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Se Cofferati rientra dall'orbita a spendere il suo carisma



Giancarlo Bosetti




Sergio Cofferati dice cortesemente di no alla proposta, prima di Fassino poi dei diessini di Pisa, di accettare il collegio senatoriale, lasciato libero da Luigi Berlinguer nominato al Csm. In questa circostanza il segretario uscente, e prorogato al 30 settembre, della Cgil, ha ribadito la intenzione di installarsi dal 1 ottobre nella sua postazione di lavoro alla Pirelli. Da diverso tempo non ho alcun dubbio che così effettivamente farà e che non si tratta di una messinscena per diverse ragioni. Cerco di interpretare e di spiegare.

E’ certo che il “Cinese” non intende essere equiparato a quei sindacalisti come D’Antoni o come, prima di lui, molti socialisti, comunisti e diessini, che hanno lasciato ruoli di primo piano nel sindacato per passare a ruoli di secondo piano nella politica. Credo che il numero uno della Cgil, che ha ereditato l’ufficio che fu di Lama nell’estate del 1994, avendo dedicato la sua vita al lavoro sindacale abbia sviluppato più forte di altri suoi colleghi in passato il senso della funzione e l’orgoglio trade-unionista. Ma anche la convinzione razionale che la funzione sindacale e quella politica non sono intercambiabili come abiti, che si tolgono e mettono con il cambio delle stagioni. E infine la certezza che forti organizzazioni dei lavoratori sono indispensabili per tutelare diritti fondamentali anche nelle moderne società flessibili.

E’ sorta su questo punto la contrapposizione con Massimo D’Alema, quando questi era, prima, segretario dei Ds e, poi, primo ministro. Cofferati imputa a D’Alema - in modo più o meno esplicito a seconda della temperatura polemica del momento - di avere sostenuto, o di aver lasciato sostenere, che il sindacato avesse ormai nel mondo contemporaneo e in particolare in Italia una funzione conservatrice, che fosse insomma un ostacolo alla modernizzazione. Il punto, come vedete, non è di dettaglio e chiama in causa l’atteggiamento sulle politiche di “terza via”, o di “centro radicale”, alla Blair. Ed è un dato di fatto che in Inghilterra, il “lavoro sporco”, ovvero il ridimensionamento del sindacato era stato fatto dalla Thatcher. A monte. Il New Labour non ha avuto bisogno di sporcarsi lui le mani, e si è così trovato campo libero per politiche che chiedevano ai cittadini di provvedere di più a se stessi e di pretendere meno dallo Stato.

Qui da noi (come in Germania e Francia) le cose sono diverse e la posizione in cui Cofferati si è messo deliberatamente nel momento in cui si è schierato con la opposizione interna ai Ds si presenta come molto difficile, enigmatica. Arduo prevederne gli sviluppi, forse per lo stesso Cofferati. La sua associazione con l’ala sinistra dei Ds, il Correntone, la stessa attuale vicinanza con Bertinotti (a proposito, un altro ex-sindacalista) non possono far dimenticare che il segretario della Cgil non è mai stato un massimalista. Impensabile che la carriera di un leader sindacale, accorto, saggio, ponderato, un concertatore che, come segretario dei chimici, ha gestito e trattato un settore industriale che ha conosciuto le più dure ristrutturazioni (dove si facevano pneumatici Pirelli ora ci sono una Università e un auditorium musicale) finisca nei sogni di una “lotta dura senza paura”, così, tanto per consolarsi. Una sinistra del genere servirebbe soltanto a tenere al governo i suoi avversari a tempi indefiniti. Sarebbe una sinistra ideale per Berlusconi.

