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Un cuore solo non basta



Carlo Violo




Cari amici

molto spesso un cuore solo non basta. Ce ne vorrebbero due, o tre, o enne. Uno per dare valore all'amicizia. Uno per nutrire i rapporti d'amore. Un altro per arricchire di entusiasmo le piccole cose quotidiane. E poi ce ne vorrebbe uno da dedicare al pensiero degli affamati e assetati di questo mondo. Un altro servirebbe per donare, senza riserve e pregiudizi, la nostra presenza trepidante ai figli. Un altro cuore, un cuore da leone, occorrerebbe per infrangere gli specchi che ci costringono nei labirinti della paura. Un cuore ancora più grande servirebbe per credere nella gioia senza dimenticare le tragedie.

E' una lista lunga quasi quanto ogni respiro della vita. Purtroppo qualche misteriosa legge cosmica ha affidato a questo essere senziente che popola la Terra un'impresa molto ardua, quella che sarebbe difficile anche per gli angeli che pure non sono limitati dalla carne: amare e accettare tutto con un cuore solo. Così ventisei piccole bare bianche sono troppe per un cuore solo, ancorché narcotizzato dallo smog e dall'inquinamento, dalla routine dello sbarco del lunario, dalle ansie grandi e piccole, vere o presunte, dal consumismo e dall'opportunismo.

Cari amici, il mio unico cuore non basterebbe se restassi rintanato in casa senza cercarvi. Il dolore racchiude questo mio unico cuore come un guscio e so che rompendolo posso esporlo al sole. Me lo ha insegnato qualche mese fa un mio amico ottantenne che vive in Inghilterra. Mi ha telefonato per farmi le condoglianze. Li per li gli ho chiesto perché. Sapete come succede? Uno sta pensando agli impegni di lavoro della giornata, alle tasse da pagare, alla mancanza di intesa col partner e improvvisa arriva una telefonata:

"Ciao Carlo come stai?"

"Bene e tu? Com'è il tempo a Londra?"

"Triste. C'è il sole oggi ma sento un vuoto incolmabile. Condoglianze."

"A cosa ti riferisci?" Ho chiesto stupidamente pensando alla morte di un comune amico.

"Ai bambini del Molise. Lo sai vero che i bambini sono un patrimonio di tutta l'umanità?"

Avevo già pianto per come mi permette il mio unico cuore e in quel momento giacevo svuotato di energie. Un uomo di ottant'anni stava piangendo con me, da un altro Paese! Non ho saputo replicare, schiacciato dalla responsabilità di ricevere condoglianze a nome di un popolo intero, annichilito dalla constatazione che il mio unico cuore era riuscito solo a soffrire nell'orizzonte ristretto di padre, annientato dalla dimenticanza che un vecchio e un bambino sono due facce dello stesso mistero: l'alfa e l'omega. Umiliato dal trovarmi impreparato a ricevere una testimonianza di così grande dolcezza. Incapace di sperare che qualcuno, ormai oltre ogni età che riteniamo attenta ai grandi sentimenti, potesse dedicare il suo tempo al mio, al nostro dolore.

Pensando: "Cosa avrei fatto se fosse successo a mia figlia?" avevo esaurito nella pena personale la partecipazione ad una tragedia immane, una tragedia da enne cuori.

Il mio unico cuore, lo confesso, fatica a contenere la morte, e, quindi, a conservare la memoria del transeunte. Preferisce la ciambella di salvataggio della scarna cronaca TV, quella che fa apparire il dramma, seppure condiviso, lontano dalle pareti di casa, lontano dalla responsabilità che abbiamo in comune come padri e come cittadini. Quello che ci invita a digerire tutto in fretta per passare al prossimo piatto, come un qualsiasi altro prodotto confezionato al fast food.

Ma i figli, che conduciamo per mano sperando che in futuro sappiano fare meglio di noi, i nostri figli, sono la testimonianza vivente che la vita di ogni giorno è un prodigio, e chiudersi nel silenzio addolorato, per quanto profondo e intimo, impedisce di accompagnarli nella meraviglia per le piccole cose quotidiane che riempiono le loro giornate attraverso la magia delle sensazioni: il profumo del quaderno nuovo, il gioco con gli amici, l'attesa per il cinema. Impedisce di essergli vicino, godendo insieme a loro nell'infanzia che si rinnova sempre.

Cari amici di dolore, se devo continuare a raccontare fiabe a mia figlia, debbo scrivervi, non per un semplice sostegno, o per un atto di solidarietà visibile, ma perché anche il dolore di una tragedia è un patrimonio dell'umanità, come le Piramidi o il Colosseo. E' come un lontano rullo di tamburi che ridesta la nostra anima dal suo lungo sonno e la chiama a tornare in se. E' lo squillo delle trombe del Giudizio che, udite solo dallo spirito umano più autentico, chiamano a raccolta le coscienze.

Quando il Principe, baciando la Principessa, la risveglia, sono tutte le generazioni di sogni che tornano a rivivere. Anche le nostre generazioni che, in noi stessi, giacciono sotto anni di terremoti emotivi. Mia figlia vuole che le racconti sempre qualche storia d'amore e di magia. Quando, la sera, giungo all'immancabile epilogo del racconto, mi dice: "Buone notte pà" e si addormenta serena, perché conosce la saggezza del risveglio, all'indomani, essendo lei stessa divenuta Principessa.

Io chiudo il libro. Non so cosa riserva il futuro per me, per lei, per tutti noi. Non sono saggio come l'infanzia di mia figlia che è sempre ottimista per il futuro perché conosce tutto sul cuore del presente. Ma se ho condiviso veramente l'attimo comune e fuggente della speranza della fiaba della sera, i nostri cuori sofferenti, cari amici, saranno meno frammentati nella loro disperata e impotente solitudine. E' l'impegno minimo che devo alla parte di tutta la nostra infanzia che in quella triste giornata di fine ottobre ci ha lasciato.

 


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