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E perchè poi non si dovrebbe gioirne?



Elisabetta Ambrosi





Sarà forse per la dannata vocazione filosofica che lo contraddistingue; sarà forse per quel suo essere un politico al cento per cento ma al tempo stesso un "non politico" quando guarda con occhio attento ai cambiamenti culturali, alle visioni della vita, alle rivoluzioni simboliche, infischiandosene palesemente delle strategie utilitaristiche di conquista del potere. Sarà insomma per tutto questo che che la voce di Amato sulla guerra mi pare essere una di quelle che brillano per autorevolezza e che non sono tacciabili di "doppiogiochismo" di nessun tipo. Nell'intervista a Repubblica del aprile), Amato dice: "Se sono davvero i problemi del mondo quelli che ci preoccupano, allora ci riusciamo (a stare insieme, a vincere, etc, Ndr). Se invece ci preoccupa il nostro personale ruolo nell'Ulivo, e quindi i problemi del mondo sono solo un pretesto per collocarci su questo o quel ramo dell'albero, allora possiamo continuare a comportarci come troppi hanno fatto finora. Ma in questo caso la cosa non mi interessa più".

Guerra in sé o guerra per sé?
Quando vede una bottiglia, il filosofo comincia a interrogarsi sul suo essere, sul concetto di sostanza, di forma, sulla struttura della bottiglia e sul suo rapporto con ciò che la circonda. Quando è invece il politico a vedere la bottiglia, si mette subito a pensare che cosa può farci, in che modo può essergli utile, cosa può trasportarci (ma in alcuni casi anche: a chi è meglio offrire un bicchierino, etc etc). Ora, tutti e due i punti di vista sono importanti e necessari. Ma tanto più necessari diventano su una questione come la guerra, che più di ogni altra questione umana porta con sé sia problemi di tipo geopolitico, strategico, sia, al tempo stesso e nella misura in cui riguarda più di ogni altra cosa la vita e la morte (sfere che Hannah Arendt definiva impolitiche per antonomasia), interrogativi etici assoluti, totali. Ecco perché, in maniera particolare su questo tema, lo scontro tragico tra valori si fa ancora più forte, il conflitto tra le ragioni (dei pacifisti assoluti, dei realisti, e via dicendo) diventa sempre più aspro. Ed ecco anche perché è difficile capire dove sta il torto e dove la ragione.

Per uscire da questo dilemma, si può utilizzare, come in tanti altri dilemmi, il suggerimento che ci viene da quella vecchia e ormai per alcuni un po' vetusta disciplina di cui Freud fu, se non l'inventore, almeno il più geniale teorizzatore. Il consiglio è quello di vedere, nel giudicare l'entità di una scelta, non solo e non tanto cosa si è scelto, ma anche il carico di sentimento con cui lo si sceglie. Se uno fa il bene con rabbia, risentimento e odio, allora quel bene vale assai di meno. Se uno sceglie il male, ma con disperazione, perché non può fare altrimenti, la nostra ottica nel considerare quell'atto cambia radicalmente. E allora, quando parliamo di guerra, non guardiamo solo alle posizioni prese, ma anche, come dice Amato, ai fini per cui sono state prese: i problemi del mondo sono usati per ricollocarsi strategicamente all'interno di un campo di posizioni? Per far vincere un ramo, il proprio, piuttosto che un altro? Proviamo a chiederci, quindi, se le posizioni sulla guerra sono il frutto della volontà di provocare scissioni, brandire accuse, scontrarsi tra amici e nemici, oppure se nascono dal fatto che il sentimento verso la guerra è quello di strazio e di rabbia o, viceversa, di accettazione dolorosa di quello che è reputato essere una dura necessità; chiediamoci, insomma, se nascono da quei i sentimenti che presuppongo che si abbia a cuore non se stessi, ma l'oggetto in sé, e cioè la guerra stessa.

