Il top management è il maggiore
problema
Marco Vitale
L’unico passaggio della moderna dottrina sociale della Chiesa che
tocca in modo specifico le problematiche aziendali e il rapporto tra
lavoro e management è il paragrafo della Quadragesimo Anno (Pio XI,
1931) che dice: “Nello stabilire la quantità della mercede si
deve tenere conto anche dello stato dell’azienda e dell’imprenditore
di essa; perché è ingiusto chiedere esagerati salari quando l’azienda
non li può sopportare senza la rovina propria e la conseguente
calamità degli operai. E’ però vero che se il minor guadagno che
essa fa è dovuto a indolenza, a inettitudine e a noncuranza del
progresso tecnico ed economico questa non sarebbe da stimarsi giusta
causa per diminuire la mercede degli operai”.
Qui c’è per la prima volta il concetto che l’impresa in quanto
tale ha dei suoi equilibri che vanno rispettati da tutti, dai
dipendenti ma anche dall’imprenditore. Ma c’è anche l’attenzione
al tema della responsabilità imprenditoriale e manageriale.
E’ un vero peccato che la dottrina sociale della Chiesa non abbia
ulteriormente elaborato questi concetti. Erano un ottimo punto di
partenza per formulare una teoria della responsabilità manageriale.
E ciò è rilevante in questa discussione perché questa grave crisi
della Fiat auto ha tre cause: management, management, management. Mi
riferisco al top management sia strategico che operativo. Non dico
questo per polemizzare. Non sono questi momenti per polemizzare. Ma
per capire. Se non si capisce non ci si può avviare verso soluzioni
corrette.
Che il top management sia il maggiore problema della Fiat da almeno
dieci anni è evidenziato dalla semplice lettura dei giornali del 12
ottobre. Da un lato i grandi spazi giustamente dedicati alla crisi
della Fiat. Dall’altro alcune notizie: Porsche, profitti alle
stelle (+ 71%) al livello di 462 milioni di euro nell’esercizio
chiuso a luglio 2002, con un incremento del fatturato del 10%; la
BMW nei primi nove mesi del 2002 ha incrementato le vendite del 20%
con un rendimento sul patrimonio del 17%; la Peugeot continua a
conquistare quote di mercato, il ROE è del 14%, l’utile per
azione è in crescita dell’8%, la posizione finanziaria netta è
positiva; in Renault gli utili sono in forte progressione con un
incremento dei profitti atteso per l’anno in corso del 40%; per la
Ferrari il 2002 sarà un anno record con un incremento del fatturato
del 10% che fa seguito ad un incremento del fatturato del 18% del
2001 sul 2000; la Volkswagen segna qualche flessione di vendite,
produzione ed utile e preannuncia programmate sospensioni
produttive, ma si mantiene in fase di risultati positivi e di solido
presidio sia dei mercati che della situazione economico-finanziaria.
E sempre i giornali del 12 portano alcune altre cifre che aiutano a
capire cosa stia succedendo: tra il 1995 ed il 2001 la Volkswagen ha
speso 20.9 miliardi di euro per la ricerca di nuovi modelli, la
Renault 10.4, la Mercedes 13,1, la BMW 9,9. La FIAT auto 4,5. Come
tutte le grandi crisi industriali la crisi Fiat non è improvvisa.
Viene da molto lontano. Ed era per chi sa leggere le cose
industriali prevedibile, da tempo, anzi certa. Ma lo era anche per
chi pur non sapendo leggere le cose industriali, sa guardare i
marchi delle automobili che circolano sulle strade.
