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"Impressionismo italiano" a Brescia



Massimo Negri




A metà Ottocento l'invenzione della macchina fotografica libera gli artisti dal compito di documentazione della realtà. L'addio al pittore-fotografo porta con sè un maggior grado di scelta. Infatti gli artisti, non più vincolati a "ricalcare" il vero di personaggi o di paesaggi, possono dedicarsi più liberamente a fissare sulla tela le "impressioni" del momento, le loro emozioni visive. A tale scopo, escono dagli ambienti un po' artificiali degli atelier e svolgono la loro attività en plein air a diretto contatto coi colori, con la luce e coi soggetti naturali o umani che intendono soggettivamente interpretare.

Una mirabile esposizione dell'"impressionismo italiano" è allestita a Brescia, a Palazzo Martinengo, fino al 16 marzo 2003. Curata da Renato Barilli, approfondisce i contenuti di quella dello scorso anno "Impressionismo in Europa. Non solo Francia", mostrando come l'insegnamento dei maestri d'Oltralpe abbia trovato, in Italia, dei validi allievi.

A rimarcare però la differenza tra la Francia dove Parigi esercitò la sua funzione centripeta e l'Italia dove la divisione politica pre-unitaria influenzò un policentrismo anche nel campo dell'arte, la mostra è divisa in sezioni che illustrano le varie peculiarità regionali. V'è il primato della scuola toscana ma pure la dignità della scuola napoletana e di quella lombarda. Completano la rassegna le particolarità legate a Veneto, Liguria e Piemonte mentre una breve sezione post-impressionista apre alle evoluzioni successive.

Volendo, in poche righe, accennare all'aspetto della mostra che mi è piaciuto di più direi senz'altro la varietà dei temi trattati dagli autori a dimostrazione che il movimento impressionista non è riducibile ad un diverso modo di osservare e di rappresentare "la natura" pur conservando, quest'ultima, il suo giusto peso. Spero di riuscire a fornirne un esempio citando i quadri che maggiormente hanno catturato la mia attenzione.

"Nel roseto" di Silvestro Lega c'è una quieta atmosfera familiare con una bimba col berretto rosso accovacciata ai bordi di un vialetto di casa mentre la madre, in piedi e col cappello giallo, attende alle piante del giardino. Le pennellate di nero, un colore in genere poco usato, mi rinviano a Matisse.

"In bicicletta al bois" di Federico Zandomeneghi si respira il momento del riposo e dello svago. Una ragazza ben vestita pedala sotto lo sguardo di due amiche semi-distese sull'erba. I tre cappellini in capo alle giovani, di diversa fattura e colore, conferiscono un leggero tocco di eleganza.

"La messe" di Carlo Pittara sviluppa il tema del lavoro dei campi. Protagonista è un carro colmo di covoni trainato da quattro buoi in primo piano sotto il giogo emblema delle fatiche cui erano sottoposti gli animali e gli uomini nella società contadina dell' epoca.

"Ritorno in caserma" di Giovanni Fattori segna l' irrompere in scena della storia, del Risorgimento. Il padre dei macchiaioli mette a fuoco non il momento della battaglia bensì il rientro, quasi mesto, dei soldati coi loro cavalli nell' arida radura sabbiosa davanti alla Fortezza da Basso a Firenze.

Sono stato infine colpito dal quadro di Mosè Bianchi che rappresenta un contesto urbano di fine Ottocento, una Milano all' imbrunire coi lampioni già accesi, il cielo che mette pioggia ed alcune persone che salgono a bordo di un tram a carrozza trainato da una coppia di cavalli. L'opera trasmette il senso di un tempo ovattato, quasi un silenzio cittadino irrimediabilmente perduto.

Alcune immagini della mostra sono disponibili al sito
Brescia Mostre

 


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