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L’insostenibile pesantezza dell’ego



Carlo Violo




C’è una famosa barzelletta di Pierino dove il nostro definisce a modo suo, irriverente come al solito, quale siano le cose più pesanti e più leggere del mondo individuandole in certe parti anatomiche.

Ma qualche cosa deve essere cambiata dai tempi di Pierino perché una strana e forte sensazione di pesantezza mi arriva quotidianamente, questa volta dagli schermi TV. Eppure le trasmissioni sono piene di gente sorridente, di donne procaci e avvenenti che fanno gare di equilibrismo tra ciò che si può o non si può mostrare; ci sono politici di successo che sfoderano sorrisi di un immacolato da fare invidia agli spot pubblicitari dei dentifrici. Certo, qualcuno ricorda quel tristissimo personaggio delle storie di Batman che si chiama Joker e che ride semplicemente perché un incidente facciale lo ha condannato a sembrare sempre allegro. Ma questa è un’altra storia. O forse no, viste le atmosfere goticamente pesanti di Gotam City.

C’è qualcosa che appesantisce l’anima che, com’è noto, se ne infischia delle risate a comando, o delle cosce delle ballerine ma rimane sensibile a livelli di comunicazione leggermente meno banali. E’ qualcosa che proviene dalle quinte di quel continuo spettacolo teatrale, dal palcoscenico dove tutti si affannano a mostrarsi contenti o sexy, a seconda di quello che la natura permette loro.

E’ un senso di pesantezza che proviene dalla protervia di chi vuole a tutti i costi rimanere sotto i riflettori, non arrendersi all’inevitabile declino connesso con lo scorrere del tempo, che si ostina a propinarci i soliti sorrisi a tutti denti incurante dell’evidente dentiera, che si reputa tanto bello o simpatico da ritenere che il prossimo non possa fare a meno della sua continua presenza. La protervia di chi si ritiene la donna più sexy del mondo a dispetto delle evidente tettone finte e dell’ancora più evidente lifting totale.

Ecco, si tratta della pesantezza della continua finzione, tanto continua da sembrare inevitabile, sacrosanta, quasi una forma di eccelsa saggezza. E infatti non mancano da parte dei soliti buontemponi delle vere e proprie forme di culto. Chi idolatra il fondo schiena di questa, chi l’imprenditorialità di quell’altro, chi ha messo sul proprio altare domestico la foto di quel tale personaggio TV insieme a Padre Pio. In fondo trasformarsi da solone della sinistra a mago della destra è pur sempre una specie di miracolo.

Ma qual è l’origine di questo culto della finzione, viene da chiedersi? Da dove deriva questo senso di pesantezza se tutto ciò che appare è una fantasmagoria di lustrini? Certo, qualcuno potrebbe dire che sono uno che vede solo il bicchiere mezzo vuoto. Possibile. Scusate se parlo delle mie sensazioni. Purtroppo quello che mi ispira la media degli spettacoli in TV, dai sermoni degli addetti ai lavori, ai lustrini delle ballerine, è un senso di ipocrisia generale. Ma l’ipocrisia e la menzogna sono parenti molto stretti. E se è vero che nell’uomo coabitano buone e cattive qualità, probabilmente la menzogna non va annoverata tra quelle buone, salvo i casi di necessità pietose.

La menzogna è in effetti uno strumento di lavoro per quella entità che i cultori dell’anima umana definiscono come ‘ego’. Uno strumento di lavoro nel senso della forchetta e del cucchiaio con cui l’ego si nutre. O, meglio, con cui l’essere umano gratifica il lato oscuro dei propri sentimenti: il senso di importanza, l’ambizione, l’arroganza, il potere morale e materiale dei soldi, il gusto di dominare gli altri direttamente o indirettamente attraverso il culto della propria immagine, la illusione mediatica di onnipotenza, di successo, e di grande e folgorante bellezza.

Ecco, la mia sensazione di pesantezza deriva da questo spettacolo sfrenato di ego al lavoro. L’ego è una forma di energia che ama il palcoscenico del varietà, stare al centro dell’attenzione; l’ego non è molto gratificato dal silenzio, dall’oscura onestà dei sentimenti più profondi, dalla meditazione sulla impermanenza di tutte le cose e, quindi, di se stesso. L’ego è rumore, talk show, soup opera, protagonismo, mancanza di umiltà, totale mancanza di altruismo. L’ego è mercato. L’ego è come il surf: vuole sempre stare sulla cresta dell’onda. L’ego conosce il prezzo di tutte le cose ma il valore di nessuna. L’ego sguazza nella banalità più stucchevole non certo nella poesia.

Ecco un’altra ragione di pesantezza: l’assenza di poesia e la presenza debordante della chiacchiera. Sissignore, sarebbe possibile aumentare il tasso di poesia in TV se solo ci si ricordasse che poesia è dosaggio sapiente di luci e di ombre, suono e silenzio, spettacolo e sapienza. Le rare apparizioni di personaggi che nel loro essere attori, nel loro spettacolo, riescono a portare il tocco umanissimo della poesia dimostra che è possibile. Il loro successo dimostra che ce ne sarebbe bisogno. Il sentimento profondamente gratificante che ispirano dimostra che sarebbe un grande vantaggio per tutti, voglio dire per l’intelligenza.

Se il cibo per l’ego dilaga, il risultato può solo essere una grande, pantagruelica, grossolana metaforica abbuffata. A parte che, come si sa, tutte le abbuffate finiscono al cesso, non c’è dubbio che la parola ‘pesantezza’ sia abbastanza appropriata per le indigestioni. Quando l’ego diventa così rubicondo per eccesso di cibo anche il linguaggio ne soffre. Provate a fare un forbito ed elegante discorso dopo i rigatoni con la pajata. Il cervello tende a diventare come la pancia ipernutrita di robaccia: una palla di grasso flatulente. Infatti qualcuno si è persino accorto che la somiglianza tra pancia e cervello non è affatto metaforica ma fondata su concrete affinità neuronali.

Questo spiega l’usanza del digiuno presso tutte le religioni in occasione di ricorrenze che richiedono particolare raccoglimento. Questo spiega anche la povertà del linguaggio medio usato in TV. Per le abbuffate di luoghi comuni ed iconografie da allodole, per le forme più clamorose di ipocrisia, il linguaggio è solo uno stantio strumento marginale. Se si pensa che per i Greci, cioè per la cultura classica, vi erano ben cinque muse preposte a cinque diverse forme di poesia c’è veramente da chiedersi in quale scantinato è finita la cultura o, meglio, l’arte di esprimersi.

Tanto per ricordarsi:
- Calliope (musa della poesia epica);
- Erato (musa della poesia d'amore);
- Euterpe (musa della poesia lirica);
- Polinnia (musa della poesia sacra);
- Talia (musa della commedia e della poesia bucolica).

Certo, non tutti debbono esprimersi in forme poetiche. Ma se le Muse altro non sono che la metafora delle qualità espressive e se tali qualità non sono che il riflesso della complessità e profondità dei sentimenti umani, che appartengono a tutti, siamo sicuri che la società, a dispetto dei tanti strumenti tecnologici di comunicazione, stia evolvendo?

Naturalmente è giusto che ci sia spettacolo e divertimento o altre categorie di merci televisive. E’ persino giusto, da un altro punto di vista, non aspettarsi troppo dal mezzo televisivo. Solo che un po’ di misura non guasterebbe. Diciamo, un po’ più di buon gusto? Sarebbe già molto.

 


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