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Pearl Jam: dichiarazioni di guerra alla guerra



Francesco Rossi




In tempi forieri di guerra è tempo di ribellarsi, suggerisce Riot Act, il nuovo acceso e pregnante manifesto musicale degli unici sopravissuti (e pure miracolosamente intatti) del Grunge. Per i Pearl Jam il passaggio al terzo millennio è stato delicato: c'è stato l'11 settembre anche per loro, paladini di quella controcultura USA ora sottoposta a una difficile prova di fede verso una nazione sempre meno disposta all'autocritica e più incline alla semina di bombe; c'è stata la sconvolgente tragedia di Roskilde in cui nove fan del gruppo persero la vita proprio durante un loro concerto; e c'è l'immanente equazione artistica Pearl Jam = musica d'oggi.

Dodici anni dopo l'esplosione del rock di Seattle, che senso ricopre quella musica nel 2002? La risposta è Riot Act, un disco che già dalla copertina svela tutti i dilemmi dal quale è pervaso: un quadro fosco, cupo, certamente ispirato ma non risolto, con una grande volontà di introspezione, di scavare nel marcio (Green Disease, Bu$hLeaguer), di addentrarsi nell'oscurità dei nostri giorni, sentimenti e pensieri, e talvolta lenire le proprie ferite al caldo di un focolare, ultimo rifugio conosciuto (Thumbing my way).

Alla voce urlata e rabbiosa Eddie Vedder ora preferisce toni più riflessivi, ma il messaggio è quanto mai politico, chiaro e forte, teso fra l'urgenza d'esprimere la propria natura, pura e libera ("voglio lasciar la mia mente e urlare, non puoi costringermi qui", Can't Keep; "Io sono come un respiro dopo l'altro, possiedo solo la mia testa... io sono mio" I am mine) e la preoccupazione per lo stato delle cose, vedi politica guerrafondaia ("come può farlo, come possono farlo? E' irreale e immutabile, non è un leader, è un giocatore di baseball del Texas" Bu$hleaguer), devastazioni ambientali ("la mia testa è grigia...come la città" Ghost), schiavitù dell'uomo comune al dio denaro ("non sembra che qualcuno sia mezzo vuoto, ma mezzo pieno... di merda" Full).

Non cercate il sovrappensiero o il sottofondo musicale da queste parti, Riot Act è disco di musiche e parole pesanti: ne ha per tutti, colpevoli e vittime del nostro destino, delle nostre azioni e scelte elettorali. A tratti soffre con il suo palpito meditabondo, scostante, lungo 15 episodi molto dissimili che, pur con tanti spunti di grande fascino e ispirazione (You are, Love boat captain, All or none, Can't keep), stentano a prendere il volo, perdendosi talvolta fra ritmiche e armonie forse troppo elaborate, e suggestioni etniche ancora non a fuoco (Arc), facendo così rimpiangere l'immediatezza e la furia liberatoria dei loro classici.

D'altra parte come pretenderlo: non è più tempo di intentare guerra al mondo intero, la guerra c'è davvero e fermarla si può solo dando l'esempio: ripudiandola con parole e fatti.

 


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