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Terrorismo: una questione di linguaggio?



Carlo Violo




Un vecchio adagio dice: la storia la fanno i vincitori. Se la storia, più che fatti, è racconto, è interpretazione, e a volte si fa parabola e metafora, allora può essere vista come una delle variazioni possibili del linguaggio umano, come la matematica, o la filosofia, e la sua dimensione comunicativa dipende direttamente dagli stilemi utilizzati. E, naturalmente, gli stili delle storie narrate dai vincitori sono quelli del loro pensiero.

Così il bombardamento di Dresda non sarebbe stato un atto di guerra, nel caso di vittoria dei tedeschi, ma un atto di terrorismo. Sappiamo tutti quali e quanti altri episodi, grandi e piccoli, possono essere annoverati tra quelli dai connotati cangianti a seconda del colore della bandiera prevalente. Lo stesso per la cronaca o l'attualità, le cui infinite particelle quotidiane concorrono a determinare la direzione del flusso generale del costume e della società, contenendo cellule vive del pensiero e dell'animo umano in divenire e, perciò, significative per individuare atteggiamenti e manie.

Vediamo il caso del killer di Washington. La faccenda, oltre che una manifesta attività di follia, riveste tutte le caratteristiche dell'atto di terrorismo: proditorio, inaspettato, difficile da afferrare e definire nella genesi e nelle motivazioni, con vittime innocenti e casuali. Seppure la parola 'terrorismo' si sia affacciata qua e là nei vari commenti, la dimensione che affiora nei vari resoconti è quella della cronaca di ordinaria follia che tanto spesso riempie i giornali americani.

Nulla a che vedere con la guerra santa contro Al Qaeda. Del resto l'unico nemico degno di questo nome è il terrorismo internazionale, mica la follia, o la povertà, o la fame, o l'emarginazione, o la degenerazione della società. La cronaca, cioè il modo di raccontarla, è fatta dai vincitori, quelli virtuali: i pensieri dominanti che fabbricano definizioni.

Prendiamo ad esempio una delle forme di comunicazione più diffusa: il cinema. Il fatto che Hollywood sforni quasi in continuazione storie di successo che raccontano tutte le varie forme di follia possibile all'immaginazione umana, dal cannibalismo alla fame sfrenata di onnipotenza, ai meccanismi polizieschi che percorrono inalterati passato, presente e futuro, dichiara che una buona parte del linguaggio del racconto per immagini ha i connotati del noir, con tutte le sue graduazioni.

Ma, come si sa, la forma del linguaggio è espressione del pensiero. Infatti il pensiero riverbera la sua visione del mondo in tutti gli altri settori, compresa la politica che infatti non è più sinonimo di diplomazia, dialogo e mediazione, quanto di cannoni e guerre preventive. La povertà ideale del dibattito a cui assistiamo, che del linguaggio è altra espressione, e quindi della politica che di tali ideali dovrebbe nutrirsi, testimonia le tenebre del pensiero, la visione noir che abbiamo nel cervello.

In altri termini il pensiero, prima che modellare le forme e i modi del racconto cinematografico in una delle sue forme di maggior successo, modella la realtà, o, in altro modo, attira l'unica realtà che lui stesso si rappresenta sul proprio schermo cerebrale. Non è un caso che tali connotati di pensiero emergano prima di tutto nel cinema. C'è un canale diretto tra le proiezioni immaginarie (cioè da 'immagine') e ciò che di tale proiezioni rappresenta l'attualizzazione più diretta: il cinema. E non è un caso che anche la TV, vassalla molto stretta dello spettacolo proiettivo,è immersa anch'essa in segnali di violenza di tutti i tipi, dai telegiornali, alla Real TV, ai dibattiti/scontro.

E' lo stesso immaginario collettivo a pretendere a gran voce il vasto spazio che sui mezzi di comunicazione, anche primari, si riserva agli eventi del cinema, a dispetto di tanti altri eventi artistici quasi ignorati, e che quindi incarna in tutti i sensi il bisogno generale e non espresso di un nume realizzativo dei propri sogni o dei propri incubi. Una espressività fenomenica che rassicuri sulla possibilità che tali sogni di avventura e onnipotenza siano realizzabili, a dispetto di ogni ragionamento razionale, attraverso persone in carne ed ossa che, pur sapendo la finzione, accettiamo come eroi ben oltre lo schermo e ciò che essi realmente sono come essere umani.

Una espressività che trasporti nel concreto e nel condiviso, per altro verso, i fantasmi notturni della mente alleggerendo la pressione della follia latente. Il cinema non fa che prestare uno strumento proiettivo al vissuto interiore, allo stesso modo con cui il nemico di turno è lo schermo su cui riversiamo la nostra violenza ben occultata, cessando ogni ascolto sulla realtà e sulle ragioni di fenomeni che nascono dallo stesso terreno umano di disperazione, smarrimento, cecità, parzialità che accomunano, a vari livelli, le anime umane.

