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Paul Virilio alla Fondation Cartier



Riccardo Venturi




Concepita da Paul Virilio - artista del vetro (affianco a Matisse e Braque) di formazione, urbanista di mestiere, filosofo per elezione, saggista tanto prolifico quanto poco tradotto in Italia - Ce qui arrive (ciò che accade) si staglia nell'attuale panorama critico-espositivo come una vera e propria sfida. Due, a nostro avviso, le ragioni principali.

Innanzitutto per le intenzioni: esporre l'incidente, attraverso una serie di documenti televisivi e di installazioni video. Immagini catastrofiche che si susseguono negli spazi oscuri del sottosuolo, cui si discende dopo la visione della scultura di rovine di Nancy Robbins: cinque tonnellate di lamiere, fusoliere e altri resti di aerei affastellate e sospese dal suolo, che ci invitano ad esporci al rischio di passarvi sotto. Un'opera che sospende la gravità e rapprende l'istante della caduta, il momento senza misura prima della distruzione. Dalle riprese del crollo del World Trade Center, testimonianze fortuite di artisti come Tony Oursler, ai montaggi di immagini d'archivio della conquista spaziale (Artavazd Pelechian), la mostra passa in rassegna indistintamente catastrofi naturali e nucleari.


Da ricordare inoltre Tonight So Lovely di Cai Guo-Qiang che ha ripreso lo spettacolo pirotecnico da lui organizzato nel cuore di Shangai in occasione dell'APEC (Conferenza Asia Pacifico) svoltosi dopo l'11 settembre. In occasione della mostra a questo schermo si affianca la proiezione della versione ufficiale del governo cinese, che ha vietato le strade ai cittadini per imporre la diretta televisiva con sottofondo musicale e voice-off. Un vis-à-vis sintomatico che fa implodere quello che Virilio chiama l'"otticamente corretto", la regia delle autorità - pervasiva quanto dissimulata, ipocrita quanto grottesca.

Come giustificare tuttavia il cortocircuito fra attentato e incidente? La mondializzazione, in sintesi, tende sempre più a confonderli, o meglio a disporre dell'incidente come di una strategia di guerra. Così l'11 settembre, attentato terroristico sotto forma di "incidente volontario", evento mediatizzato vicino all'immaginario del cinema americano. Se, seguendo la citazione di Freud che apre l'esposizione, "l'accumulazione mette fine all'impressione del caso", un luogo che impedisca la dispersione e l'oblio degli incidenti, del loro incedere imperscrutabile e disordinato, si rende necessario. Così è possibile rimettere in prospettiva la differenza fra attentato e incidente; da qui la proposta di Virilio di un museo dell'incidente (di prossima apertura in Giappone). Un crash test che non decida la tecnica dalla sua negatività, la sostanza dall'accidente: nave e naufragio, treno e deragliamento, aereo e schianto al suolo… "Esporre l'incidente per non esporsi più all'incidente".

Se sfugge questo passaggio, l'analisi di Virilio sul mondo virtuale, sulla tecnoscienza, sulla 'filo-lollia' e sulla 'dromologia' (ovvero la scienza della velocità, dell'accelerazione della percezione e della comunicazione, della contrazione del tempo causata dalla tecnica), rischia di sfuggire o di farsi ambigua, fatta della stessa sostanza dell'oggetto messo in questione e dunque surrettiziamente compiacente (come a volte è stata interpretata dalla stampa italiana). Tutto risale al 1986, anno d'apertura del museo delle scienze e delle tecniche alla Villette di Parigi: Virilio propone, senza successo, un prassi espositiva che mostri, accanto ai successi e alle meraviglie della scoperte scientifiche, anche i disastri che svelano in negativo la potenza della tecnica, le conseguenze rimosse del progresso. Uno sguardo retrospettivo è sufficiente a fugare ogni sospetto di catastrofismo: il 1986 è l'anno dell'esplosione della centrale nucleare di Chernobyl e dello shuttle Challenger. E per limitare lo spettro a questo mese va ricordata l'esplosione dello shuttle Columbia, dell'aereo militare iraniano, così come l'attentato alla metro di Seul (per insistere sull'ambiguità dell'incidente volontario).

