I lettori scrivono
Da: Alfredo Dell'Era <alfredo.dellera@tin.it>
A: <caffeeuropa@caffeeuropa.it>
Data: Sabato, 6 luglio 2002 14:58
Oggetto: Ricordo di Tommaso Dell'Era
A cinque anni dalla scomparsa di mio padre Tommaso Dell'Era, ho voluto
ricordarlo con uno scritto - poco più di un articolo, molto meno di
un saggio - apparso sul primo numero di "Irre.net" (rivista
dell'ex Irrsae, ora Irre Puglia), accompagnato da una presentazione di
Pasquale Guaragnella, italianista presso l'università di Bari.
Vorrei che la mia Notizia conoscesse maggior diffusione, ed è dunque
per questo che la segnalo a "Caffè Europa".
Cordialmente
Alfredo Dell'Era
Notizia su Tommaso Dell’Era
di Alfredo Dell’Era
Insegna la sociologia della letteratura che il periodo di maggior
rischio, per la sopravvivenza storica di un autore, è quello dei
decenni immediatamente successivi alla sua morte. Ma c’è chi non
corre rischi del genere, per la malinconica ragione che l’oblio non
può colpire chi è già comunque ignorato.
A qualcuno, però, inopinatamente la fortuna arride post mortem.
E’ accaduto a Tomasi di Lampedusa, Morselli, Satta: ben più povera
sarebbe, senza di loro, la letteratura italiana del secondo Novecento.
Un po’ più povera forse continua ad esserlo, senza Tommaso Dell’Era.
Qualche cenno biografico su questo scrittore. Nasce a Bari nel 1927,
trascorre l’infanzia e l’adolescenza a Modena, poi fa rientro alla
città di origine; erano gli anni della guerra, perde il padre.
Concluso il liceo cerca un impiego, lo trova al Genio civile; nel
frattempo studia all’università, si laurea in lettere con Mario
Sansone. Nessun evento di rilievo anche dopo: il matrimonio, i figli,
il lavoro; l’età che avanza, i nipoti, la pensione. Nel 1994 si
manifesta il male che lo porterà via, tre anni dopo. Funerali laici,
per viatico le note del K477 di Mozart (“il più bel canto che mai
la morte abbia ascoltato”, l’aveva definito in un suo libro).
I suoi libri, dunque. Quattro pubblicati in vita, tutti da Schena di
Fasano (www.schenaeditore.com): Un ficcanaso, 1969; I cari
baresi, 1971; e Mozart, 1991; I cavalieri di san Nicola,
1992.
Un ficcanaso esce nel 1969, l’autore ha quarantadue anni:
alquanto tardiva come prova di esordio, se tale realmente fosse. Di
fatto Dell’Era aveva incominciato a scrivere assai prima: versi
soprattutto, cui man mano s’erano andate affiancando esperienze
narrative; forse intorno ai trentacinque anni, tacque il poeta, ne
prese definitivamente il posto lo scrittore. Dell’Era fu critico
severo di sé stesso, salvò poco della produzione giovanile in prosa
e nulla di quella poetica (ma Attilio Momigliano aveva apprezzato i
suoi versi).
Prima opera della maturità, Un ficcanaso, dunque, piuttosto
che opera prima. E’ il racconto di un viaggio compiuto dall’autore,
due concitate settimane in giro per l’Italia, piene zeppe di luoghi,
incontri, emozioni, quasi per trafugare al tempo la maggior vita
possibile. Perché Dell’Era è conscio della sua finitezza ma vuole
affermarla sino in fondo, altro non chiede che di riempire di vita il
mucchio d’anni avuto in sorte:
Felice del guazzabuglio di sensi che mi fanno amare questa vitaccia;
questa vitaccia che, mettila come vuoi, è mia e non mollo: cicca fra
miriadi di falò, ma cicca che io solo aspiro.
L’opera, estranea com’era all’industria letteraria, passò quasi
inosservata. I pochi che la lessero furono concordi nell’apprezzarla,
Giancarlo Vigorelli la salutò come uno dei migliori libri del
momento, poi tutto finì lì.
Dell’Era aveva in preparazione un volume di racconti - ne fa anche
cenno in Un ficcanaso - ma dentro gli urgeva un nuovo lavoro:
doveva narrare della sua terra, scrisse I cari baresi.
Apparso nel 1971, il libro è un indulgente pamphlet, ove l’autore
“castigat ridendo mores” dei suoi concittadini (e, in controluce,
quelli della borghesia nazionale dell’epoca). Ma è anche un’opera
di forte sensibilità antropologica:
Il barese non è un meridionale verace. Ha del sud i riflessi svegli,
la bocca aperta alla risata e la tasca alla bisboccia, il culto dell’amicizia,
della famiglia, dei morti; ma non ha del sud il languore, l’ira
sanguigna, il genio doloroso. Ha del nord l’intraprendenza, l’arrivismo,
l’effettiva realtà delle cose; ma del nord non ha la frigidità dei
rapporti umani. E’ progressista e conservatore, a metà strada fra
il pragmatismo occidentale e la saggezza orientale.
