Paola Casella
Venezia fa sempre un certo effetto - persino quest'anno, in cui
la Mostra del Cinema si presenta, nei tempi e nei modi, come la più
raffazzonata e fortuitamente assemblata della storia recente.
L'incarico di direttore, dopo il cambiamento politico, è stato
affidato (per esclusione, si direbbe) solo quattro mesi fa a Moritz
De Hadeln, già direttore del Festival di Berlino, che si è
accollato l'impegno accettando un mandato di un solo anno: troppo
poco per apportare cambiamenti significativi, ma anche per perdere
la faccia se le cose dovessero andare a rotoli.
Anche i film in concorso, nelle due sezioni principali - Venezia
59, quella che viene premiata col Leone d'oro, e Controcorrente, che
sostituisce di fatto Cinema del presente - e in tutte quelle
secondarie, sono stati raggranellati un po' qui e un po' là,
utilizzando i contatti e la credibilità personali di De Hadeln (ed
è per questo che qualche titolo interessante in cartellone ancora
c'è), con corollario di un coté raccogliticcio di star in arrivo
al Lido - un maniplo di giorno in giorno più sparuto, viste le
defezioni dell'ultima ora, come se i divi (soprattutto quelli
d'oltreoceano) avvessero annusato da lontano l'aria transitoria di
questa edizione della Mostra.
Le più raffazzonate sono le giurie: quella di Venezia 59 è
capeggiata da Gong Li e, senza voler denigrare la catergoria degli
attori (e ancora di più quella delle attrici) è insolita la scelta
di una giovane interprete come Presidente responsabile
dell'assegnazione del premio più importante della Mostra. Tantopiù
che, come ha sottolineato De Hadeln - che per mettere le mani avanti
in vista di future figuracce ha anche dichiarato che il Leone d'oro
è inflazionato, soprattutto all'estero, ben da prima del suo arrivo
al Lido - Gong Li parla solo il cinese, il che farebbe ipotizzare
che non sia la persona più cosmopolita del pianeta.
Alla passerella di inaugurazione, l'atmosfera era perplessa.
C'erano in molti, da Sofia Loren, qui per presentare il film del
figlio Edoardo Ponti Between Strangers (il secondo di Dodò
regista, il centesimo di mammà Sofia) seduta vicino al suo stilista
Giorgio Armani; Valentino a braccetto con Gwyneth Paltrow; l'attrice
americana di origine messicana Salma Hayek, protagonista del
polpettone artistico-biografico Frida che ha inaugurato il
festival (e che inspiegabilmente concorre per la Palma d'oro)
insieme alla regista Julie Taymor e a Valeria Golino, che ha una
piccola parte nel film - come Antonio Banderas e Geoffrey Rush, che
però si sono ben guardati dal presenziare alla cerimonia di
apertura della Mostra.
Le prime proiezioni lasciano un po' l'amaro in bocca: Frida,
che a mio parere avrebbe dovuto dare più spazio all'immaginazione
visiva di Julie Taylor e dei fratelli Quay, responsabili di una
delle sequenze più inquietanti del film, creando un universo dentro
un quadro come ha fatto Baz Luhrmann in Moulin Rouge, è
invece una love story in salsa chili come solo Hollywood poteva
concepire. Lilja 4-ever, terzo film del regista svedese Lukas
Moodysson (quello di Fucking Amal), è talmente tragico da
lasciare gli spettatori con un senso di avvilimento devastante,
senza mai però uscire dalle cooridinate dell'approfondimento
giornalistico sullo sfruttamento delle prostitute dell'Est; Full
frontal, il dogma movie di Stephen Soderbergh, che ogni
tanto torna dai kolossal hollywoodiani come Erin Brokovich e Ocean's
Eleven al finto stile indipendente degli esordi, ha perso la
freschezza dell'esordiente e non l'ha sostituita con la maturità
del cineasta consumato.
L'unica sorpresa, finora - e proprio lungo le coordinate della
genuinità dell'intenzione e dell'urgenza del raccontare la sua
storia - è The Magdalene Sisters, secondo lungometraggio
diretto da Peter Mullan (attore feticcio di Ken Loach, e artefice,
insieme a Danny Boyle e Ewan McGregor, di quello che è stato
soprannominato il Rinascimento cinematografico scozzese) dopo Orphans,
già premiato a Venezia. Anche The Magdalene Sisters è una
storia dell'orrore, ma è raccontata con un piglio cinematografico
che ti prende alla gola e non ti molla fino all'ultima scena, e una
passionalità sanguigna nell'indignarsi per la situazione narrata
che fanno parte della personalità dell'attore-regista (qualcuno
direbbe: del suo sangue scozzese).
The Magdalene Sisters racconta l'odissea di un gruppo di
ragazze internate, è il caso di dirlo, in un rifugio per donne
"cadute dalla grazia di Dio" (laddove cadere dalla grazia
di Dio significava essere ragazze madri, essere state violentate o
persino essere troppo carine), uno dei tanti istituiti "di
correzione" gestiti dalla Chiesa cattolica in Irlanda nel
secolo scorso e aboliti - questo il vero scandalo - solo nel '96. The
Magdalene Sisters è un prison movie in piena regola, con
l'agghiacciante corollario che si tratta di storia vera, e che, come
dice lo stesso Mullan, ancora oggi la Chiesa (e non solo quella
cattolica), "ha una paura fottuta delle ragazze adolescenti e
della loro sessualità non codificata".