Caffe' Europa
Attualita'



Memorie e invenzioni



Domenico Guzzi




Probabilmente, poiché inerente comunque ad un fare-immaginando che sembrerebbe, come di ogni altro artista, anche di Chirico, converrà esordire indicando di quale tensione possa essere il colloquio -peraltro evidente- che il pittore intrattiene con le cose e il visibile. Tensione che si genera, e prende fiato, attorno al concetto di verità su cui, poi, la natura e cultura di Chirico interviene a "correggere", foss'anche inconsciamente, ma per più volte con coscienza, talune tentazioni.


Eduardo de Filippo,
matita su carta, 2000


Si tratta, ciò detto, di un rapporto essenzialmente metamorfico per il quale il dato oggettivo è, sì, di assoluta necessità -per il pittore si ha l'impressione che non si darebbe immagine in assenza di un referente visibile- ma sarebbe, esso solo, certo insufficiente alla compiuta declinazione di una conclusione pittorica. Di qui, propriamente, i colloqui che il pittore, nel tempo e in ogni suo tempo, ha intrattenuti con alcuni della contemporaneità, e con cert'altri del trascorso.

D'altra parte Chirico stesso non ha mancato di scrivere: "[…] Ritengo che l'artista debba cercare di filtrare attraverso la propria soggettività creatrice i molteplici aspetti della realtà con cui si incontra, o si scontra, […]. II suo lavoro di confronto e di riflessione sul mondo e su se stesso deve quindi tendere ad una chiarezza di espressione che renda leggibile l'intenzione e la tensione da cui nasce l'opera […]".

Non è dubbio che, laddove egli parla di "soggettività creatrice", questa sia da intendere come soggettività essenzialmente complessa, alla cui formazione concorre non solo l'"accumulo" di oggettive informazioni che la realtà è, di per sé, in grado di alimentare e suggerire, ma anche, e soprattutto, quelle informazioni latamente culturali (cioè proprio di "memoria storica") che il vissuto, tanto personale quanto collettivo, ha sedimentate e sedimenta. Non per nulla Chirico può alludere ad un "confronto", il quale ha propriamente per polarità di oscillazione l'una e l'altra situazione. Diciamo tra una immediatezza "passionale" ed una susseguente razionalità. Al fine -dice ancora il pittore- di rendere "leggibile l'intenzione". Per traslato: al fine di render chiaro il tutt'uno dell'opera.


Le mie scarpe,
disegno a matita, 1983


Così, nei suoi precoci anni d'esordio non sarà inopportuno indicare talune suggestioni che potevano venirgli da certo interesse per una "deformazione" di ascendenza espressionista, pur venata di richiami neocubisti (Nudo di donna, 1971); valenze su cui non avrebbe tardato ad innestare un che di adombrato -e quanto attuale in quegli anni- ideologismo (Vecchia sulla porta, 1972). Giungendo, in tal modo, a forme aspre, per di più sottolineate da eloquenti e forti segni neri; adottando, si direbbe, un "gusto" che inevitabilmente trasse da alcuni insegnamenti all'Accademia di Brera. E, seguitando, realtà ed afflati ideali arrivando a coniugarsi in una "maniera" di forme in tensione reciproca (Donne di S.Luca, 1974). Memoria, perciò. Colloqui a distanza ed altri maggiormente ravvicinati. Mentre la materia ricerca nel grumo: in una pennellata densa e strisciata, la propria identità nel vero (Cane stanco, 1976). Ma anche, si direbbe, la propria trasgressione dall'identità.

Questi gli inizi. Poi, Chirico -1978-1979- ancor più s'avvicina, evolvendo il proprio codice, all'apparenza del vero. E lo fa, essenzialmente, per via di disegno. Declinando il proprio spartito, così come notava Vespignani, in maniera assai prossima ai termini di un "inganno ottico". Ciò a sottolineare l'esistenza d'una "minuzia" che non fa mistero di esercitarsi sui particolari; facendo altresì conto che l'esattezza di più d'essi conduce e determina l'esattezza di un assieme. E sono, allora, alcuni autoritratti ed alcune figure da cui sembrerebbe, in qualche misura ed altrettanto lecito, avvertire l'insinuarsi di un esercizio ulteriore che, come è stato correttamente notato, si esempla su talune condizioni di distacco ironico.

Si avverte l'intensità, in tal maniera, di un chiaroscuro in punta di matita e di pennello che vuol essere deliberatamente eloquente; che vuole, cioè, a tal punto rincorrere il concetto di verità (il fruscio di un drappo, di un abito come, di contro, la fragranza d'una "cosa" o di un oggetto) da tentare la mimesi. Pur nella costanza di un rapportare a sintesi inventiva ogni suggerimento.

E poiché di memoria s'è parlato, in uno di tali autoritratti, in un assetto compositivo che potrebbe asserirsi sinottico e come squassato, peraltro, nella partitura oggettiva dello spazio, ecco un antico "busto", in contrapposizione e in dialettica all'attualità del sé. Spazio in cui, tra l'altro e come fosse sorta di albero maestro, "veleggia" un pennello. Si tratta d'una dichiarazione che si crede non lasci spazi ad incertezze. Allo stesso modo in cui fuor d'incertezza, e tuttavia alludendo ad una sensazione "surreale", è altro disegno autorappresentativo: Le mie mani (1980).

