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Globalizzazione, una sfida interiore
Ivo Lini
La parola “cambiamento” è oggi molto usata, tutti vogliono
cambiare, Bossi come Rutelli, i no-global come Bush, ma qual
è il livello del cambiamento che oggi è necessario per affrontare
le sfide sempre più allarmanti che ci si propongono? E’ questo l’interrogativo
centrale che si pone Marco Guzzi, poeta e saggista, conduttore tra l’altro
di trasmissioni radiofoniche molto popolari come il ‘3131’,
nelle due conferenze che terrà a Roma sabato 19 e venerdì 25
ottobre alle ore 17.30, presso lo stupendo complesso storico dei
Domenicani, in piazza della Minerva. Caffè Europa lo ha
intervistato. Due incontri a preludio, tra l’altro, dei gruppi
sperimentali di autotrasformazione che Guzzi tiene da anni per
sviluppare un percorso di autoconsapevolezza dell’individuo.
Per usare le parole del titolo della sua prima conferenza, che senso
ha parlare della globalizzazione come di una sfida interiore?
Tutti concordano ormai sul fatto che stiamo vivendo una fase di
trasformazione di portata addirittura antropologica, ma sembra poi
che ben pochi si soffermino a considerare con serietà ciò che
dicono. Se è davvero in atto un processo epocale in cui l’identità
stessa dell’uomo sta mutando, non è assurdo pretendere di
affrontare i cambiamenti in corso senza occuparsi del centro
dinamico del mutamento, e cioè dell’uomo stesso, della nostra
autocoscienza, del modo in cui ci percepiamo in quanto persone? E’
questo il livello reale del cambiamento in corso, ecco perché la
globalizzazione ci sfida a rivedere la forma della nostra mente, e
non solo i suoi contenuti, ci sfida cioè a pensare in un altro
modo, a rivedere i fondamenti psicologici su cui abitualmente ancora
continuiamo a progettare il nostro futuro.
La sua critica sembra per molti versi simile a quella di tipo
no-global, sostenuta per esempio da Jeremy Rifkin.
Il movimento dei popoli di Seattle ha posto in luce un problema
reale: l’insostenibilità dell’attuale modello di sviluppo. Ma
anche questi movimenti sottovalutano l’elemento psicologico del
cambiamento in atto, affrontando i problemi della globalizzazione
solo a livello economico-politico, con la stessa unilateralità
economicistica dei loro avversari “liberisti”. E’ facile dirsi
pacifisti, ad esempio, è facile continuare a pensare che noi siamo
i buoni, mentre gli altri sono i cattivi, è facile cioè proiettare
le nostre ombre sul nemico di turno. E’ facile ed è comodo
ritenere che il mondo sia ben diviso in bianchi e neri, ma le cose
sono molto più complese, la struttura negativa e insostenibile, che
vorremmo cambiare, non sta solo là fuori, ma anche dentro ciascuno
di noi.
Dentro ognuno di noi c’è un elemento violento, avido, rabbioso,
che deve essere disattivato ogni giorno. C’è chi continua a
credere che basti andare in piazza a gridare contro qualcuno per
costruire davvero un mondo diverso. Ma dov’è la diversità? Sono
almeno due secoli che ci ammazziamo in Europa in nome della
giustizia, della pace, e di un mondo migliore. Oggi forse, per
essere davvero diversi dal gran carnevale teletrasmesso, non
dovremmo gridare più degli altri, ma parlare sempre più piano; non
dovremmo rincorrere la visibilità, ma quasi sparire agli occhi
della telecamera universale. Il nuovo non nasce sempre nel segreto e
nel silenzio?
Ma allora lei vorrebbe sostenere la necessità di un cambiamento
solo interiore?
No, anzi, interiore e quindi capace di migliorare per davvero l’esterno,
invece di sostituire una peste con un’altra anche peggiore, come
diceva Camus e come il XX secolo ci ha mostrato fin troppo
drammaticamente. Se dentro di noi stiamo male non possiamo che
produrre del male anche di fuori, magari con le migliori intenzioni.
E’ sbalorditivo che queste cose così evidenti e semplici, già
per altro del tutto acquisite dalla cultura occidentale da decenni,
non riescano ancora minimamente ad entrare nel dibattito politico
contemporaneo. E’ incredibile che sul piano politico siamo rimasti
all’800, alla assoluta inconsapevolezza psicologica, all’ingenuità
brutale dell’odio contro il Satana fuori di noi: Bush, Bin Laden,
o magari Berlusconi o i comunisti o chi sa chi.