Come Un ficcanaso, anche I cari baresi ebbe pochi
lettori; con la differenza che, dato l’argomento locale (sfuggiva il
respiro più ampio), suscitò sì un minimo di interesse, ma solo
nella città.
Tommaso Dell’Era aveva dato il meglio di sé in quei due libri, ma
per uscire dall’anonimato questo non bastava. Capì, toccò con mano
che il mercato editoriale è appunto un mercato, e lui non era fatto
per produrre merce. Furono anni di silenziosa amarezza, che spesso
traspare nelle opere di quel periodo.
Ma c’era il conforto della musica. Che non era solo un hobby, e
nemmeno una passione: era la sua stessa strada, lo sarebbe stata se la
vita non l’avesse lasciato orfano a sedici anni. Adesso dunque
avrebbe scritto di musica - un libro su Mozart. Furono anni di studio,
letture sterminate, tutto ciò che riguardasse il musicista e il suo
tempo. Anni di viaggi, ricognizioni nei luoghi mozartiani, dai più
noti ai più impensati. Nel 1991 esce e Mozart.
Una congiunzione all’inizio del titolo, minuscola per di più,
richiama due termini da congiungere. Ma quale il primo? Lo definisce l’autore,
nella quarta di copertina:
Ah, il Settecento. Una musica l’Europa. Ai punti cardinali: Londra
Napoli Parigi Pietroburgo, nell’infinità dei punti intermedi.
Cantavan tutti: i mercanti nelle contrattazioni, le servette nell’accapigliarsi;
i penitenti nella confessione, i preti nell’assoluzione; il boia sul
palco, il condannato sul ceppo. E cantava l’estinto nel mortorio.
Sonavan tutti: l’arpa o il colascione, il cembalo o il putipù. In
cantina e sui tetti, nei lupanari e sui sagrati. Nelle regge. Gli
stessi sovrani, fra una successione e una spartizione, staccavano
dalla panoplia il loro strumento, trillavano arie fra un’allocuzione
e un’orazione: da Sua Maestà Prussiana, Fritz flautista, a Sua
Maestà Asburgica, la mater matuta cantatrice…
e Mozart
Mozart e il Settecento, dunque, secolo della musica oltre che
secolo dei lumi. E tuttavia la spiegazione convince solo in parte:
resta, in quell’e Mozart, la suggestione sottile di qualcosa
in sospeso, l’ultima vibrazione di una nota cessata.
Tommaso Dell’Era scrive di musica da letterato e narra di un viaggio
lungo i percorsi mozartiani, da Napoli a Vienna, alla ricerca dell’uomo
e del musicista. Dalla visita dei luoghi scaturisce una biografia,
tanto singolare quanto non cronologicamente ordinata; emergono ipotesi
e osservazioni; nasce un saggio, una serie di piccoli saggi sulle
persone e sull’ambiente. Tutto questo all’interno di una cornice
che raccorda passato (la vita di Mozart) e presente (il viaggio dell’autore).
L’opera sembra così collocarsi in una sorta di zona franca tra
scrittura e musica, cronaca e storia, analisi e racconto: viene alla
mente il Mittelglied pensato da Goethe, il felice “luogo di
mezzo” sintesi di ogni processo artistico e culturale.
Anche e Mozart ebbe vita difficile. Qualche critico musicale lo
lesse, l’apprezzò; pochi altri lettori, poi basta.
Ma Tommaso Dell’Era era già alle prese con il suo quarto libro, I
cavalieri di san Nicola che scriverà e darà alle stampe in pochi
mesi. E’ un racconto lungo, la rievocazione storica e fantastica,
commossa e sorridente del cosiddetto “sacro furto”, il
trafugamento delle reliquie di san Nicola. Protagonisti dell’impresa
furono sessantadue marinai, ma l’autore preferisce chiamarli
cavalieri perché s’avventurarono in una giostra rischiosa che, se
vinta, li avrebbe premiati con le spoglie del santo. Accurata la
struttura psicologica dei personaggi, e l’opera tuttavia ne risulta
corale: le singole caratteristiche ricompongono nel loro insieme una
mentalità collettiva, i cavalieri del Dell’Era parlano, pensano e
si muovono in nome di un unico popolo. Ritratti fedeli di un’anima
tutta barese, attori e autori di quell’epopea un po’ truffaldina
che è stata, nella storia della città, la traslazione di san Nicola.
Gli ultimi anni furono di inesausta scrittura, e in questa egli
depositò forse le sue prove più alte; ma non è qui che si possa
considerare la produzione inedita. Piuttosto, rimane da chiedersi,
esiste una logica complessiva nei quattro libri pubblicati in vita?
Chi scrive è di questo avviso. Allineati l’uno accanto all’altro,
paiono infatti comporsi in un’architettura chiusa, simmetrica,
stilisticamente omogenea: un libro di viaggi seguito da uno scritto
sulla sua città; un lungo silenzio e poi ancora un libro di viaggi; a
ridosso, un’altra opera di argomento barese.
Si parte per tornare, recita un vecchio adagio, forse la chiave di
volta è lì.
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