Si badi bene che, nonostante le apparenze, l'atteggiamento di Freud è tutt'altro che lontano da quello del filosofo che guarda all'oggetto-bottiglia. Infatti, solo chi davvero è in grado di "sentire" la posizione che difende, di provare sentimenti autentici di gioia o prostrazione o lutto o rabbia, ed è soprattutto in grado di esprimerli ragionevolmente e senza prevaricare, allora costui è interessato alla cosa in sé, senza risvolti strumentali e personalistici.
Potremmo dire, allora, che non guarda e non ha guardato alla cosa in sé, ma a se stesso, Bush quando ha deciso di fare la guerra. Non ha guardato alla cosa in sé ma a se stesso Berlusconi quando, attento ai sondaggi, ha deciso la formula della neutralità benevola. Non ha guardato alla cosa in sé ma a se stessa la sinistra quando si è a lungo e inutilmente masturbata sulla lunghezza della guerra. Guarda e ha guardato alla cosa in sé, invece, chi ha manifestato per chiedere la pace. Guarda alla cosa in sé chi, una volta preso atto della fine del conflitto, cerca di capire, ora, quel sia la migliore soluzione per la ricostruzione.

Imbarazzo, cartina di tornasole del narcisismo
Ecco perché mi sembra insensata la questione sul presunto imbarazzo dei pacifisti, che qualche maligno giornale ha posto. Perché i pacifisti dovrebbero sentirsi in imbarazzo? Forse che quelli che hanno manifestato contro la guerra, non lo hanno fatto perché ne sentivano intimamente l'orrore, il carico di sofferenze umane? E come fa chi sente tale carico a non gioire e commuoversi di fronte alle immagini degli iracheni che finalmente possono esprimere (sull'onda dell'emozione, evidentemente) il dissenso verso Saddam e la soddisfazione di una libertà da anni desiderata?

Ho visto un bambino che, levatosi le ciabatte, le usava come una specie di battipanni per "sculacciare" un pezzo di statua di Saddam. Un'immagine davvero splendida. Se il senso del pacifismo è stato gridare perché ai civili venisse risparmiata offesa e morte, allora, come ha scritto Martinotti sempre su questa rivista, come si fa a dubitare che l'unica cosa da augurarsi durante tutto il corso della guerra fosse che essa non durasse un attimo di più? Ma insomma, perché la liberazione di Baghdad dovrebbe cambiare le cose? Forse qualcuno metteva in dubbio che, prima o poi, sarebbe stata presa? Solo chi ha la coscienza sporca e chi ha usato il pacifismo come motivo di autoaffermazione (Casarini & co, ad esempio) può sentirsi in imbarazzo.

Allora fa bene Fassino a dire che il tono della manifestazione per la pace che ci sarà sabato prossimo deve cambiare. Ma sbaglia ad essere un po' a disagio (almeno così appariva in una recente puntata di Porta a porta), e a non continuare a ripetere che, come ha scritto Ezio Mauro nell'editoriale del giorno "post-liberazione", questa guerra resta ingiusta ed errata. Gli interrogativi che ci hanno pressato prima che essa cominciasse sono ancora lì, tutti sul tappeto. Nessuno nega che la liberazione di Saddam sia un fatto positivo (almeno, nessuna persona intelligente lo nega). Ma la domanda resta: poteva essere ottenuto altrimenti? Si poteva impedire l'affermazione prima e la distruzione violenta dopo del regime di Saddam? La risposta di chi ha a cuore la pace è che sì, si poteva fare altrimenti. O almeno si poteva tentare di più, questo è sicuro. E inoltre: come sarà il futuro del Medioriente? Quale sarà la politica futura degli Stati Uniti? Che ne sarà di Iran e Siria? Ha ancora senso e legittimità la politica della potenza? Dove ci condurrà? Come scrive sempre Amato nell'intervista citata, la Macht Politik che caratterizza gli Stati Uniti potrà a buon diritto un giorno premiare la Cina. E allora cosa diremo?

 


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