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Montesquieu in Irak e l'esportazione della democrazia



Leonardo Casini




Una delle questioni più discusse di questo dopoguerra iracheno - ma era dibattuta ampiamente anche prima della guerra - è se la democrazia sia esportabile o meno, e se esportarla è o non è legittimo. In realtà si tratta, più che di una questione astratta, di uno degli argomenti polemici con cui ci si è opposti alla guerra americana contro Saddam, ritenendo la conclamata volontà americana di portare la democrazia in Irak nella migliore delle ipotesi (quella della buona fede statunitense) una pretesa illegit-tima e assurda, se non, nell'ipotesi peggiore, una copertura dietro cui si celavano inte-ressi di ben altra natura. Si è anche detto che, se si volessero distruggere tutte le ditta-ture e le tirannie del mondo, bisognerebbe intraprendere quella che è stata chiamata "la guerra infinita".

Giovanni Sartori, in un articolo apparso sul Corriere di martedì 29 aprile, e-sprimeva le sue perplessità circa una possibile instaurazione della democrazia in Iraq, e anche della sua legittimità, come chiaramente traspare dal titolo, "La libertà di non essere liberi". Già, perché se si volesse imporre la democrazia e la libertà, cadremmo veramente in una contraddizione in termini tra le più esplosive e dirom-penti. Sartori afferma: "In Irak i supposti "liberati" si sentono "occupati" e reclama-no subito, senza falsi pudori, la libertà di disfarsi dei loro liberatori. E poi? Gli spe-ranzosi dicono: per sostituirlo con la democrazia. Bravo chi ci riesce. E certo non po-trà riuscirci alla svelta".

Se uno ha in mente la democrazia che vige in Occidente con tutte le sue regole, le sue istituzioni e i suoi ordinamenti, effettivamente si avrebbe ragione a dire che sarebbe impossibile trasferire una simile realtà in Irak. Un trasferimento di Locke, Monte-squieu, Rousseau o Tocqueville in Irak è difficilmente immaginabile: distinzione tra sfera religiosa e governo politico, laicità, separazione dei poteri, garanzie individuali appaiono appartenere ad un altro pianeta non solo rispetto alla nazione irachena, ma al pianeta arabo-islamico in generale.

Nel suo articolo Sartori riporta alcune affermazioni della bella regina Rania di Gior-dania che ritiene possibile edificare in Irak la democrazia "restaurando la legge… ri-stabilendo le istituzioni…una costituzione e diritti umani che includono tolleranza re-ligiosa" e commenta: "quale legge? Ovviamente la sola legge "restaurabile" è quella coranica…Quali istituzioni? L'Irak è un recente Stato artificiale nato dallo smem-bramento dell'Impero ottomano" che è diventato poi "una dittatura punteggiata da colpi di Stato". E poi quale costituzione, se qualcosa del genere di quella del vicino Stato iraniano, che "non include diritti umani né principi di tolleranza"?

E' evidente che il paragone con la liberazione dal nazifascismo dell'Italia, della Ger-mania e anche del Giappone non regge. In Europa esistevano tutti i presupposti cultu-rali per la costruzione (ma sarebbe meglio dire il recupero) della democrazia, almeno dall'età comunale (ma si potrebbe andare ancora più indietro, alla Grecia e a Roma). Per non parlare del Risorgimento italiano, del movimento liberale unitario nell'Ottocento nel mondo germanico, della repubblica di Weimar ecc. Ma qui non si tratta solo dell'assenza di una tradizione liberaldemocratica, bensì del profondo radi-carsi nelle fibre culturali più intime della popolazione di una religione che si oppone, condanna e contrasta ogni concezione liberale e democratica, considerata antireligio-sa, pericolosa, estranea alle proprie convinzioni, alla propria civiltà, alla propria men-talità; e anche corrotta e corruttrice, fonte di ogni degenerazione spirituale e umana.

Dal bel libro dello studioso algerino esperto di Islam contemporaneo Khaled Fuad Allam, L'Islam globale, pubblicato recentemente da Rizzoli, traiamo la cita-zione di un pensatore indiano musulmano, Abu al-Mawdudi, che si rifà direttamente a Maometto, di cui rivendica la concezione dello Stato, che può essere solo e unica-mente uno "Stato islamico". Lo prendiamo come un punto di vista emblematico del pensiero islamico ortodosso e condiviso in gran parte del mondo dell'Islam: "Il mo-dello politico elaborato da Mawdudi si basa essenzialmente sul testo coranico e sulla tradizione profetica (Sunna), ma egli fa del Corano una lettura essenzialmen-te politica. I concetti della dogmatica islamica, come ad esempio il tawhid (unicità divina), divengono per lui concetti eminentemente politici: il tawhid, nucleo centrale della teologia islamica, non rimanda solamente alla visione di un Dio che non può essere diviso o personificato, ma definisce l'approccio globale a un so-vrano nell'aldilà e nell'al di qua. Così l'Islam diviene un tutto indivisibile, che si de-ve accettare o rifiutare per intero; ma anche un tutto immutabile, che non ammette cambiamenti o trasformazioni. L'Islam è una costituzione (dustar) divina ed eterna, che lo stato islamico deve porsi come unico fondamento. Il suo postulato è re-lativamente semplice: una vita voluta e guidata da Dio è superiore a una vita scelta dall'uomo.

