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Il fiore del male



Umberto Curi




A differenza della lingua italiana, dove con lo stesso termine si indica sia il tempo in senso cronologico, che il tempo in senso meteorologico, nel greco classico vi sono almeno due termini principali per indicare il tempo. Mentre, infatti, col termine chronos si allude al tempo come successione, come divenire incessante, orientato secondo uno sviluppo lineare e irreversibile, col termine aion si indica il tempo come durata, come dilatarsi del presente in una con-temporaneità di principio sempre uguale a se stessa. Nel primo significato, il chronos implica anche il mutamento continuo, quale conseguenza di una progressione inarrestabile, mentre nel secondo caso (come suggerirebbe lo stesso etimo, secondo il quale esso deriverebbe da aei-on= "sempre-essente") aion rinvia ad una dimensione di sostanziale immodificabilità, nella quale tutto resta in qualche modo congelato in una eternità che non "passa".

A conferma della differenza irriducibile fra le due nozioni di tempo ora citate, si può sottolineare che i termini chronos e aion compaiono già nei primissimi documenti a noi pervenuti della filosofia occidentale. Nel famoso frammento di Anassimandro, ad esempio, si dice che la vicenda cosmica di nascita e generazione delle cose dall'indeterminato, e la loro dissoluzione, avvengono katà ten tou chronou taxin - "secondo l'ordine del tempo". Altrettanto noto (anche perché ripreso più volte da Nietzsche) è quel frammento di Eraclito nel quale si dice che aion è un fanciullo che gioca disponendo le pedine sulla scacchiera, e che dunque il tempo-aion è il regno di un bambino. Da notare, inoltre, che i due termini ritornano anche in un passo del Timeo platonico, là dove si dice che chronos è "immagine mobile" di aion, nel senso che il "tempo" che governa il mondo del divenire "imita" l'eterno presente che appartiene invece al cosmo ingenerato e incorruttibile.

D'altra parte, è evidente che queste due diverse accezioni del tempo (costantemente ricorrenti, sia pure in forme e talora con termini diversi, lungo tutto il corso della tradizione filosofica dell'Occidente), rinviano rispettivamente al mutamento o alla permanenza, come caratteristiche generali della realtà. Se, infatti, il chronos implica una nozione del tempo come potenza instabile e distruttiva, capace di travolgere tutto in un processo di perpetuo mutamento, l'aion si riferisce ad una concezione dell'essere come immutabilità, come persistenza in un eterno presente, secondo la quale, dunque, il mutamento è solo un'illusione alla quale nulla corrisponde nella realtà più vera e profonda.

Di qui anche il legame che, sotto il profilo concettuale, ma anche dal punto di vista figurativo, connette il chronos al tema della morte. Come è confermato soprattutto dall'iconografia dell'età rinascimentale e barocca, il modo col quale viene rappresentato il tempo-chronos coincide con l'immagine della morte: un vecchio alto e magro, accompagnato spesso da un dragone e da una clessidra, recante in mano una falce ricurva. In quanto è "divoratore" - in quanto, cioè, consuma i giorni e le stagioni - il tempus edax prelude a quella consumazione di tutto che è la morte. La falce del tempo miete le vite di tutti i mortali, lasciando dietro di sé la "immane ruina" prodotta dal succedersi dei giorni.

Aion e non chronos è l'accezione di tempo che domina Il fiore del male di Claude Chabrol. Fin dall'inizio, e poi lungo tutto il corso della vicenda narrata, il tema sul quale "lavora" l'autore francese è quello di un tempo che non passa, e che dunque porta con sé, quasi come una maledizione, una sorta di "eterno ritorno dell'uguale". Del tutto irriducibile alla tipologia del thriller (come invece si è avuto il coraggio di scrivere, facendo di esso "un giallo dalla ricetta tutta particolare: un po' di Simemon, un po' di Hitchcock e moltissimo di Chabrol"), il film ruota come un'ossessione intorno all'impossibilità di sottrarsi alla ricomparsa ciclica del passato, o più esattamente al fatto che ciò che ci attende nel futuro, è qualcosa che in qualche modo è già stato.

Il "segreto" che François non rivela, ciò che lo ha spinto prima a recarsi a Parigi per gli studi universitari, e poi in America per quasi quattro anni, in entrambi i casi senza che i suoi familiari riuscissero a spiegarsi le ragioni di queste scelte, è per appunto il tentativo - fallito - di liberarsi da questa ossessione, lo sforzo per eludere il destino che incombe su tutta la famiglia e che lo costringerebbe a ripercorrere inesorabilmente lo stesso cammino dei suoi consanguinei. L'incubo che, più o meno inconsapevolmente, attanaglia il giovane è già dichiarato nelle inquadrature che lo ritraggono al ritorno dalla sua esperienza americana, allorchè guardandosi intorno nel tragitto che lo conduce a casa dall'aeroporto dichiara sconsolato di avere "l'impressione che le cose non siano cambiate", quasi a sottolineare la finale inutilità del lungo esilio al quale si era volontariamente sottoposto.