La crisi è in atto da quando sono stati accantonati gli uomini che
conoscevano di auto; da quando si è puntato al monopolio italiano
impedendo la vendita Alfa alla Ford quasi conclusa dal presidente
dell’IRI Romano Prodi; da quando si è compiuta la banalizzazione
della Lancia e dell’Alfa Romeo ( per la quale si è poi
tardivamente corsi ai ripari, con, invero, qualche buon risultato;
da quando sono state cedute alla Bosch le innovazioni del motore
diesel nate nel Centro Ricerche Fiat e non si è cavalcato lo
sviluppo del motore diesel, il segmento più brillante del mercato
da molti anni; da quando si sono lasciati aprire buchi incredibili
nella gamma prodotti (diesel, fuoristrada, monovolumi piccoli, auto
di lusso, compatte Lancia, categorie superiori, coupé); da quando
si è smesso di investire sul prodotto in misura comparabile ai
concorrenti attenuando anche i legami con i formidabili designer
torinesi come Pininfarina, Bertone, Giugiaro che sono stati, in
fretta e furia, riesumati in questi giorni; da quando si sono
alimentate favole come quella dell’auto ecologica ad Arese; da
quando si è puntato sempre di più sul formidabile lobbismo degli
Agnelli piuttosto che sulle competenze, l’ingegno, la dignità del
lavoro dei quadri tecnici della Fiat e dell’indotto che fanno, in
ogni caso, di Torino e dintorni uno dei più grandi concentrati del
mondo di storia, competenza, capacità di fare del settore
automobilistico. Francamente se fossi il presidente della GM sarei
molto felice di mettere radici profonde in questo territorio che ha
scritto alcune delle più belle pagine della storia mondiale dell’automobile
e che ha espresso ed esprime talenti straordinari e capacità
operaie e tecniche di alta qualità.
Questo, e l’orgoglio di questo è l’unica vera risorsa che
resta. E non è poco.
Ma, come sembra abbia detto un ministro, :“Padroni diversi,
manager diversi, modelli diversi”. Nella crisi degli anni ’70 la
responsabilità del sindacato e del lavoro era almeno pari se non
maggiore di quella del management e della proprietà. Oggi la
responsabilità del management e della proprietà è dominante,
schiacciante. Da qui la necessità di cambiare proprietà e
management. Tirare fuori soldi, metterci dentro capitale delle
banche o del Governo o di altri, serve ad attenuare le tensioni
sociali ed a diluire e rinviare i problemi. Ma non a risolvere i
problemi del Gruppo industriale Fiat Auto. La Fiat Auto deve trovare
un nuovo assetto proprietario ed imprenditoriale una nuova strategia
ed una rinnovata operatività.
Per questo deve entrare in un circuito più ampio e più solido e
giocarsi, in questo nuovo circuito, le proprie carte, con i suoi
ingegneri, i suoi tecnici, i suoi operai. Quando la Zanussi entrò
nell’orbita Elettrolux, dando a questo gruppo la consistenza
tecnica che non aveva, soffrii moltissimo. Vissi l’episodio come
una sconfitta per il settore dell’elettrodomestico bianco di massa
che era un settore inventato dagli italiani. Ed era, in effetti, una
sconfitta. Ma poi il mondo del lavoro della Zanussi, pur attraverso
vicende non facili, ha saputo conservare, nell’ambito del gruppo,
un ruolo primario ed importante, guadagnandosi, sul campo, con la
qualità del suo lavoro, la propria sopravvivenza come industria.
Tanti anni dopo mi trovai a chiedermi: ma forse le cose sarebbero
andate meglio se le azioni Zanussi fossero rimaste in mano a qualche
vedova od a qualche svagato e viziato erede?
Le soluzioni prospettabili devono essere innanzi tutto fattibili e
poi utili. In materia d’impresa le scelte corrette sono sempre
molto poche e determinate dal passato, dai fatti, dalle cifre, in
maniera quasi obbligata. La tattica è sempre variabile ma la “basic
strategy” è quasi sempre una sola e scritta nelle cose. Ad
esempio la proposta di Bertinotti: nazionalizziamo la Fiat Auto è
coerente con la sua visione del mondo. E personalmente, pur
condividendo una diversa visione del mondo, non avrei nessuna
inibizione intellettuale a condividerla, se fosse possibile e se
fosse realmente utile.
Ma non è possibile, perché per realizzarla dovremmo scontrarci con
la UE e non credo che questa sia una cosa raccomandabile. E non è
utile, perché l’impresa Fiat auto nazionalizzata sarebbe ancora
più isolata, debole, rinsecchita, avviata ad inesorabile declino
nel grande mercato della globalizzazione e della concentrazione.
Allora?
L’unica prospettiva positiva oggi è che la GM, che è la più
grande industria automobilistica del mondo, che ha già il 20% di
Fiat Auto, che ha già con la stessa vari progetti di collaborazione
industriale, che ha già un’opzione per passare in maggioranza, e
con la quale era già stato concordato che, con grande probabilità,
la GM sarebbe passata in maggioranza a partire dal 2004, assuma, il
più rapidamente possibile, quella guida imprenditoriale che l’attuale
famiglia che controlla la Fiat non è più in grado di esprimere e
che le banche, ed il Governo men che meno, saprebbero esprimere.