Mawdudi costruisce una forma di universalismo che, definendo come superiore una vita autenticamente islamica, destituisce di valore tutti i sistemi sociali inventati dagli uomini, e dalla civiltà moderna, vale a dire occidentale; essa è segnata da una tara che la condurrà all'autodistruzione, perché nell'ignoranza delle direttive divine." (pp.54-55). Nella reazione degli iracheni, soprattutto sciiti, alla liberazione dell'Irak da parte delle truppe angloamericane queste prospettive trovano una conferma chiarissima e ben decisa. La popolazione manifesta liberamente (grazie alla liberazione dalla ditta-tura e dal terrore di Saddam) contro gli alleati, senza i quali Saddam sarebbe ancora al potere, perché se ne vadano in fretta. Un paradosso assurdo per noi occidentali ("Ve li immaginate gli italiani, nel '44-'45, a dimostrare in piazza contro le truppe angloamericane dicendo loro di andarsene al più presto? Io no" scrive Sartori). Ma occorre tener presente che nella "rinascita islamica", in gran parte fondamentalista, che rappresenta storicamente il fatto nuovo degli ultimi trent'anni, la riscossa dell'Islam passa attraverso il rifiuto radicale dell'Occidente con tutti i suoi valori: nella condanna di ogni tendenza filoccidentale, modernizzante, consumistica, libera-lizzante passa anche il rifiuto della libertà e della democrazia come valori estranei alla civiltà islamica autentica. E tanto più forte e veemente è la condanna quanto più la libertà politica, l'emancipazione femminile, la modernizzazione della vita, i piaceri del consumismo esercitano una forte attrazione soprattutto sui giovani, come sta accadendo in Iran.

Il sottosegretario alla Difesa americano (e professore universitario di discipline poli-tiche) Paul Wolfowitz, sostiene la teoria dell' "effetto domino" in tutta l'area arabo islamica: da un nuovo regime democratico in Irak dovrebbero risentirne tutti gli Stati autoritari e integralisti dell'area, a cominciare dalla Siria e dall'Iran per ripercuotersi poi a catena su tutto il resto dei paesi a regime analogo. Quindi, praticamente, su tutto il mondo arabo-islamico. Ma non sarà certo facile per il governatore Jay Garner costi-tuire una democrazia in un paese così frastagliato di etnie, tribù, confessioni religiose tanto diverse e in lotta tra loro da sempre. Il grande pellegrinaggio sciita con i martel-lanti slogan antiamericani non promettono nulla di buono. Per prendere solo due e-sempi, Ahmed Chalabi, leader appoggiato dagli americani e candidato alla futura guida dell'Irak, ha recentemente ribadito che " non sarà l'America a decidere chi do-vrà governare l'Irak", mentre l'ayatollah Muhammad Baqir Al Hakim, guida spiritua-le degli sciiti, che si prepara a tornare in patria dall'esilio in Iran, afferma senza mezzi termini che "gli americani devono lasciare l'Irak" e che "quel che è accaduto in que-sti giorni dimostra che nessun iracheno tollera la presenza degli Stati Uniti…ripeto: gli americani devono andarsene. Subito.", e conclude: "Gli iracheni sono mussulmani e vogliono un governo islamico". Altro che democrazia!

La storia tuttavia non è qualcosa di rigidamente precostituito. L'islamista Bernard Lewis sostiene che un'introduzione graduale e progressiva della democrazia è possi-bile in Irak, mentre Sandro Magister su L'Espresso commenta: "In effetti, l'istanza di uno stato islamico a qualificazione religiosa è connaturata alla cultura po-litica musulmana ed è impensabile che un futuro assetto democratico in Iraq ne pre-scinda. Ma nemmeno è pensabile che nell'islam il potere politico e l'autorità religiosa non possano distinguersi. Se è vero che in origine politica e religione erano intrecciati nell'unica missione di conquistare e convertire il mondo, è un fatto che almeno a par-tire dall'850 una distinzione di poteri e di ambiti si stabilì tra le due autorità: quella del sultano e quella dei dottori della legge, gli ulema. E in più c'è la particolarità della cultura sciita, prevalente in Iraq e in Iran. La shi'a è la tendenza islamica che, più d'ogni altra, ha sempre mantenuta aperta l'interpretazione del Corano e quindi lo spazio dell'innovazione. Come l'ayatollah Khomeini ha potuto inventare e instaurare in Iran la sua rivoluzione, così nessun dogma impedisce che possa nascere dalle stes-se radici sciite un modello politico liberale e umanistico, peraltro già riscontrabile nella corrente ismailita che ha nell'Aga Khan il suo imam".

Ma, ci chiediamo, anche nella fortunata ipotesi che ciò avvenga, quanto tempo, quan-to impegno, quale coinvolgimento occorrono per iniziare un sia pur timido avvio di democratizzazione in quel paese? Qual è il dazio da pagare per tale genere di "espor-tazione"?
Speriamo che questi due ultimi esperti abbiano ragione, e soprattutto speriamo nella mutazione storica - che è simile a quella genetica -, nello "scongelamento" delle rigi-dità ideologiche, nella ragionevolezza, nel depotenziamento del fanatismo religioso musulmano, e, in ultima analisi nel buon senso dei popoli e dei governi, anche di quello della superpotenza mondiale. Che in fondo il buon senso è sempre la cosa di cui si ha più bisogno.

 


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