A partire da questo esordio, nel quale la frase pronunciata da François è immediatamente dopo ribadita dal padre ("Tu che dici che tutto è uguale"), l'intera vicenda si snoda come conflitto fra chronos e aion, fra l'ansia di mutamento, della quale sono portatori soprattutto François e Michèle, e l'immobile intemporalità di un destino ineluttabile. "Qui non è cambiato niente" - dichiara sempre più rassegnato il giovane osservando l'arredamento della propria stanza, la pietanza ("una lampreda") preparata dall'anziana zia Line ("per te gli anni non passano mai" - dice ancora François), il vino bianco d'annata servito come accompagnamento al pesce, le inalterabili consuetudini della famiglia, come il caffè sorbito dopo pranzo nel giardino d'inverno, o perfino l'abitudine della vecchia domestica a lavare i piatti a mano, senza ricorrere alla lavastoviglie.

Non è cambiato neppure l'oste della trattoria, con i suoi baffoni a manubrio, né le voci che si percepiscono provenire dalla spiaggia prospiciente la casa al mare, né alcun dettaglio negli arredi o nelle suppellettili domestiche. E' rimasta la stessa l'auto della zia, una sbuffante "2 cavalli" d'altri tempi; non è cambiato il costume di Gerard di consumare furtivi amplessi adulterini nell'ufficio della farmacia; anche l'impegno politico di Anne, la moglie di lui, candidata alle elezioni comunali, è rimasto lo stesso. L'estremo tentativo compiuto da François per rompere la ferrea catena dell'eterno ritorno è fallito. A nulla è valso fuggire dalla città di origine, cambiare continente e lingua: inesorabile il passato si ripropone come quel futuro al quale non è possibile sottrarsi.

Per "dire" tutto ciò, per rappresentare l'immutabilità aionica di un tempo sempre uguale, per alludere al carattere meramente illusorio del divenire chronologico, Chabrol si astiene opportunamente da qualsiasi indugio saggistico, o da impegni esplicitamente filosofici, e sceglie piuttosto di assumere quale sfondo sul quale proiettare la vicenda ciò che, più e meglio di ogni altra cosa, è in grado di evocare l'ineluttabilità del destino, vale a dire la tragedia greca. Alla drammaturgia classica appartiene infatti, in tutta evidenza, l'ingrediente principale dell'intreccio sul quale è costruito il film, dominato dal tema di legami parentali multipli e ancor più specificamente da quel binomio parricidio-incesto che è, come è noto, al centro della saga di Edipo.

Già alluso nel rapporto che compare quale vero e proprio archetipo delle vicende successive, e cioè il grande amore che cinquant'anni prima legò Line al fratello François, l'incesto incombe sulla tenera relazione che unisce il giovane François a Michèle. Ignari i giovani della vera identità del padre di lui, essi si dibattono fra due estremi opposti, la speranza di essere non consanguinei, e il timore di essere addirittura fratelli, ancor più che, come appaiono, semplicemente cugini. In ogni caso, la storia d'amore fra i due rievoca - fin dai loro nomi - quella che legò la zia Line (probabile diminutivo di Micheline) al fratello di lei, François, ucciso cinquant'anni prima a seguito di una denuncia da parte del padre collaborazionista.

Quale conferma della filigrana edipica (dell'Edipo sofocleo, beninteso) soggiacente alla vicenda narrata nel film, a questa coppia di incesti, reali o virtuali, che uniscono in ogni caso membri lla stessa famiglia, e che riguardano persone che portano gli stessi nomi, corrispondono d'altra parte altrettanti parricidi. Se tale certamente è stato, per esplicita confessione di lei, il gesto col quale zia Line ha vendicato la morte dell'amato fratello, un parricidio, sebbene meno "tecnicamente" descrivibile come tale, è anche quello di cui si macchia Michèle per sottrarsi alle insistenti molestie di Gerard, che della giovane è se non altro il padre acquisito (senza poter escludere la possibilità che egli sia anche il vero genitore naturale). L'immediata complicità di Line, il fatto che entrambe le donne - entrambe le Michèle - uniscano i loro sforzi per trascinare via il cadavere del morto, testimonia la comune assunzione del medesimo destino , dimostra fino a che punto tutto si riproponga assolutamente identico, e dunque fino a quale segno l'incubo dal quale François ha vanamente cercato di fuggire si ripresenti a suggellare la conclusione dell'intera storia.

