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Israele-Palestina, oltre gli
stereotipi
Antonio Carioti
Yasser Arafat non è credibile come leader democratico, perché la
sua elezione a presidente è avvenuta in assenza delle garanzie
necessarie per una competizione leale. Inoltre mantiene legami con
organizzazioni che praticano il terrorismo contro i civili. Più in
generale l’Autorità nazionale palestinese (Anp) rappresenta un
potere dispotico e corrotto, che viola i diritti umani dei suoi
cittadini e sottrae loro i fondi ricevuti dall’estero, specie dall’Unione
Europea, per destinarli all’acquisto di armi, se non addirittura
ad arricchimenti privati.
Queste affermazioni, in larga misura fondate, sono ripetute in modo
ossessivo dai commentatori filoisraeliani, in Italia come altrove,
per giustificare la netta chiusura del governo di Gerusalemme,
guidato da Ariel Sharon, verso l’Anp. Nel giugno scorso anche il
presidente americano George W. Bush ha adottato la medesima
impostazione, nel discorso in cui ha affermato che i palestinesi
devono darsi una nuova leadership autenticamente democratica (quindi
disfarsi di Arafat) per essere nuovamente accettati al tavolo di
possibili negoziati.
Presupposto basilare di tutto il ragionamento è che un gruppo
dirigente palestinese sinceramente democratico sarebbe più
malleabile e disposto a fare concessioni nei riguardi di Israele. Ma
le cose non stanno affatto così.
A parte che la politica di Sharon ha finora rafforzato l’ala più
fanatica del fondamentalismo islamico, con la quale nessun
compromesso è possibile, esistono anche esponenti palestinesi
fautori della nonviolenza e della democrazia, molto critici verso
Arafat e l’Anp, ma le loro posizioni nei riguardi dello Stato
ebraico sono in realtà ferme e intransigenti. Per rendersene conto,
basta leggere due libri usciti recentemente in Italia, nei quali si
esprimono appunto voci orientate in questo senso.
“Fine del processo di pace”, edito da Feltrinelli, raccoglie una
serie d’interventi del più prestigioso intellettuale palestinese,
Edward Said, docente di letteratura alla Columbia University. L’autore
condanna gli attentati suicidi e propone contro l’occupazione
israeliana una strategia di resistenza civile, ma al tempo stesso
giudica molto severamente gli accordi di Oslo: non accusa Arafat di
aver rifiutato offerte generose della controparte, ma viceversa di
aver concesso fin troppo alle pretese della potenza occupante.
Secondo Said, il processo di pace non poteva che sfociare in un
fallimento, perché le intese iniziali erano già gravemente
sbilanciate a favore dello Stato ebraico.
La stessa tesi, argomentata sotto svariate angolazioni, si ritrova
anche nel volume collettaneo “La nuova Intifada”, curato da
Roane Carey e pubblicato in Italia da Marco Tropea, con prefazione
di Noam Chomsky. Per esempio Mouin Rabbani, direttore di un centro
studi a Ramallah, scrive che la campagna terroristica a suon di
attentati suicidi è stata una iattura. Ma non ripone alcuna fiducia
nel processo avviato a Oslo, che a suo avviso “non è uno
strumento di decolonizzazione né un meccanismo per applicare i
criteri di legittimità internazionale al conflitto
israelo-palestinese, quanto una struttura concettuale che muta la
base del controllo israeliano sui territori occupati allo scopo di
perpetuarlo”.
Ancora più significativa la ricostruzione dell’avvocato Allegra
Pacheco, israeliana nata negli Usa e impegnata nella difesa dei
diritti umani, circa il modo in cui si arrivò al negoziato diretto
fra il governo di Gerusalemme e l’Olp, fino ad allora demonizzata
come una banda di sanguinari terroristi.
Durante la Conferenza di pace di Madrid, ricorda l’autrice, le
trattative si arenarono, perché la delegazione palestinese,
proveniente dai territori occupati, esigeva che in Cisgiordania e a
Gaza fosse applicata la Convenzione di Ginevra sui diritti umani
delle popolazioni sottoposte a occupazione militare. E a quel punto
americani e israeliani si rivolsero all’organizzazione di Arafat,
che accettò di transigere sul punto in questione, pur di essere
legittimata come rappresentante del suo popolo. Il risultato è che
lo Stato ebraico, in base agli accordi di Oslo, ha avuto
sostanzialmente mano libera nella West Bank per estendere gli
insediamenti e la rete stradale che li collega, tagliando fuori i
centri abitati arabi e rendendo difficilmente reversibile la
presenza dei coloni.
