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Afterhours-“Quello che non c’è”



Francesco Rossi




Tutto si può dire tranne che il nuovo disco degli Afterhours sia una abile operazione commerciale. Esce in pieno fiorir di primavera e trasuda dell’autunno più freddo, cupo e ombroso. Manuel Agnelli & soci sono cambiati. Manca, prima di tutto, la chitarra di Xavier, nonchè alcuni dei marchi di fabbrica che hanno fatto tesser lodi alla critica d’avanguardia e alla gioventù inacidita, quali l’ironia e quell’uso di slogan ambigui e parole blasfeme, certamente originali per il mondo della canzonetta pop italiana, e quasi sconvolgenti pensando al febbraio Sanremese appena passato.

Ora il discorso si fa serio, letteralmente. Dalla satira a tinte rosa, si passa alla denuncia nuda e cruda del proprio malessere e della propria inadeguatezza morale e sociale (Quello che non c’è, Sulle labbra, Bungee Jumping), del logorio delle relazioni interpersonali e affettive (Il mio ruolo, Varanasi baby) con la voce di Manuel pacata e bassa, raramente urlata, in testi più fluidi e articolati, e addirittura recitata in un vero racconto in musica (Ritorno a casa). Anche di quella leggerezza pop fatua e spruzzata di un po’ di tutto del precedente Non è per sempre e del caleidoscopio sonoro dell’album manifesto Hai paura del buio? non è rimasto molto.

Ci sono invece 9 istantanee in bianco e nero, più nero che bianco, fredde e istintive, spesso slegate dalla forma canzone tipica e segnate, fra lente introduzioni e code noise, dal rumore di fondo di violini, chitarre, tastiere distorte, ormai fin troppo abusate e a tratti esasperanti. Così, quello che avrebbe potuto essere il disco della consacrazione nazional popolare è forse il più difficile e ostico, per niente accomodante o stuzzicante, pervaso dall’inizio alla fine da un senso di straniamento e desolazione.

Ancora una volta si ripropone l’annosa questione se la musica debba assolvere all’intrattenimento o invece riflettere lo stato delle cose, un “sentir comune” mai come ora dominato dall’angoscia del futuro, mancanza di punti di riferimento, difficoltà nei rapporti, senso di impotenza verso le ingiustizie e ipocrisie quotidiane. “Quello che non c’è”, almeno in questo, non lascia dubbi, ne è immerso da cima a fondo, forse fin vittima, rischiando di soccombere sotto il gravoso onere di manifestar tutto ciò. Fatto sta che mi son fatto un’idea. Sara un’idea balzana, ma mi sento di dire che questo disco è forse, anche se non il più bello e trendy, il meno ruffiano, e, parola grossa, il più “vero” di quelli che ci sono in giro.

 


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