La voglio dire tutta fino in fondo: penso che il futuro della Fiat
Auto, che il futuro dei suoi operai, tecnici, ingegneri, del suo
eccellente Centro di Ricerca (uno dei migliori del mondo) sia più
sicuro se affidato alle mani della GM che a quelle di qualche
signore e signora torinese o di qualche pensionato dello “Star
System”. Perché le vedove torinesi dovrebbero fare meglio della
GM? Naturalmente questo cambio di guardia richiede complessi
negoziati, tra le parti e tra le parti ed il Governo. Tra le parti
è questione di prezzo. Come avviene sempre in questi casi il nuovo
azionista entrante che si assume un livello di perdite elevate da
risarcire e di altri debiti da ripagare vuole mettere tutti i
capitali disponibili nell’azienda e non darli all’azionista
uscente e responsabile del disastro. E’ una posizione logica,
legittima e normale.
Per contro l’attuale azionista cerca una soluzione ponte, magari
basata su soldi pubblici, per risanare almeno in parte l’azienda e
venderla a più caro prezzo nel 2004. Anche questa è una posizione
comprensibile e legittima. Ma, al di là di ogni retorica, questa
posizione comprensibilissima e corretta da parte dell’azionista
non è nell’interesse pubblico. Il Governo deve solo usare tutti
gli strumenti di pressione di cui dispone, perché l’azionista
uscente sia molto molto ragionevole. E’ interesse della
collettività che i capitali disponibili entrino tutti o quasi tutti
in azienda e non vadano all’azionista uscente. Vi è poi l’impatto
sociale del piano di ristrutturazione. Si tratta di attenuarli ma
sono, purtroppo, inevitabili. Qualunque soluzione finanziaria e
societaria si prefiguri le debolezze strutturali, strategiche e di
mercato della Fiat sono così pesanti e non rimediabili velocemente,
che una restrizione della base produttiva appare indispensabile.
Certamente sulla misura e sulla modalità vi è molto da studiare e
da discutere. Ma in campo industriale la forza dei fatti non ammette
licenze poetiche. Ed i fatti sono durissimi. Nel 2002 la Fiat
(comprese Alfa e Lancia) stima una caduta del fatturato del 20% a
fronte di una diminuzione del mercato europeo del 4%. Si avvia così
ad una nuova perdita di 2 miliardi di euro. Da parte sua GM Europa
è in perdita da tre anni nel corso dei quali ha registrato perdite
di due miliardi di dollari ed ha, da parte sua, avviato la riduzione
di 15.000 posti di lavoro ed ha ridotto di un terzo la produzione
presso la Adam Open tedesca. Io non credo che la Fiat sia un rottame
(“wreck”) come impietosamente ha scritto Business Week. Ma con
queste cifre le licenze poetiche non dovrebbero essere concesse a
nessuno. Se non si opera drasticamente, fortemente, rapidamente i
posti di lavoro in gioco non saranno ottomila ma dieci volte tanto.
La partita più grossa, quella che ha un profilo veramente
eccezionale è quella di Termini Imerese. La chiusura di una
fabbrica di queste dimensioni è, per una regione a scarsissima
industrializzazione come la Sicilia, una tragedia sociale di
proporzioni gravissime, ben più gravi della pur grave sofferenza
dei lavoratori interessati. Ma per un grande gruppo come la GM
trovare un riassetto che assicuri la sopravvivenza di Termini
Imerese non dovrebbe essere impossibile. E qui, ancora, il Governo
può avere un ruolo importante di “moral suasion”. Nel puro
ambito Fiat la soluzione per Termini Imerese è impensabile. Ma in
un riassetto globale di GM Europe + Fiat ci possono essere
prospettive.
