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Bush sulle orme di Napoleone?
Antonio Carioti
Poche figure storiche sono controverse come Napoleone Bonaparte. È
bastato uno sceneggiato tv piuttosto scialbo, nonostante la bravura
dell’attore protagonista Christian Clavier e la presenza di mostri
sacri come John Malkovich e Gerard Depardieu (su Isabella Rossellini
meglio stendere un pietoso velo), a scatenare le ire di Umberto
Bossi e altri dirigenti leghisti, impegnati a “inventare una
tradizione” per la Padania rovistando qua e là nei secoli
passati.
In questo caso la riscoperta ha riguardato le vaste sommosse
popolari, le cosiddette “insorgenze”, suscitate dai saccheggi e
dai soprusi compiuti dall’esercito francese nella sua campagna d’Italia.
L’argomento è uno dei cavalli di battaglia del cattolicesimo
tradizionalista, che ha stabilito con la Lega rapporti di
contiguità.
Tuttavia, a parte i limiti di un approccio fortemente ideologico a
un fenomeno assai variegato, bisogna notare che le insorgenze di
maggior rilievo non ebbero luogo in Val Padana, ma nel Centro-Sud,
specie in Toscana, nello Stato pontificio e nel regno di Napoli. In
particolare nel Mezzogiorno la guerriglia proseguì anche durante
gli anni dell’impero napoleonico, mentre il Nord Italia, ormai
pacificato sotto il viceré Eugenio di Beauharnais, forniva, sia
pure malvolentieri, migliaia di soldati alle armate del Bonaparte.
La polemica bossiana non merita in sé grande attenzione, ma può
essere utile per rievocare una vicenda, l’irruzione dell’esercito
rivoluzionario francese in Italia nel 1796, che ebbe allora effetti
incalcolabili e che può forse fornire insegnamenti interessanti
anche per gli odierni problemi di assetto delle relazioni
internazionali.
Giova a tal proposito riprendere in mano il saggio “Avventura.
Bonaparte in Italia 1796-1797” (Corbaccio) dedicato a quegli
eventi nel 1936 da Guglielmo Ferrero, uno studioso antifascista che
ebbe gran fama internazionale ai primi del Novecento, per essere poi
quasi condannato all’oblio e riscoperto solo di recente,
soprattutto per merito di Luciano Pellicani, Domenico Settembrini e
Sergio Romano.
Impressionato dalla crisi che dilaniava l’Europa negli anni
Trenta, destinata a sfociare nel secondo conflitto mondiale, Ferrero
ne rintraccia le lontane origini nel grande vuoto di legittimità
apertosi con la caduta dell’Ancien Régime. Travolta la monarchia
di diritto divino, la Rivoluzione francese aveva voluto sostituirla
affermando la sovranità popolare, ma l’operazione si era rivelata
ardua e irta d’insidie, sia per la difficoltà oggettiva di
tradurre quel principio in istituzioni stabili, sia per il caos in
cui era precipitata una società orbata delle certezze su cui si era
basata per secoli la convivenza civile.
Avvertendo una sorta di panico per la precarietà del loro potere,
testimoniata dai continui sommovimenti politici, i reggitori della
Francia repubblicana si erano così abbandonati allo spirito d’avventura,
intraprendendo una “guerra senza regole” che, se da una parte
seguiva le storiche direttrici d’espansione del loro paese, dall’altra
era condotta senza alcun riguardo per gli usi codificati dell’arte
bellica e con un sottofondo ideologico che tendeva a farne una
crociata per l’esportazione delle dottrine rivoluzionarie.
L’effetto, nota Ferrero, fu particolarmente traumatico in Italia,
paese ricco ma fragile, che viveva da lungo tempo in uno stato di
placido torpore, garantito dalla potenza asburgica e dall’occhiuta
vigilanza del cattolicesimo tridentino. La relativa facilità con
cui Bonaparte cacciò gli austriaci dalla penisola e l’atteggiamento
imbelle degli Stati italiani nei suoi riguardi determinarono una
crisi di legittimità ancora più grave. Quanto più naturale e
immutabile era sembrato l’ordine tradizionale delle cose, tanto
più sconvolgente fu vederlo crollare come un castello di carte
sotto l’urto di un esercito affamato e bramoso di rapina come
quello di Napoleone.
Quando poi, di fronte alla situazione incontrollabile che si era
creata nelle retrovie, i francesi decisero di ridisegnare l’ordinamento
dei territori conquistati, instaurandovi effimere repubbliche
ricalcate sul loro modello istituzionale, si giunse, scrive Ferrero,
al paradosso di “obbligare gli uomini a esser liberi usando la
forza”. Una contraddizione senza uscita, perché mentre si
promettevano agli italiani indipendenza e democrazia, nei fatti si
usavano le loro terre come merce di scambio (tipico esempio la
cessione agli Asburgo della Repubblica veneta) a vantaggio degli
interessi geopolitici di Parigi.