L’operazione in cui il segretario della Cgil si è gettato è assai più complicata e ambiziosa: ha lo scopo di dimostrare che politiche di modernizzazione siano possibili non solo senza il massacro del sindacato, ma con il suo apporto attivo. Come realizzare questa dimostrazione, è difficile dire. E’ probabile che l’unica via intravista da Cofferati sia questa: dal momento che il passaggio al mondo dei lavori volatili nell’età dell’informazione, delle reti, della globalizzazione ha un costo elevato in termini di perdita di garanzie, dal momento che esige strumenti diversi dal passato e comporta che si mettano sui piatti della bilancia la formazione, la scuola, l’addestramento permanente, una disponibilità a costruire carriere retributive meno sicure; e dal momento che tra il tempo dei sacrifici e quello dei benefici passa un intervallo difficile da computare; tenuto conto di tutto ciò, la contrattazione dello scenario prossimo venturo ha bisogno di interlocutori affidabili, di gente che non tiri a fregare. Se io lavoratore devo dare qualche cosa a te, governo e impresa, per ottenere qualcosa (più occupazione, un sistema scolastico migliore, servizi migliori etc.) ho bisogno di un garante, ho bisogno di qualcuno al governo di cui mi possa assolutamente fidare.

Questa risorsa, che consiste nell’ispirare fiducia alla gente, che si può disporre a darti qualche cosa senza avere niente subito, ma nella certezza che non la imbroglierai in futuro, è quella cosa che è stata definita carisma da Max Weber. Serve a superare le difficili transizioni, a superare i guadi. Si sa che l’élite politica italiana di carisma ce n’ha poco. La politica in generale non ispira fiducia, ispira poca simpatia. La si sopporta perché non se ne può fare a meno, ma se ne vuole poca, il minimo indispensabile. Berlusconi un po’ di carisma, tra i suoi elettori, lo ha racimolato, ma solo nell’orbita dei simpatizzanti. Fuori di lì è quel che di meno affidabile, altruista, generoso si trovi in natura. Piace, a chi piace, proprio perché è un furbacchione imbattibile nel farsi gli affari suoi.

La crisi della politica, l’addensarsi di sentimenti ostili ai professionisti della politica, un fenomeno che ha avuto in Italia punte record nei primi anni Novanta, ma che condividiamo con il resto del mondo “arato” dai mass-media e dalla crisi dei partiti di massa, ha creato una sete formidabile di carisma e di affidabilità. In queste condizioni di arsura, di deficit cronico di simpatia e fiducia, Cofferati si è trovato invece nella condizione di accumularne, di queste virtù rare, un po’ per talento naturale, istinto, semplicità, e soprattutto perché stava alla guida di un grande sindacato e non in politica.

I sindacati, svolgendo la loro funzione di erogatori di servizi, tutela, difesa di diritti, hanno accumulato consenso, un consenso più evidente ora che nei decenni passati, quando anche i grandi partiti riscuotevano molta simpatia (Dc, Pci, Psi), e condividevano l’incasso con i sindacati (Cisl, Cgil, Uil). Ed è un consenso che mette loro a disposizione anche risorse. Ecco perché Cofferati dice di no a un seggio parlamentare, con il quale, allo stato dei fatti si giocherebbe una parte di quel capitale che ha accumulato. E che forse non sa bene come spendere.

E posso immaginare che finchè non troverà il modo giusto di spenderlo, questo capitale, preferirà continuare ad accumularne, piuttosto che sperperarlo frettolosamente. Eccolo lì il problema. Chi lo scrive il finale di questa storia? Neanche Philip Dick, autore che gli è caro, forse avrebbe trovato il finale. Il rientro in azienda, dietro a una scrivania della Pirelli, in mezzo ad altri lavoratori dipendenti, il prossimo ottobre, apparterrà ancora alla fase ascendente, quella dell’accumulazione di capitale simbolico e carismatico. Poi però il momento di investirlo, il capitale, non si potrà prorogare di molto.

C’è anche un rischio: che questa fase di “lievitazione” diventi troppo lunga e sposti Cofferati vero i lidi della purezza dei valori e dell’identità, verso posizioni idealistiche ed estreme da cui poi potrebbe non riuscire più plausibilmente a rientrare nell’area dei negoziati e della concretezza politica. Che questo pericolo ci sia, già ora, è fuor di dubbio. E lo hanno segnalato commentatori non ostili come Michele Salvati e Mario Pirani. Sarebbe ora che il Cinese desse qualche segnale, mandasse qualche avviso, come per dire: rientro da quest’orbita. In tempo utile.

 


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