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Quando l'arte diventa spettacolo



Sergio Garufi




E' confortante sapere che il buon vecchio Piero Ottone perde il pelo ma non il vizio. Stanco di essersela presa per anni con la maleducazione dei possessori di telefonini, e di averci istruito dettagliatamente sull'imprescindibile galateo da osservare a bordo di un trialberi, nella sua rubrica sul Venerdì l'ex direttore del Corriere della sera passa ora a proporci, come modello insuperabile d’insegnamento dell'arte, l'esempio anglosassone (e ti pareva), in cui le giovani scolaresche in visita ad un museo vengono coinvolte e rese partecipi, in modo ludico e informale, del valore dell'arte, anziché subire dall'alto (come capiterebbe da noi) delle spiegazioni tanto dotte quanto noiose.

Innanzi tutto converrebbe fargli presente che così non si fa più da un pezzo anche in Italia (tranne forse in qualche sperduto paesino lucano). Manuali didattici come l'ultimo di Renate Eco (A scuola col museo, Bompiani), che illustrano in dettaglio gli strumenti per un approccio più attivo e giocoso al mondo dell'arte, ce ne sono diversi e pregevoli da tempo. In ogni caso, davvero non si comprende l'insistenza, da parte di molti giornalisti culturali, nel deplorare comportamenti tutto sommato innocui e marginali, invece di denunciare le profonde ed evidenti distorsioni che l'approccio all'arte, inteso come fenomeno di massa, oggi comporta nel nostro paese come all'estero.

Negli Stati Uniti, per esempio, è da un paio d'anni almeno che si discute sulla necessità di una riqualificazione del ruolo dei musei d'arte contemporanea; e cioè sul fatto che non possono più continuare ad essere dei semplici contenitori d’oggetti artistici, sedi privilegiate della conservazione e della memoria storica, ma neppure diventare luogo di mero spettacolo, palcoscenico per mostre di carattere popolare in cui l'arte viene svilita e ridotta ad icona consumistica.

La polemica prese avvio da alcune discutibili scelte espositive assunte da importanti musei americani. Ricordo la convivenza imbarazzata, nel Guggenheim di New York, tra gli abiti di Armani e l’avveniristico progetto architettonico di Frank O. Gehry; o l'esposizione sulle chitarre al Museum of Fine Arts di Boston (Dangerous curves: Arts of the Guitar); o quella su Star Wars, The Magic of Myth, tenutasi al Minneapolis Institute of Art (il cui direttore, la sera dell'apertura, si presentò vestito come Han Solo); o infine The Art of Motorcycle (sulla scia dell'entusiasmo per Pirsig, evidentemente), sempre al Guggenheim di New York.

Il critico d'arte Roberta Smith, sull'autorevole New York Times, commentava sconsolata che "too many museum directors have lost their way, abandoning art in favor of empty showmanship and crass merchandizing" (cioè: "troppi direttori di museo hanno smarrito la strada, abbandonando l'arte in favore di un vuoto esibizionismo e di volgari esigenze commerciali").

Ma, più ancora dell’opinabilità di quelle scelte espositive, stupiscono e lasciano perplessi le ragioni addotte al proposito dagli organizzatori. Come si fa, difatti, a sostenere che, tra i vantaggi di un'operazione come quella di ospitare le creazioni di Armani al Guggenheim, ci sia pure l'innegabile beneficio di aver adescato "lots of fashion-crazy women who wouldn't cross the street to see the museum because it's full of boring abstact art [...] and they are not going to come back unless it's for Donna Karan"? ("decine di fanatiche della moda che altrimenti non avrebbero attraversato la strada per vistare al museo, che 'è pieno di noiosa arte astratta' ... e che non ci torneranno a meno che non ci esponga - la stilista, ndr - Donna Karan").

Il rischio evidente, in questo eccesso di spettacolarizzazione, è che, alla fine di questa folle corsa per andare incontro al gusto di tutti, cioè anche di chi verso l'arte non nutre alcun interesse, si perda il senso stesso dell'opera artistica e si snaturi la funzione e il ruolo delle istituzioni deputate alla sua conservazione. Ma ad ogni obiezione si risponde sempre nello stesso modo, e cioè con la solita litania delle cifre declamate con tono trionfale, come se il successo di pubblico, di per sé, autorizzasse qualsiasi nefandezza.

