Gustav Mahler, Sinfonia N7
Francesco Roat
Gustav Mahler, Sinfonia N7, Deutsche Grammophon, CD 471 623-2,
Berliner Philharmoniker, Claudio Abbado
Più che Lied der Nacht (Canto della notte), come viene anche
detta, la Settima Sinfonia di Mahler a mio avviso avrebbe dovuto
semmai essere chiamata Lied der Entzauberung
(disincanto). Quest’opera dell’ultimo grande esponente del
romanticismo musicale tedesco, infatti, segna una tappa cruciale
nella sua produzione sinfonica. Dopo i temi nostalgici, gli idilli,
la retorica e tutti i patetici tentativi di restaurazione delle
forme classiche sperimentati nella “tragica” Sesta - la quale
peraltro contiene germi d’assoluta modernità in acrobazie
armoniche che fanno presagire il modo di comporre atonale - emerge
con la Settima la consapevolezza di chi sa di non poter più
recuperare un passato irrimediabilmente perduto e al contempo la viduitas,
la vedovanza per tale venir meno.

“Grande sinfonia” l’aveva chiamata senza
intento ironico Ugo Duse, scorgendo in essa sia il fatale approdo
dell’irrisolta Sesta sia la sua più spietata negazione. Dopo la
Settima, vero spartiacque dei più maturi lavori orchestrali, per
Mahler non esiste più possibilità di ritorno a titanismi
costruttivistici né rifugio in consolatori esorcismi regressivi. Ci
sarà la mastodontica Ottava, col suo misticismo esasperato e la
faustiana tensione verso un oltre metafisico al limite dell’indicibile.
E poi la Trilogia della morte - per dirla con Redlich - costituita
dalla tragica Nona, dal lucidissimo e accorato canto funebre Das
Lied von der Erde (Il canto della terra) e infine dalla Decima
(dall’Adagio della Decima; gli altri movimenti rappresentano solo
una discutibile ricostruzione apocrifa) ossia dal congedo dal mondo
espresso in forma musicale.
Non s’illuda quindi l’ascoltatore che si accosti per la prima
volta alla Settima Sinfonia di Mahler di trovarsi di fronte a un
opera di facile ascolto; a una partitura di semplice lettura. Non si
lasci fuorviare dall’inizio vagamente bruckneriano del primo
movimento: una marcia funebre che ben presto conduce a nuovi
complessi temi, sviluppi e viluppi. Non si faccia ingannare dal solo
apparente sentimentalismo delle due Serenate. Non s’abbandoni al
romanticume del ritornello accennato dal violino dell’Andante
amoroso: preludio a ben più drammatiche e ardite misure. Non
abbocchi all’esca falso-ingenua del mandolino che trilla seducente
nella seconda Serenata.

Non c’è alcun canto della notte, alcun
idillio, alcuna ri-conciliazione con la natura. Si potrebbe dire
semmai che la Settima è un grande ininterrotto grido di dolore per
la perdita dell’innocenza, per l’impossibilità d’un ritorno
al passato. Tardo-romantica quante altre mai, la Settima segna la
fine del romanticismo sinfonico, se per esso si intenda l’illusione
di poter cantare/dire in modo oggettivo il mondo e l’uomo.
Nietzsche, insomma, non è trascorso invano ed il declino degli
assoluti, la morte di dio ossia delle certezze ha contagiato
fatalmente anche Mahler.
Paradossalmente dunque, concordo nel ritenere con Duse “grande”
la Settima che, pur parodiandola, prende le distanze da ogni grandeur.
Certo, i titani sono definitivamente scomparsi dall’orizzonte di
questa e delle ultime sinfonie mahleriane. Ma nella Settima
abbondano gli echi di marcette militari, gli accenni snervati di
fanfare e di valzer, le reminiscenze di motivi sdolcinati e, al
limite, triviali. Ancora, il melodismo più strappalacrime sconfina
con la ridondanza e l’estenuazione roboante al limite del
tollerabile.
Eppure, proprio in queste forzature, nell’esacerbazione di tali
eccessi si cela una dolce-amara ironia che ha il retrogusto icastico
del disincanto. Così il soggettivismo estremo, la sottolineatura di
idiosincrasie e slanci impossibili mostrano in filigrana i segni di
una crisi che va ben al di là dell’uomo Mahler, investendo e il
mondo asburgico dell’Austria felix e il paradigma
della sinfonia romantica che con questo grande autore trova il suo
massimo coronamento e compimento.
Claudio Abbado, alla guida dei sempre affiatatissimi Berliner
Philharmoniker, ci regala un’incisione di rara puntualità,
intensità e misura. Forse, grazie a questo CD davvero prezioso, gli
ascoltatori potranno avvicinarsi ad un’opera così poco amata
persino dagli appassionati di Mahler e assai raramente eseguita
nelle sale da concerto. Solo una cosa dispiace, spentosi il tripudio
di applausi con cui il concerto si chiude: che Abbado non diriga
più i Berliner. Rimangono memorabili dischi come questo, per
fortuna.
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