Eppure a me pare che la novità del nostro tempo consista proprio
nel mostrarci senza mezzi termini che per avviare un cambiamento
reale del nostro mondo, divenuto per tanti versi insostenibile,
dobbiamo coniugare il lavoro autotrasformativo con quello politico,
il mutamento interiore con quello delle nostre città, l’economia
con la spiritualità dell’ascolto e della liberazione. Dobbiamo
edificare in noi stessi una coscienza più “globale” capace di
unire senza uniformare, se vogliamo incominciare ad immaginare un
futuro meno catastrofico. Ma cambiare se stessi è molto più
impegnativo che partecipare a qualche grande manifestazione per
cambiare gli altri.
E’ questo il senso dei gruppi di autotrasformazione che tiene da
alcuni anni?
Certo. Nelle nostre città soffriamo di una insostenibilità
psicologica, non solo ambientale. Le persone sono smarrite, cariche
di risentimento e di angoscia, di sensi di impotenza e di
frustrazioni. Altro che mondo migliore. E chi lo costruirà questo
mondo di pace? io non sento risuonare parole illuminanti, parole
nuove, capaci di aprire orizzonti inediti, come quelli che il tempo
richiederebbe. Dobbiamo perciò impegnarci in un lavoro profondo
sulle nostre ferite e sulle nostre cecità conseguenti; dobbiamo
integrare, come direbbe Jung, la nostra ombra; dobbiamo iniziare ad
essere più felici, se vogliamo dare un po’ di luce al nostro
mondo.
Essere felici è oggi l’atto più rivoluzionario. Essere felici
sovverte la logica di questo mondo, che è basata sul rendere l’uomo
sempre più dipendente, pronto a tracannare tutto ciò che gli viene
offerto per colmare la sua fame, il vuoto della sua anima. Dobbiamo
perciò prendere la strada della scoperta di ciò che ci rende
davvero felici, una strada di semplificazione in definitiva, che
però non è affatto semplice. Perciò credo che questi itinerari di
trasformazione e di liberazione debbano essere condivisi, vissuti in
gruppo. Solo così potrà nascere un movimento culturale e anche
politico alimentato per davvero dall’energia di una nuova
umanità.
Ma come tentate poi concretamente di favorire l’emersione di
questo uomo capace di globalità, e cioè più libero e felice
interiormente?
Questo è il vero problema: quello formativo. A tutti i livelli,
dalle materne all’università, dai partiti alle parrocchie non
sappiamo più come educare le persone a crescere, in quanto non
possediamo più un modello di umanità da proporre, e ogni pedagogia
presuppone un’antropologia. Nei nostri gruppi noi tentiamo di
integrare una formazione culturale, incentrata appunto sull’interpretazione
di questo passaggio di umanità, e cioè sull’assorbimento delle
correnti più avanzate del XX secolo, con un lavoro psicologico
sulle resistenze interiori all’autoliberazione, e cioè al
passaggio stesso, che ci portiamo dietro fin dall’infanzia,
collocando poi questo itinerario entro una interrogazione rinnovata
sullo sfondo religioso della nostra cultura occidentale, e cioè sul
senso del cristianesimo.
Non è infatti il mistero di Cristo l’annuncio di una novità
assoluta che entra nella storia? Non è cioè questo mistero il
cuore stesso della modernità, come ricerca di un nuovo sempre più
avanti da ricercare? E non sarà quindi proprio questa carica
spirituale cristiana, divenuta per molti inconscia, che ancora ci
muove a cercare un rinnovamento dell’uomo e del mondo? Certamente
riconiugare modernità e cristianesimo richiederà molto lavoro e
questo lavoro dovrà anche essere interiore, in quanto solo
cambiando la nostra mentalità materialistica, oggettivistica, e
cioè direi ottocentesca, potremo forse entrare in sintonia con le
frequenze dell’umanità nuova che sta nascendo in noi.
Quali sono le modalità dei corsi?
Gli incontri avvengono di norma uno ogni tre settimane, il sabato
pomeriggio o la domenica mattina. Durano circa quattro ore. Si parte
con un’introduzione teorica in cui si esamina il Novecento nei
suoi aspetti politici, economici, artistici e sociali, in modo di
raggiungere una maggiore comprensione sulle ragioni collettive da
cui originano le crisi personali. A questa fase segue un momento
più sperimentale, di lavoro psicologico sulle proprie dinamiche
difensive, sulle paure che generano la nostra specifica macchina di
dannazione. L’ultima fase è puramente spirituale, in cui la
comprensione del proprio essere avviene tramite l’abbandono e l’ascolto
della parola poetica, della musica, dei testi sacri, del silenzio.
Per altre informazioni sui corsi il telefono è 06 8122973
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