Queste, e queste solo nel e sul bianco del foglio. Sul piano teorico, un'allucinazione; su quello del fare e dell'immaginare, un inseguire la realtà della realtà. Di qui, la conclusione che se "simbolismo" e "surrealtà" possono evocarsi a fondamento, un'apparente "iperrealtà" tende a dare supporto ed interna struttura alla formulazione dell'immagine. S'apre una nuova stagione. Ed è La sedia (1981), L'artista e il suo doppio (1982). Il pittore si ritrae al cavalletto. E segue, simultaneamente vedendosi di prospetto e di profilo, una traiettoria "movimentata". Ulteriore elemento non tanto di ascendenza quanto di meditata "citazione" del trascorso. Sempre, ovviamente, nella puntualità di un'indagine in punta di matita.

Disegno che non tarderà ad indicarsi essenziale negli esiti, anche, della pittura. E' un nuovo Autoritratto (1985) ed è L'attesa (1986). Dipinti in cui, tuttavia, s'avverte (difformemente al passato del pittore) la pellicolarità della materia. Sin quasi a leggere, al di là del colore e attraverso d'esso, l'ordito stesso della tela. A sottolineare, in altri termini, come la sua pittura non possa -e non voglia- prescindere dall'immediatezza di per se soddisfacente di un rapporto diretto con la realtà. Cui dare ulteriormente identità. Per la quale, ancora e non per nulla, Chirico vede in terra a sé vicini (in altri dipinti li vedrà emblematicamente allineati come elementi d'una topografia) due tubetti di colore fuor di dubbio "maneggiati", come talune "ammaccature" sulla loro metallica superficie stanno a testimoniare.

Così, mentre la figura si analizza (ancora una volta le pieghe dei calzoni e della camicia: non senza talune accentazioni che potranno pur esser state "di maniera") il fondo diviene luogo privilegiato su cui formulare a ritaglio la figura stessa: annotazione non priva di importanza anche per quadri di tempi a venire. Fondo atmosferico ma senza "luogo", a rafforzare la sola identità dell'individuo. Un autoritratto, ancora: Io (1988). In questo, figura e fondo in ogni caso ribadiscono, nonostante il secondo vibri di più articolati accenti di verità -il mare in abbreviata lontananza, una sintetica natura morta in primo piano- la loro separazione. Attraverso il riaffermato interesse per un narrativo segno-disegno del personaggio; segno-disegno che si dilata in pennellate e colori, stridenti a volte, tutt'attorno.

Memoria, si riafferma: Chiodo e camicia appesa e Dopo il lavoro (1992). Come non pensare (e già L'attesa quanto l'Autoritratto dell'85 potevano indurvi, rinviando a certi ritmi e campiture e soluzioni del tempo di "Citera") alla sofferta lacerata drammatica sanguinosa verità vespignanea del "ciclo pasoliniano"?. Chirico esempla un simbolo. Lo estrae ed astrae. Lo insiste. Proietta ombre brevi ed allungate sul muro retrostante cromaticamente uniforme. Di qui, proprio, l'accento volumetrico e plastico dell'immagine. E, così come nei disegni il fondo è per lo più sempre bianco (quasi un fondale), anche nella pittura tende ad esserlo. Con l'in più, nello specifico, di due striature colorate ad echeggiare, riaffermandola, un'esistenziale benchè sintetica e persino simbolica verità.

E Il grande ulivo ('92), a rendere omaggio al mondrianiano tempo di passaggio dalle contaminazioni della verità all'assoluto d'una verità. Ne Il muro (1992), parimenti, è un richiamo, filtrato obliquo a tal punto rarefatto da neppur sembrar tale, di nuovo a quel Vespignani che di Chirico, proprio, ha sottolineato la sincerità dell'artista che "[…] risolve ogni possibile contraddizione dell'assunto, la sua "innaturalezza" nella naturalezza del linguaggio […]". Chiave per la quale, se potranno esser "citazioni", quelle di Chirico, se ne dovrà intendere l'assenza di "malizia".

Per giungere, infine, ai numerosi dipinti che, nel recente, il pittore ha dedicato al Cinema e ai suoi protagonisti. Quadri per i quali, alle prime, si sarebbe tentati di indicare una frattura con quanti antecedenti. Ma che, ad analizzarli, piuttosto appaiono testimoniare una continuità di sostanza. Poiché le fotografie di cui Chirico si serve altro non indicano, e sottolineano, che la sua necessità di tendere e raggiungere gli equilibri del vero. Poiché i fondi, ancora e da par loro, altro non reiterano che l'idea di "vuoto", di soluzione "ritagliata" per la quale ancor meglio leggere o "inquadrare" (verbo opportuno) una centralità narrativa. Mentre pur richiamano (e ci sarà da leggere la qualità di taluni impasti, come la qualità del più complessivo ductus materico) l'essenza dell'immagine cinematografica ad emergere, con propria luce ed energia, dal buio della sala.

E sono Totò, De Sica, la Magnani, Eduardo, Benigni e quanti altri. Fotografie (o, meglio, fotogrammi) su cui neppur manca un'intervento, in tal maniera dando adito ad una estensione della pittura medesima in ogni luogo del supporto. In tal modo, in un quadro titolato Mito del Cinema (1998), su un fondo verde ampiamente screziato e modulato, si snoda in sequenza una pluralità di immagini minime ma concettualmente significanti. Sì da eguagliare, si direbbe, esiti caleidoscopici e, più correttamente, lo scorrere di un "nastro" con le testimonianze d'una storia.

Né è da credere che il pittore giunga a tali "omaggi" impreparato. Poiché su un piano di ricerca inventiva, s'è fatto accenno ad una continuità; mentre su quello d'una selezione del materiale è, nel suo studio, testimonianza un buon numero di libri e monografie ad hoc. Così come, sul piano più squisitamente culturale possono indicarsi, come peraltro è già stato fatto, ulteriori ascendenze. Purchè, naturalmente, le si intenda vòlte ad una critica soggettività.

 


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