Ferrero trae conclusioni amare sull’eredità dell’avventura
napoleonica, poiché ne fa derivare la cronica instabilità dell’Italia
nei centoquarant’anni seguenti. “Tutti i regimi che l’han
governata - osserva - hanno più o meno peccato dello stesso abuso
di forza”, perché al grande vuoto di legittimità non è stato
trovato un risolutivo rimedio. E bisogna dire che anche la
situazione attuale, con l’endemica difficoltà degli schieramenti
politici contrapposti a riconoscersi reciprocamente la
legittimazione a governare, sembra confermare l’acutezza della
diagnosi.
Vi sono però, a mio parere, anche significative analogie tra la
situazione della Francia rivoluzionaria descritta da Ferrero e l’atteggiamento
assunto dagli Stati Uniti dopo l’attacco alle Twin Towers.
Oggi come allora il mondo attraversa una fase di grande disordine,
poiché nessun assetto stabile si è sostituito all’equilibrio
bipolare venuto meno con la scomparsa dell’Urss. L’America,
unica potenza globale rimasta in campo, ha cercato di colmare il
vuoto favorendo i processi di apertura dei mercati e usando dove
necessario la sua schiacciante capacità militare contro i
perturbatori tipo Saddam Hussein e Milosevic.
Purtroppo però, come insegna Ferrero, la forza non ha soltanto “una
fisica delle cause e degli effetti voluti, visibili e tangibili”,
ma anche “una metafisica”, cioè “le scosse, le reazioni, i
tumulti interni e ulteriori che non si vedono e che la forza provoca
senza volere e senza sapere”. Così il dispiegamento spettacolare
della potenza americana, sia sul piano militare che su quello (forse
ancora più importante) della penetrazione economica e culturale, ha
provocato traumi tremendi, specie in un mondo chiuso e legato alle
proprie tradizioni come l’Islam, con ripercussioni di portata
immensa. Basta pensare al significato che ha per i credenti
musulmani la presenza di truppe Usa sul sacro suolo saudita.
Visti in questa prospettiva, gli attentati criminali dell’11
settembre sono la manifestazione più terribile di un problema molto
complesso. L’egemonia americana, che si dichiara basata sul valore
universale della libertà (proprio come l’espansionismo della
Francia rivoluzionaria), non è riconosciuta come legittima da una
fetta molto vasta dell’umanità, che si richiama a principi
politico-religiosi opposti (come gli insorgenti italiani) e riversa
sugli Usa torrenti d’odio implacabile.
Oggi l’America di Bush, colpita a tradimento in modo efferato, ha
comprensibilmente paura. E si comporta in modo simile alla Francia
repubblicana, affidandosi a una “guerra senza regole”: un
conflitto in cui al nemico non viene riconosciuta la qualifica di
combattente, ma neppure di semplice criminale, e ci si riserva la
possibilità di colpire in modo preventivo e unilaterale, con una
discrezionalità pressoché illimitata, sulla base della percezione
soggettiva di una minaccia ancora allo stato potenziale.
In tal senso la “dottrina Bush”, esposta di recente in un
documento ufficiale sulla sicurezza, è decisamente innovativa: per
l’America davvero, dopo l’11 settembre, “nulla è più come
prima”.
Tuttavia l’analogia più significativa risiede nella
giustificazione ideologica addotta. Se l’intervento in Afghanistan
si configurava come risposta a un’aggressione, ora in primo piano
c’è la proclamata volontà di portare la democrazia nel mondo
arabo-islamico, di emancipare il popolo iracheno dalla tirannia di
Saddam. Siamo di nuovo alla pretesa di “obbligare gli uomini a
esser liberi attraverso la forza”, che molto male si concilia,
come già per Bonaparte, con le necessità del realismo diplomatico.
Imporre davvero la democrazia in Medio Oriente con le armi
presuppone la destabilizzazione violenta di tutti i regimi dell’area,
che non sembra una prospettiva molto ragionevole. E poi anche la
libertà ha i suoi paradossi: non dimentichiamo che il processo di
apertura avviato a suo tempo dal dispotico e corrotto regime
algerino condusse alla vittoria elettorale dei fondamentalisti
islamici, poi annullata dai militari, e a stragi spaventose non
ancora terminate.
Si dirà che in fondo l’operazione d’imporre ai popoli la
democrazia con la forza è già riuscita agli Stati Uniti in
Germania e Giappone. Ed è vero: si tratta di successi straordinari.
Ma, anche a prescindere dalle enormi differenze storiche con il
mondo islamico, furono conseguiti in una situazione geopolitica
stabile, caratterizzata dal bipolarismo Usa-Urss, in cui la presenza
militare americana era fortemente legittimata dal fatto di
costituire l’unica protezione possibile nei riguardi della
minaccia costituita da Stalin, che occupava un terzo del territorio
tedesco e le isole Kurili, tuttora rivendicate dal Giappone.
L’Iraq di oggi, in un Medio Oriente nel quale la ferita
israelo-palestinese sanguina copiosamente, è tutta un’altra
faccenda. Forse la rilettura di Ferrero poterebbe suggerire ai
governanti di Washington maggiore cautela.
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