dell'Europa e di una stabilizzazione del Medio Oriente. A quest'ultimo proposito, Fischer parla della necessità di una democratizzazione della regione, spiega che questa democratizzazione non potrà essere senza una modernizzazione di quegli Stati, dove per modernizzazione egli precisa di intendere l'incontro della "cultura islamica con la democrazia, lo stato di diritto, l'economia di mercato, la separazione dei poteri e la divisione tra Stato e Religione". Ma Fischer argomenta che questa "democratizzazione può anche dover significare accettare le maggioranze islamiche" e, con una problematicità concreta ed intelligente che rende ancor più piacevole la lettura dell'intervista, si domanda se l'Occidente sia pronto a tanto.

L'altra parola-chiave che domina nelle risposte di Fischer è, non a caso, "Europa". Il ministro tedesco, si sa, è un sincero ed autentico europeista, ed è per questo che sta prendendo corpo l'ipotesi che sia proprio Joschka il prossimo "ministro degli Esteri" d'Europa. Fischer parla del Medio Oriente come di una "parte della sicurezza europea del ventunesimo secolo", è preoccupato da un modo unipolare statunitense, davanti al quale sarebbe incerto il destino di "noi Europei". "A noi mancano le capacità militari" ed una "prospettiva strategica comune", tutti elementi che tuttavia non dovranno essere sviluppati in contrapposizione agli Stati Uniti e sui quali la Germania sta lavorando, come dimostra il recente vertice di Bruxelles in cui con Francia, Belgio e Lussemburgo si è parlato di difesa europea. L'Europa c'è già, nel commercio, nella moneta, ma anche nella politica, visto che, come rivendica Fischer, la famosa "road map", il piano di pace già accettato dal nuovo primo ministro palestinese Abu Mazen, è sostanzialmente un'elaborazione europea. Politicamente, l'Europa potrà e dovrà dire la sua in Medio Oriente, perché i suoi rapporti con i paesi arabi sono buoni, perché quella regione ci è geograficamente vicina, perché dovrà essere l'Europa a trattare con l'Iran per distoglierla dal ricorso alla bomba atomica.

Il dopoguerra come chance anzitutto dell'Europa, questa la speranza di Joschka Fischer, il probabile futuro "ministro degli Esteri" del continente. L'ultima battuta dell'intervista di Die Zeit è una battuta maliziosa: "In conclusione una domanda culinaria. Avete già un locale italiano preferito a Bruxelles?", gli chiedono gli intervistatori. "Perché? Non ne ho bisogno - risponde l'intervistato - E non ne avrò nemmeno in futuro". Speriamo sia solo pretattica.

 


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