Ma il fin troppo trasparente richiamo all'universo simbolico della tragedia classica, e al repertorio mitologico a cui essa attinge, non giova soltanto a gettare luce sul retroterra culturale evocato da Chabrol, e dunque sul suo tentativo di rileggere le vicende di una dinastia piccolo borghese della provincia francese come se si trattasse delle peripezie della stirpe dei Labdacidi. Secondo quanto i moderni studi di antropologia culturale hanno già da tempo dimostrato, la pratica dell'incesto, derivando da antichissime culture legate soprattutto alla coltivazione dei campi, e dunque alla necessità di rinnovare col seme giovane il potere fecondatore della madre terra, obbediva anche ad un'esigenza di neutralizzazione della funzione destabilizzante e distruttrice del tempo inteso in senso cronologico.

La perpetuazione della specie attraverso il legame endogamico consente infatti di evitare che l'eventuale ricorso ad una riproduzione esogamica modifichi ciò che, viceversa, si vorrebbe conservare, vale a dire l'archetipo originario, incarnato nella coppia di genitori fondatori. In altre parole, l'incesto funziona come strategia simbolica volta a chiudere nel raggio della matrice d'origine l'intero processo della riproduzione, e dunque a scongiurare che tale matrice possa essere andare dispersa o possa risultare alla fine indebolita dalla molteplicità delle generazioni. Anziché soggiacere all'inevitabile consumazione imposta dal divenire cronologico, e dunque al radicale mutamento che in tale consumazione è insito, l'incesto immobilizza il presente, prospettando il futuro nei termini di una pura e semplice ricomparsa del passato.

Il vertiginoso intreccio di ruoli e figure che caratterizza i personaggi della storia narrata da Chabrol configura un quadro generale nel quale ciascuno si presenta come uno e molti, secondo il modulo specifico della tragedia attica. Gerard è, insieme, cognato e marito di Anne, zio, patrigno e forse padre di Michèle, la quale , a sua volta, si accinge a diventare moglie di colui che è suo cugino, ma potrebbe anche essere suo fratello, mentre François è nipote di colei che ha sposato suo padre e vorrebbe a sua volta sposare la fanciulla che è forse sua sorella. Come accade nel dramma di Sofocle, in cui Edipo è marito di sua madre, padre e fratello dei suoi figli, figlio e omicida di suo padre, mentre la moglie di lui, Giocasta, è madre e sposa di suo figlio, madre e nonna dei suoi figli, ciascuno dei quali, a loro volta, ha un padre-fratello e una madre-nonna.

A tutto ciò si potrebbe altresì aggiungere, sia pure en passant, che per descrivere una vicenda complessa, interamente incentrata sull'intreccio di legami familiari multipli, Chabrol è ricorso ad una "squadra" costituita in parte da altri membri della propria famiglia (Aurore quale segretaria di edizione e Mathieu per la musica originale). Quasi a voler istituire una corrispondenza speculare fra la funzione narrante e la storia narrata, fra coloro che raccontano e il contenuto di tale racconto. Un esempio virtuosistico di mise en abyme, capace di conferire un ulteriore tocco di sofisticazione ad un'opera ricercata e talora fin troppo esasperatamente intellettualistica, il cui nucleo fondamentale resta, in ogni caso, la valorizzazione dell'accezione aionica, e una corrispondente cancellazione della dimensione chronologica, del tempo.

Riferita al contesto concettuale che si è in precedenza sommariamente richiamato, la battuta che viene pronunciata nell'epilogo del film - "il tempo non esiste: è un eterno presente" - sintetizza (fin troppo esplicitamente, e quindi anche in maniera pleonastica) quale sia l'ordito, intorno al quale è costruita la storia. Uno esorcismo rivolto alla potenza divoratrice del tempo. Un tentativo per opporre all'incessante mutamento del chronos la rassicurante intemporalità dell'aion. Un modo per mettere fra parentesi la morte, alla quale finisce inesorabilmente per condurre il cambiamento governato dal tempo cronologico. Per fare della morte solo un'apparenza, un'illusione, paragonabile all'illusorietà dello scorrere del tempo.

Alla fine, anche i due giovani, prima Michèle e poi François, si rassegnano. Il destino che è scritto per la famiglia è ineludibile: tanto vale accettarlo, cooperare con i suoi fini, immedesimarsi in esso, piegarsi infine al dispotismo di aion. E ripetere dunque col Nietzsche del paragrafo 341 de La Gaia Scienza: "Questa vita , come tu ora la vivi e l'hai vissuta, dovrai viverla ancora una volta e ancora innumerevoli volte, e non ci sarà mai in essa niente di nuovo, ma ogni dolore e ogni piacere e ogni pensiero e sospiro e ogni indicibilmente piccola e grande cosa della tua vita dovrà fare ritorno a te, e tutte nella stessa sequenza e successione".

 


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