Se il pensiero genera immagini di sopraffazione del più forte sul più debole, se parole come cooperazione, comprensione, rispetto sono bandite dal pensiero prima che dalle parole, come non potrebbe apparire, in maniera massiccia, nel mondo il cosiddetto 'terrorismo' in tutte le sue forme? Che non sono solo forme politiche ma, soprattutto, sociali e finanche domestiche.

Il terrorismo circola per il mondo, prima ancora della sua apparizione fisica più evidente come guerrigliero, attraverso il mondo immaginario degli incubi e delle fobie che, per il semplice motivo di popolare i nostri pensieri, li rendono una concreta possibilità. Circola nella rete capillare dei rapporti quotidiani, si intromette nell'intimità delle famiglie dove emerge, oltre che in varie forme di violenza e sopraffazione, con parossismi omicidi. Circola per il mondo nei pensieri di chi pianifica le guerre, sante o diaboliche, a seconda del punto di vista, di chi calpesta scientificamente i diritti dei popoli in nome dei propri interessi.

Poi accade che l'incubo si materializzi, come è successo col cecchino americano che avevamo già visto in tanti film, come ben sa, per esempio, l'ispettore Callaghan e il suo Caso Scorpio. La scenografia dei fatti di Mosca mi ha prepotentemente ricordato Godzilla, naturalmente senza l'ironia e l'umorismo del Theoropoda Allosaurus. Anche lì la scena finale si svolge in un famoso teatro. I nostri eroi lottano contro gli innumerevoli Godzilla-bebè nati da altrettanti ovetti depositati dalla prolifica madre. Ma sembra che qualcuno degli ovuli sopravviva ipotecando un inquietante futuro, oltre che il ritorno di un Godzilla II.

Così dal teatro di Mosca quanti altri incubi terroristici nasceranno? Quanti altri folli cecchini, o squartatori, o violentatori partorirà la coscienza collettiva malata? Non c'è praticamente nulla degli archetipi terrorifici del cinema che non sia riscontrabile prima o poi in questo mondo di guerre e divisioni. Si potrebbe credere che se il cinema segue gli avvenimenti si tratti solo di una operazione spettacolare a fini di cassetta. Se sono gli avvenimenti a seguire il cinema si potrebbe credere che sia una coincidenza o un fenomeno di imitazione psichica.

Penso invece che si tratti di un unico processo osmotico che riguarda la coscienza umana a tutti i suoi livelli, dove il tempo e lo spazio degli avvenimenti appare lineare solo perché non siamo in grado di cogliere dei nessi circolari, o secondo altre curvature. Tra le infinite possibilità è il nostro pensiero a scegliere la realtà, attingendo al pozzo profondo delle intenzioni. E l'intenzione, per sua natura, non è solo di oggi, o non riguarda solo il razionale e non compete solo al mondo psicologico e emozionale.

Il pensiero, o, meglio, il sentimento positivo o negativo, non vive nel nostro stesso spazio/tempo ma in dimensioni che sono più affini a realtà relativistiche o quantistiche piuttosto che deterministiche o euclidee, come lo stesso apparire delle forme artistiche dimostra. O come l'apparire dei profeti. O come l'incontro con l'uomo o la donna della propria vita che coagula nel presente itinerari già iscritti nel cuore galattico delle possibilità e delle energie delle passioni.

Il meccanismo che lega cinema e visione, visione e coscienza, coscienza ed emozione, si fa evidente nel momento in cui anche il peggiore degli incubi si materializza. La finzione filmica, che di quegli stessi incubi è espressione, appare svuotata di forza emozionale perché privata della dimensione circolare che la connette alla fantasia. Diventa solo un Film Luce, come le proiezione in TV sulla caccia al cecchino e le interviste alla popolazione terrorizzata.

Ci vuole tempo prima che il messaggio cinematografico, quando la realtà gli si avvicina troppo, torni a ritrovare il suo posto di schermo per i nostri sogni ad occhi aperti, per tornare a liberare quelle che crediamo innocue emozioni senza connessioni con la nostra vita reale. Le storie noir non esistono perché esiste una realtà di terrore che ci circonda. Piuttosto il contrario. La realtà nera ci circonda perché esiste già nei pensieri, da dove nascono le sceneggiature, dove invece che tolleranza e longanimità, albergano insicurezza, intolleranza, rigida contrapposizione di colore e cultura, luoghi comuni, schemi e pregiudizi.

Per non dire della noia profonda di chi cerca continuamente nella realtà e nello spettacolo uno stimolo emozionale sempre più intenso per tentare di riempire il vuoto profondo che si porta dentro, come una bara vuota che attende il suo stesso cadavere. La nostra principale fabbrica dei sogni non è, perciò, il cinema ma ciò che si intreccia tutti i giorni con i nostri stati di coscienza. Le storie che vediamo sugli schermi fisici, specialmente quelle narrate con il linguaggio del terrore e degli incubi, sono racconti che narriamo prima di tutto a noi stessi nella vita quotidiana con il linguaggio di gesti e di parole proprio, in senso etimologico, degli incoscienti. O dei sonnambuli.

 


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