Difficile allora dar torto alla proposta avanzata da Virilio. Tuttavia nessun facile pessimismo: l'autore-curatore di Ce qui arrive, per riprendere una definizione che Baudrillard ha dato di se stesso, ha l'attitudine del parossista (da paroxyton, la penultima sillaba), di colui cioè che si ferma un attimo prima della fine e da questa postazione osserva i fenomeni estremi. Cartografa il reale, diagnostica il presente e gioca con la fine, la mette in gioco, fa violenza al reale, alla sua imposizione e ai suoi occultati processi di costituzione, costruisce analisi folgoranti e inesorabili. Ma qui le strategie, spesso consonanti, divergono: mentre Baudrillard tende a portare questo processo alla saturazione, al collasso accelerando la fine irreversibile, Virilio mette in guardia dall'imminenza della fine ricordando come ogni incidente della conoscenza è al contempo un incidente della coscienza. Da qui l'idea del museo. (Resta da scrivere una 'messa in tensione' di questi due pensieri radicali, ad esempio sul tema della funzione dell'arte).

Una seconda sfida - last but not least - è interna al pensiero del curatore, e consiste nel passaggio dall'ordine del dicibile a quello del visibile, nel tentativo di estrinsecare la linearità logico-discorsiva della parola critica in una deambulazione audiovisiva (senza didascalie esplicative ma con una riuscita intervista a Svetlana Alexievitch, testimone diretta della tragedia di Chernobyl). Ce qui arrive è nato infatti come saggio, pubblicato poco prima dell'esposizione e appena tradotto da Cortina con un titolo ancor più apocalittico, L'incidente del futuro. E la mostra, sovrapponendo documenti storici e finzione artistica, immagini catodiche e digitali, si presenta come una vera e propria scrittura del disastro (l'espressione è di Blanchot), in cui "ciò che si espone non è altro che ciò che esplode".

Attraverso la forma-saggio quanto la forma espositiva, Virilio si muove su un terreno fertile: tirar fuori l'arte dalle maglie della storia dell'arte e soprattutto tirar fuori le immagini dai confini dell'arte (in questo del tutto coerente, ad esempio, a quanto si è visto all'ultima Documenta di Kassel). Nelle intenzioni il suo museo lavora per sottrarre la visione alla sovraesposizione della telepresenza (la cui ultima frontiera è la telesorveglianza); per allestire uno spazio che restituisca al presente una profondità di tempo contro la finzione del tempo reale, che acceca lo sguardo e la riflessione. Del resto Virilio non è nuovo a questo tipo di raffronti, come testimonia la mostra-catalogo del 1975 Bunker Archéologie, un viaggio-reportage fotografico dell'autore fra le vestigia di cemento delle fortificazioni militari costruite durante la Seconda Guerra Mondiale lungo l'Atlantico - un insediamento strategico che ha mutato la natura del paesaggio e ha trasformato il litorale in un muro a ridosso del mare.

Una mostra all'altezza della posta in gioco, dunque. Certo, aggirandosi per le sale della Fondation Cartier, sita fra il cimitero e il grattacielo di Montparnasse e costruita da Jean Nouvel che, secondo Virilio, annuncia la virtualizzazione dello spazio, non si può nascondere l'impressione che il museo dell'incidente non sia ancora altro che un'idea in nuce, del tutto priva di conformazione visibile. Restano fra l'altro da pensare dei dispositivi efficaci che inducano il pubblico a 'prendere tempo' per visionare una lunga sequenza di video. Tuttavia Virilio, con quello spirito caustico e provocatorio che gli è proprio, ci ricorderebbe che il museo degli incidenti già esiste sotto i nostri occhi e rischia di divenire il nostro unico orizzonte di visibilità: lo schermo della televisione.

Informazioni utili:

Ce qui arrive
Fondation Cartier, Parigi
fino al 30 marzo

Immagini ed informazioni sulla mostra sono disponibili sulle pagine del sito della Fondation Cartier

 


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