Non che qui da noi le cose vadano molto meglio, intendiamoci. Il caso di Milano, in questo senso, è esemplare. Da quando Flavio Caroli, docente di storia dell'arte alla facoltà di architettura, è stato nominato responsabile della programmazione delle mostre più importanti allestite nel capoluogo lombardo, abbiamo assistito a rassegne scadenti, nazionalpopolari (nell'accezione negativa del termine), in cui la ricerca e l'analisi filologica hanno lasciato il posto ad esposizioni spettacolari, meramente antologiche, nelle quali viene mostrata un'enorme quantità di testi figurativi senza alcun vaglio serio e approfondito; corredata infine da cataloghi tanto voluminosi quanto miseramente compilativi, che brillano solo per la disinvoltura con cui vengono liquidate alcune questioni di grande rilievo.

Mi riferisco, in particolare modo, a "Il Cinquecento Lombardo", allestita l’anno scorso nelle sale di Palazzo Reale, che costituiva una grande occasione per porre nel giusto risalto uno dei maggiori capitoli del XVI secolo italiano ed europeo, per lungo tempo ingiustamente negletto a causa di pregiudizi critici e di luoghi comuni, e per la quale l'unico motivo di consolazione viene dal fatto che la Storia dell'Arte Italiana (quella seria) sia rimasta sostanzialmente estranea a un’iniziativa così provinciale e improvvisata.

Che ci facevano a Palazzo Reale, verrebbe da chiedersi, quel busto in terracotta e quella terza versione della Vergine delle Rocce impavidamente attribuiti a Leonardo? E perché spacciare per Caravaggio quattro tele che nessun critico serio riconosce per tali (trattandosi invece di dipinti coevi di imitatori)? Il sospetto, essendo tutte le opere provenienti da collezioni private, era che le finalità dell'esposizione fossero duplici e inconfessabili; ma lasciamo alla fervida fantasia del lettore immaginarsi quali.

Ma appunti dello stesso tenore vennero fatti anche alla mostra "L'Anima e il Volto", esordio espositivo del Caroli, ideata con il medesimo criterio sospetto sul quale si espressero a suo tempo negativamente critici del calibro di Renato Barilli (su L’Espresso); e per la verità si teme che le megarassegne in programma per l’anno prossimo (in particolare quella sul Settecento) saranno impostate sulla stessa vastità e indeterminatezza di contenuti.

Questo succede quando si inseguono a tutti i costi le mode e il profitto, a scapito della ricerca, e così facendo si mortificano le competenze e s'inganna la gente, utilizzando i soldi - dettaglio non trascurabile - della stessa collettività. Ma tanto il risultato è raggiunto: la gente è venuta, era soddisfatta, i soldi sono entrati, i media ne hanno parlato bene e noi s'è fatta cultura. Continuando così, magari la prossima volta l'ineffabile Caroli deciderà di imitare il simpatico Mr. Bean, e al posto di un Whistler ci piazzerà il suo poster.

Tuttavia, al di là di casi clamorosi come quello appena segnalato, sarebbe opportuno riflettere sui molti effetti negativi che questo modo di concepire e proporre rassegne artistiche implica. Per un verso, sposa in pieno l'odierna vulgata turistica dell'arte, secondo la quale questa viene intesa essenzialmente come svago, diversivo al presente, immersione in un passato rappresentato in modo aneddotico, confuso tra vaghi ricordi scolastici e pacchiane ricostruzioni da Cinecittà. E inoltre suggerisce, implicitamente, che per fruirla al pubblico non serva alcuna preparazione, e che l'unico modo per indagarla sia dunque affidato all'intuizione e alla sensibilità di ognuno.

Ma nel mito dell’intuizione, lo scopo non è la ricerca di una verità, quanto l'esperimento di un’emozione occasionale. Come diceva Adorno (in Teoria Estetica, Einaudi, pag.167): "Dietro il culto dell'intuibilità è in agguato la convenzione piccolo borghese del corpo che resta sul canapè mentre l'anima si slancia in alto: l'approccio all'arte dev'essere rilassamento che non costa fatica".

In quest’ottica, l'arte tende ad essere reinterpretata dal pubblico come un fenomeno consolatorio, rassicurante, un'eredità non problematica generosamente concessa dal passato ai contemporanei, senza richiedere a questi ultimi nessuno sforzo particolare salvo qualche atto formale di devozione. E proprio da quest’atteggiamento acritico, da questo atto di fede, discende il radicato pregiudizio di concepire l'appagamento e l'arricchimento interiori come qualcosa caduto dall'alto, che spetta indifferentemente a chiunque voglia posarvi lo sguardo e mettersi in ascolto dei propri sentimenti.

 


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