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Riflessione sulla modernità
Carlo Violo
Da un po’ di tempo sta circolando uno strano concetto di
modernità. Dopo tanti secoli di dibattito filosofico, dopo trattati
e poemi sui destini dell’uomo, che hanno riempito le riflessioni
degli uomini più illustri, sembra che finalmente abbiamo scoperto
cosa debba intendersi correttamente per modernità: licenziare senza
motivo.
Scoprire all’inizio del terzo millennio un così alto concetto
doveva certo essere iscritto nei libri del destino umano. Insomma
sembra proprio che licenziare secondo i comodi del padrone
rappresenti il vertice non solo dell’economia ma, a giudicare dai
rigorosi ragionamenti che la TV ci porta a domicilio, anche il
vertice della libertà, del benessere e certamente aiuterà a
schiudere le porte di un radioso futuro per tutti.
Ora, a parte il fatto che se i padroni sono d’accordo con tale
definizione già la cosa mi insospettisce sul destinatario del roseo
futuro, sono arrivato al punto di sentirmi un mentecatto. Devo
essere stato sicuramente scemo se per tanti anni di onesto e spesso
duro lavoro ho considerato lo Statuto dei Lavoratori un punto a
favore del progresso e non la sua rovina. Pensavo che progresso
significasse civiltà e che civiltà volesse dire diritti e doveri.
Non mi sembra che i lavoratori italiani non conoscano i doveri,
dall'epoca nella quale salvarono le fabbriche dalla furia fascista,
ai vari miracoli economici di questo nostro Paese.
Pensavo anche che, vivendo in un paese che si rifà ai valori del
cristianesimo cattolico, la dignità, il benessere e la sicurezza
degli esseri umani fossero al primo posto e davo per scontato che
una norma che va a favore della giustizia, della tutela degli esseri
umani che prestano la loro opera dietro compenso, fosse un segno di
avanzamento non di regresso.
Certo qualcuno osserverà che anche i padroni sono esseri umani.
Sicuramente, solo che sono un tantino più esposti a quella strana
malattia genetica che si chiama ‘avidità’. Quindi lo Statuto
dei Lavoratori può essere visto anche come un potente vaccino
contro tale malattia. Anche per questo pensavo che rappresentasse un
fatto di civiltà, come i rimedi contro il colera.
Si dice: abolire l’art. 18, uno dei più qualificanti dello
Statuto suddetto, significa rifondare finalmente questo Paese. Mi
ricorda tanto il ragionamento di Nerone che, per rifondare Roma, non
trovò niente di meglio che distruggerla dando la colpa ai
Cristiani. Non ci furono molti altri personaggi a cui fu comminata
la dannatio memoriae. Insomma sembra che per rifondare questo Stato,
questa Nazione, si debba ritornare indietro di qualche decennio.
Qualcuno che capitasse quaggiù da Marte e si trovasse nel bel mezzo
dell’ultimo discorso televisivo sull’argomento certamente si
porrebbe una domanda: “Ma che è successo di terribile all’Italia
da quando fu approvato lo Statuto?” Dato che sembra che sia al
punto di dover salvare la Patria, probabilmente devo avere vissuto
in un altro Paese visto che l’Italia, con lo Statuto dei
Lavoratori, è diventata uno dei primi sette Paesi più
industrializzati, è riuscita a entrare al primo turno nella
ristretta cerchia degli Europossessori e che il Nordest è diventato
una delle zone più sviluppate del mondo.
A questo punto vedo già l’irruzione del solito occidentofilo che
tuona: “Somaro, in America licenziano quando e come vogliono e la
loro economia è la più forte del mondo”. Arieccola l’Economia!
A parte che comparare tout court l’Italia con gli USA appare un
tantino eccentrico, a parte che l’America è anche la Nazione dove
si consumano più pillole antristress della Galassia, a parte che,
in senso strettamente economico, è un posto che Dio ha benedetto di
risorse e di opportunità, data anche la bassa densità di
popolazione, a parte queste e altre considerazioni che lascio agli
economisti e che con il licenziamento non centrano molto,
sissignore, se devo considerare l’opposizione al licenziamento
indiscriminato come sintomo di somaraggine mi va bene così.
Sono in buona compagnia. Sono in compagnia di tutti gli uomini che
nella storia hanno indicato altri segni di progresso, hanno additato
altri traguardi di civiltà oltre al semplice profitto. Perdonatemi
se non li elenco: sono troppi. Siamo veramente tanti ad essere
somari. Sapete, in oriente sono molto popolari le storie di Nasrudin,
una specie di Pierino. Una volta Nasrudin diede del somaro a un
maggiorente del suo paese, che, a dispetto della sua carica, andava
in giro a dire castronerie di tutti i tipi, e fu perciò chiamato in
giudizio. Il giudice chiese a Nasrudin ragione delle sue offese. Al
che Nasrudin rispose: “Eccellenza, è forse vietato dare dell’uomo
ad un somaro?” “Certamente no.” Rispose il giudice. “Bene,
allora quel somaro è un uomo!”
Stavo in mezzo ai due milioni che a Roma sono convenuti per far
sentire le loro ragioni. C’erano lavoratori, ex lavoratori e
lavorandi. Uomini, donne e bambini. Nonni, padri e nipoti. In
statistica si definirebbe un ‘campione rappresentativo della
popolazione’. Avevano la faccia incazzata ma festosa di chi si
sente nel giusto avendo sempre pensato prima di tutto ai propri
doveri. Con la loro presenza disciplinata e niente affatto esagerata
hanno fatto vedere coi fatti da quale parte sta la civiltà.
Il Paese si regge e si è sempre retto su di loro, su questa nostra
gente che è capace di andare in processione fino alla Madonna del
Divino Amore e il giorno dopo fino al Circo Massimo irridendo al
governo confindustriale, che riesce a risollevarsi dai disastri più
tremendi, che è capace di solidarietà, che ha sempre saputo farsi
onore anche nei luoghi dove era costretta ad emigrare.
Lasciateli lavorare in pace: sono i migliori, perché rappresentano
davvero la civiltà e la modernità.
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