Insomma, il fatto che i fedelissimi di Arafat, giunti in Palestina
dall’esilio di Tunisi, si siano imposti in modo autoritario e
clientelare non ha dato alcun fastidio a Israele. In realtà era
proprio di un regime del genere che la potenza occupante aveva
bisogno per tenere a bada gli abitanti della Cisgiordania e di Gaza,
che con la prima Intifada, condotta prevalentemente con metodi di
lotta nonviolenti, avevano messo in gravi difficoltà il governo di
Gerusalemme, soprattutto di fronte all’opinione pubblica
internazionale. Un’Anp che fosse stata espressione più genuina
della popolazione palestinese si sarebbe forse preoccupata meno di
armarsi, ma avrebbe protestato con molta maggiore determinazione
contro gli abusi compiuti dall’esercito e dai coloni israeliani.
I vari contributi inclusi nel libro “La nuova Intifada” sono
utili per smontare questo e altri stereotipi della propaganda
filoisraeliana, che certa stampa occidentale accetta a volte con
troppa facilità. Per esempio i discorsi sulla generosità delle
proposte di Ehud Barak a Camp David, rifiutate da Arafat nell’estate
del 2000, escono piuttosto ridimensionati da un esame delle cartine
riportate alle pagine da 49 a 52. In sostanza all’Anp sarebbero
state concesse delle sacche di territorio piuttosto ristrette e
sovrappopolate, senza reali possibilità di sviluppo autonomo.
Qualcosa di molto simile ai bantustan in cui il governo sudafricano
dell’apartheid tentò a suo tempo di relegare la popolazione di
colore.
Assai interessante è anche la postfazione di Ugo Tramballi,
giornalista del “Sole 24 Ore”, che ricostruisce le vicende dell’Intifada
e il dipanarsi del programma di Sharon, consistente nel
delegittimare Arafat, accomunandolo sbrigativamente a Osama bin
Laden, e nel ridurre la questione palestinese a un problema di lotta
al terrorismo da condurre con sistemi spietati. Coloro che hanno
occhi solo per vedere i crimini, senza dubbio mostruosi, dei
kamikaze arabi, dovrebbero volgere lo sguardo anche alla politica di
“eliminazioni mirate” condotta da Israele, che non ha soppresso
solo capi terroristi, ma anche esponenti politici non riconducibili
a una simile tipologia.
Non è un caso la solidarietà incondizionata a Vladimir Putin
espressa da Sharon, dopo la tragedia del teatro Dubrovka, nella sua
intervista al “Corriere della Sera” del 30 ottobre. E se è più
che lecito dubitare della buona fede di Arafat, altrettanto lo è
diffidare dell’asserita disponibilità del premier israeliano ad
accettare uno Stato palestinese. In realtà quando Sharon, sempre
nell’intervista al “Corriere”, dichiara che “la Terra
promessa è degli ebrei, e di nessun altro”, esprime una visione
politica molto chiara: la superficie che si stende dal Giordano al
mare appartiene a Israele per diritto biblico e gli arabi che vi
abitano sono intrusi, che possono essere tollerati solo se, malgrado
il loro peso numerico, si rassegnano a uno stato di subordinazione e
segregazione. Su queste basi nessuna pace autentica è possibile.
Ciò non vuol dire che tutto quanto è contenuto nei saggi che
compongono “La nuova Intifada” sia da sottoscrivere. Senza
dubbio la rivendicazione del pieno diritto al ritorno per i profughi
palestinesi, anche dentro i confini di Israele, non è
ragionevolmente sostenibile, checché ne scriva Salman Abu Sitta. E
l’ipotesi, rilanciata da Omar Barghouti, di costruire in Palestina
uno Stato binazionale, in cui arabi ed ebrei convivano
pacificamente, rientra nella categoria delle pure astrazioni.
La lettura di questi saggi tuttavia ci aiuta a capire come non siamo
di fronte all’autodifesa di uno Stato democratico contro feroci
terroristi, ma a un conflitto tra due popoli che rivendicano la
stessa terra, una situazione nella quale ragioni e torti s’intrecciano
in maniera quasi inestricabile. Non se ne esce tagliando i nodi con
la spada. Bisogna che entrambe le parti, non solo la più debole,
siano disposte a fare concessioni concrete. Una prospettiva che,
purtroppo, neppure s’intravvede all’orizzonte.
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