Credo, invece, che il destino di Arese sia segnato, magari con una
certa gradualità. Qui l’effetto sul territorio, sono d’accordo
con Assolombarda, sarà relativamente contenuto. La vitalità del
Nord milanese è tale da riassorbire questa chiusura come ha
riassorbito altre, anche di maggiori dimensioni. Si tratta solo di
sostenere le persone e le famiglie colpite, affinché non siano loro
a pagare per errori degli altri. Ma Arese come fabbrica di
automobile è finita da molto tempo. E questo ci porterebbe ad una
storia lunga e dolorosa, la storia dell’Alfa, un mito della storia
tecnica straordinaria, che nel 1972 produceva 200.000 vetture quando
la BMW ne produceva 182.000 ed i giapponesi e gli spagnoli si
affacciavano appena alla soglia dello sviluppo automobilistico e che
dal 1972 in poi è stata oggetto di una successione di atti di
criminalità industriale difficili non solo da credere ma da
immaginare, equamente divisi tra alcuni politici, management,
azionisti, sindacati. Sino al protocollo del 1994 che fu un
protocollo di falsità, compresa la favola dell’auto ecologica,
del quale consapevoli corresponsabili furono anche i principali
sindacati. Per cercare qualche soluzione vera per Arese, bisogna
avere, innanzi tutto, il coraggio della verità.
Ma anche se la GM avrà tutto l’interesse di utilizzare al meglio
e di far fiorire, nell’ambito del suo gruppo, i talenti di Torino,
sia interni alla Fiat che dell’indotto; se si troverà (come
certamente si deve trovare) la via per assicurare la sopravvivenza
di Termini Imerese; se si troveranno (come si troveranno e come è
oltremodo doveroso trovare) gli strumenti e le vie per attenuare i
disagi economici, personali e familiari dei lavoratori colpiti dalla
crisi, rimarrà pur sempre una grande, amara verità. Il Paese che
tante pagine gloriose ha scritto nella storia dell’automobilismo
mondiale, sia nella motorizzazione che nel design che nelle
competizioni sportive, resterà totalmente privo di un qualunque
centro di rilievo strategico localizzato in Italia nel settore
automobilistico.
E questo è un male, un impoverimento oggettivo per il Paese e per
il suo know how tecnico generale. Da questa considerazione può
nascere una prospettiva difficile ma che va approfondita. Mi dicono
che è già stato suggerita anche da altri. La cosa mi fa piacere
perché conferma la validità della proposta. Quando più
osservatori giungono alla stessa conclusione, autonomamente e
partendo da punti diversi, vuole dire che la prospettiva merita
attenzione.
La possibilità da studiare è che si formi una cordata di nuovi
azionisti della Ferrari, che è già stata ceduta per il 34%, ad
enti finanziari. Questi azionisti saranno prevalentemente istituti
finanziari (che convertiranno per questa via in azioni Ferrari parte
dei propri crediti verso Fiat Auto) e grandi investitori
istituzionali. La Ferrari, adeguatamente ricapitalizzata, rileverà
Alfa, Lancia, Maserati formando un gruppo automobilistico autonomo
di alta gamma che, se guidato da un management competente, potrebbe
avere un suo più che dignitoso cammino, conservando il radicamento
nel Paese di un centro strategico e di ricerca e progettazione nel
campo automobilistico.
Naturalmente è un piano complesso e difficile e una più
approfondita conoscenza dei fatti lo potrebbe far apparire
improcedibile. Ma vale la pena di studiarlo seriamente. La prima
difficoltà è che la GM non sarà tanto contenta di un progetto di
questo tipo. Ma la GM potrebbe assumere una quota significativa
anche se di minoranza in questo nuovo gruppo di imprese (anche a
fronte del suo apporto agli altri mondi) ed essere così parte del
disegno. E la sua presenza potrebbe essere rafforzata da accordi
commerciali appropriati per la distribuzione di alcuni marchi fuori
Europa. Un’altra difficoltà sarà sicuramente rappresentata dal
fatto che per molta componentistica sarà già probabilmente in atto
una forte integrazione. Ma anche questi sono problemi sempre
risolvibili con un lavoro di seria collaborazione .
Io parto dalla considerazione che la GM abbia un grande interesse, a
certe condizioni, a rilevare Fiat Auto sia per l’alto valore delle
conoscenze che esistono a Torino nel settore, che per l’interesse
ad una ristrutturazione comune dell’assetto produttivo in Europa
che potrebbe essere fonte di rilevantissime sinergie. Ed è nell’ambito
di questo interesse che vedo gli spazi per un equo negoziato. Ma ha
perfettamente ragione il Ministro Stanca: bisogna anche fare in
fretta. Le crisi prolungate e sfilacciate creano immense e
irreparabili perdite di valore.
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