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Perché noi non siamo contenti



Umberto Curi




Tra le molte domande totalmente insensate che sono rimbalzate sui giornali e nelle trasmissioni televisive degli ultimi giorni, ve ne è una che - quanto a idiozia - è davvero imbattibile. E' quella con la quale si chiede se si è contenti o meno del fatto che sia caduto il regime di Saddam Hussein. Per lo più, chi propone questo astutissimo interrogativo (tanto per non far nomi: Giuliano Ferrara, ad esempio) ha l'aria esultante di chi sia convinto di aver irrimediabilmente incastrato il suo interlocutore, mettendolo con lo spalle al muro.

Già, perché se il malcapitato risponde che sì, è contento della caduta della dittatura, ci si precipita a fargli notare che questo risultato che tanto lo rallegra è stato ottenuto con i B 52, e non sventolando la bandiera arcobaleno. Mentre se si azzarda a dire che proprio tanto contento non è, viene immediatamente additato al pubblico ludibrio, come sostenitore occulto di un despota sanguinario.

Comunque vada, qualunque cosa risponda, il povero illuso fautore della pace resta infilzato come un tordo. Così impara a non gongolare per qualche migliaio di morti, e per le tante distruzioni, con le quali si è finalmente liquidato il regime di Saddam. Inutile aggiungere che, in realtà, un interrogativo di questo genere è privo del benchè minimo senso comune, non solo perché tende a inchiodare una questione complessa sui termini fittizi di un'alternativa secca fra due sole ipotesi, ma soprattutto perché impone un piano di riferimento puramente emotivo, là dove invece come non mai si richiederebbe la freddezza del ragionamento obbiettivo.

D'altra parte, i furbissimi indagatori delle contentezze altrui sono solo l'avanguardia di un vero e proprio esercito, che si va ingrossando giorno dopo giorno, composto dagli apologeti della guerra in servizio permanente effettivo, dagli specialisti dell'"io l'avevo detto!", degli indefessi sostenitori di una pax americana conseguita con qualche migliaio di tonnellate di esplosivo. Facendosi forti (è il caso di dirlo) del potere militare a stelle e strisce, dopo essersene stati acquattati per vedere chi vinceva, fra la superpotenza yankee e quella pacifista (prendendo esempio dal "desaparecido" Berlusconi) costoro stanno ora scendendo in campo, proprio come gli sciacalli che saccheggiano case e negozi della povera Baghdad. Nel nostro caso, involgarendo così tanto il dibattito postbellico, gettandosi opportunisticamente alla caccia del pacifista, ciò di cui si sta facendo scempio è l'intelligenza e il senso morale.

Neppure di fronte a tante vite stroncate, a così grandi distruzioni, a tragedie così sconvolgenti, neppure ora si riesce a trovare quel minimo di onestà intellettuale, che consenta di sostituire alla polemica a tutti i costi, e ad una sorta di postuma vendetta, un atteggiamento di dialogo pacato e rispettoso delle posizioni altrui.

No, non siamo contenti. Perché se altrove è finalmente caduta una dittatura, qui da noi la barbarie intellettuale non è stata ancora sconfitta.

 


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