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La guerra globale



Carlo Galli con Roberto Bertinetti




Carlo Galli, La guerra globale, Laterza, pagg. 107, euro 9,50

"Gli attentati dell'11 settembre, gli attacchi al cuore dell'America a dieci anni dal crollo dell'Urss, mostrano con drammatica evidenza che oggi il mondo è più violento e dinamico di quello 'glaciale' dominato dalle due superpotenze". Un'instabilità perenne, sia sotto il profilo economico che politico, costituisce la cifra della contemporaneità a giudizio di Carlo Galli, docente di Storia delle dottrine politiche presso la sede forlivese dell'Università di Bologna e autore di La guerra globale (Laterza, pagg), il saggio più originale, interessante e completo proposto da uno studioso italiano sulle cause degli avvenimenti degli ultimi mesi.

Le vecchie categorie interpretative, spiega Galli, sono inutilizzabili perché lo Stato è incapace di filtrare il disordine dell'ambiente esterno, trasformandolo in pace interna. La conseguenza più evidente, aggiunge, "è che quello della globalizzazione è un mondo di guerra, che fa esperienza di un conflitto di tipo nuovo, senza frontiere, in cui non ci sono avanzate o ritirate, ma solo atti nei quali si manifestano logiche di guerra".

Professor Galli, qual è la fonte della discontinuità rispetto al passato?

"La globalizzazione economica, che ha travolto spazi politici e istituzioni come lo Stato e la sua sovranità. Di fatto, il mondo moderno nel quale eravamo immersi era un mondo statale. All'interno dello Stato, si affermava, non possono capitare determinate cose, ad esempio la guerra civile, mentre all'esterno ci può essere il conflitto. Dentro lo Stato c'era l'ordine, fuori il disordine, dentro il diritto, fuori l'anarchia. Oggi questa funzione della politica non è più attuale, la politica non è più capace di operare la distinzione tra interno ed esterno".

Separare l'interno dall'esterno significava anche riconoscere amici e nemici. E oggi?

"Oggi soffriamo di gravi errori percettivi. Ad esempio, nella guerra globale nella quale siamo immersi ci pare di scorgere un conflitto di identità perché questo era il modo in cui sino a pochi anni fa si organizzava lo spazio politico. Di fatto questa distinzione non vale più, e non esiste nemmeno più un conflitto tra identità. C'è semplicemente il caos, e in questo caos ci sforziamo vanamente di individuare delle identità che costituirebbero la causa del conflitto. Quando invece la produzione paranoide di queste identità è invece una delle conseguenze del conflitto".

Un'analisi valida anche per i terroristi?

"I terroristi mi sembrano prigionieri di un'immagine del nemico che definirei fantasmatica. Credono, cioè, alla possibilità che il nemico si condensi in un'unica figura, che esista un simbolo del male del mondo. Noi, di converso, vediamo in loro la stessa cosa. Nulla di più falso, secondo me. Nel mondo contemporaneo, infatti, non esiste alcuna configurazione di ordine alla quale si opponga una configurazione di disordine, non c'è un normale conflitto tra identità. C'è, invece, il loro mescolarsi nell'informe grigiore della globalità".

Lei nel suo saggio sostiene che dobbiamo imparare a vedere in modo nuovo la realtà. Per scoprire cosa?

"In primo luogo che esiste la guerra globale e non lo scontro delle identità. E poi che la guerra globale è una caratteristica dello spazio globale nel quale viviamo. Imparare a guardare non significa, ovviamente, che dobbiamo imparare a farcelo piacere, dato che quella che stiamo vivendo è una situazione quasi patologica, di insicurezza troppo alta. Ma se non si impara a guardare è impossibile iniziare a riflettere su come si può uscire dalle spire della globalizzazione e dalla guerra globale che ne è il risvolto necessario".

Quali scenari immagina per il futuro?

"Ci sono tre possibilità. Una è quella della costruzione di un impero occidentale in perenne guerra contro il nemico terrorista, una guerra che tuttavia si suppone possa essere, prima o poi, vinta. La seconda si fonda sul ritorno ad una proposta politica globale all'insegna dell'universalismo. Mentre la globalizzazione è un mondo unificato dalle sue contraddizioni, il recupero dell'universalismo vuol dire, in termini pratici, che i governi si adoperano per far funzionare l'Onu, trasformato una sorta di polizia globale a scopo di pace, si battono per istituire tribunali penali internazionali capaci di giudicare e condannare chi si macchia di crimini di guerra.

La terza possibilità è quella che io definisco una 'rispazializzazione' della politica, ovvero tornare a immaginare assetti istituzionali che permettano di ridefinire i concetti di interno ed esterno. Che non vuol dire, ovviamente, reinventiamo lo Stato. Ma significa invece dire, ad esempio, costruiamo davvero l'Europa unita".

C'è davvero spazio politico per un'Europa meno divisa di quella attuale?

"L'Europa rappresenta una speranza fondamentale. Solo attraverso l'istituzione di un ordine europeo sensatamente unitario si può cominciare ad uscire dalla poltiglia che è la globalità e, soprattutto, da quella poltiglia che è il concetto di Occidente così come viene adoperato oggi. L'Europa è la via attraverso la quale si può differenziare e ripensare il concetto di Occidente. L'Europa dovrebbe rappresentare lo spazio politico all' interno del quale, ad esempio, vigono i diritti umani. Se questo avvenisse, l'Europa istituirebbe una differenza specifica all'interno della nozione dell'Occidente e costituirebbe una sorta di terra ferma nel mare tempestoso della globalità".

Cosa potrebbe garantire lo spazio politico europeo?

"L'esercizio della libertà. Che per esistere ha bisogno, appunto, di uno spazio politico, visto che non esiste in astratto e neppure in natura. Oggi abbiamo bisogno di ridefinire la libertà in modo che essa sia qualcosa di più di una mera assenza di vincoli o l'insieme di vincoli che abbiamo scelto, perché altrimenti tentiamo di riprodurre senza alcuna possibilità di successo l'antico e ormai defunto modello dello Stato. Occorre, invece, ragionare in maniera nuova. Il processo di costruzione dell'Europa costituisce, a questo proposito, un'opportunità davvero preziosa".

Chi sono, a suo giudizio, i protagonisti dei processi politici dell'epoca globale?

"I soggetti politici, lo dico senza retorica, siamo davvero tutti noi. La globalizzazione ha questa proprietà: di trascinare, volenti o nolenti, tutti i popoli sulla ribalta della storia, sulla ribalta della decisione politica per la conquista della libertà. Nessuno è al riparo dalla globalizzazione, la globalizzazione interpella tutti, ci sfida tutti. E, di conseguenza, i soggetti politici sono, davvero, tutti gli uomini e le donne del mondo".

 


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