"Ma perché viviamo senza
            idee?" 
             
             
             
            Daniele Silvestri con Ettore Colombo 
             
             
             
            "E se non hai morale 
            e se non hai passione 
            se nessun dubbio ti assale 
            perché la sola ragione che ti interessa avere 
            è una ragione sociale 
            soprattutto se hai qualche dannata guerra da fare 
            non farla nel mio nome 
            che non hai mai domandato la mia autorizzazione 
            se ti difenderai non farlo nel mio nome 
            che non hai mai domandato la mia opinione" 
             
            Da “Il mio nemico”, dal CD “Unò-Dué”, testi e musiche di
            Daniele Silvestri (2002) 
             
            Daniele Silvestri è romano, tifa Roma ed è nato nel 1968, segno
            zodiacale Leone. E i fan sono sistemati. O meglio no: ci sarebbe da
            parlare di suo padre Alberto, coautore del Maurizio Costanzo Show
            e “uomo nell’ombra” fondamentale per la tv, morto
            improvvisamente l’estate scorsa, un dolore lungo e sordo, per
            Daniele, e di Simona Cavallari, attrice brava e poco fortunata
            (interpretò “Cronisti”, fiction tv Mediaset rapidamente
            cancellata, ma si è rifatta a teatro), la sua compagna, che gli ha
            appena dato un figlio, a 34 anni. Il nome? Pablo Alberto.
              
            
            Che tipo, Daniele Silvestri. Ha gli stessi amici da quando è un
            ragazzino: un po’ fricchettoni, un po’ per bene, molto borghesia
            romana, molto di sinistra. Le canzoni che scrive, sono loro i primi
            ad ascoltarle: lui li invita a casa sua, prende la chitarra, l’accorda,
            strimpella delle note, accenna delle parole, poi chiede: “Vi
            piace?”. Se storcono il naso, non se ne fa nulla. Certo, spiace.
            Ma è così. 
             
            Uno - Silvestri - che per anni si presentava alle selezioni per
            Sanremo e regolarmente si qualificava (“Bravo, il ragazzo. E poi
            uno colto ci vuole”) e regolarmente partecipava al Festival. Dove
            regolarmente si qualificava ultimo. Poi, certo, i premi della
            Critica (due volte: nel 1995 per “L’uomo col megafono” e nel
            1999 per “Aria”: la prima è una canzone di lotta, la seconda di
            denuncia), il premio Tenco (per il miglior album d’esordio, “Voglia
            di gridare”, nel 1994, e la migliore canzone - d’amore - nel
            1995: “Le cose in comune”, cd omonimo), il premio Ciampi e il
            premio Mariposa per il terzo album, “Il dado” (nel 1998). 
             
            Uffa. Ma come si fa a parlare di un musicista parlando dei dischi
            che ha fatto? I dischi uno li deve ascoltare. A casa, con lo stereo
            “a palla”. Per strada, con le cuffie alle orecchie (ché poi ora
            è una cosa che non va neanche più di moda). Oppure dal vivo, “live”.
            Quando - se poco poco la musica la ascolti e la segui - lo capisci
            subito se un cantante è un gruppo sono “’na sola” o fanno sul
            serio. Prendi “Cohiba”, ad esempio, col testo che dice: “L'America
            ci guarda/non proprio con affetto/apparentemente placida ci
            osserva/ma in fondo, lo sospetto/che l'America, l'america ha
            paura/altrimenti non si spiega come faccia/a vedere in uno stato in
            miniatura/questa orribile minaccia/Venceremos adelante/o victoria o
            muerte/Venceremos adelante/o victoria o muerte…”. 
             
            Ecco, subito pensi: mamma mia, il solito giovinastro che gioca a
            fare il comunista. Però se la senti in concerto e vedi la gente
            intorno che si dimena, urla, canta e suda, e poi Silvestri che fa
            scatenare il percussionista (cubano) che prende la tromba, suona
            neanche fosse Louis Armstrong, si dimena, urla, canta e suda,
            capisci. Capisci anche perché l’ultimo brano presentato da
            Daniele Silvestri a Sanremo quest’anno, “Salirò”, non solo
            non l’ha fatto arrivare ultimo, ma l’ha reso “un fenomeno da
            hit parade”, di quelli che le radio commerciali ti trasmettono
            subito prima del giungle pubblicitario. 
             
            Così poi la gente ascolta il giungle. Anche perché - prima ancora
            di una canzone di successo - “Salirò” è diventato un inno, un
            modo di dire e fare, quello che in pubblicità si chiama “tormentone”.
            Grazie anche al ballerino Fabio Ferri, che per Daniele è
            soprattutto un amico, e che con lui ha mosso quei passi, sul teatro
            dell’Ariston, che facevano tanto Tony Manero, Febbre del sabato
            sera e anni Settanta. Che sono sempre di moda. Passi di danza,
            certo, ma anche d’intelligenza. Emotiva, musicale, culturale. 
             
            E già, perché Daniele Silvestri, che è meno intellettualistico di
            Paolo Conte, non smania e non si sbraccia nel tentativo di salvare
            il mondo come Jovanotti ed è decisamente più simpatico di Cesco De
            Gregori e più caruccio di Lucio Dalla, è uno che a casa sua,
            giovinetto, s’arrampicava sugli scaffali e ci trovava libri. Il
            che, indubbiamente, aiuta. Magari non a cantare, ma certamente a
            riflettere. Su quanto è successo a Genova, ad esempio, Daniele c’ha
            pensato su parecchio. 
             
            Risultati, Daniele? 
             
            Vedi, molti dicono che le mie sono canzoni “politiche”. Beh, non
            è vero. E’ solo che succedono delle cose, nel mondo, che ci
            riguardano tutti, come collettività. E come fai a non parlarne?
            Però anche prendere un po’ le distanze dalle cose che vedi e che
            accadono, poi, quando ci pensi, è meglio, credimi, e aiuta a
            capirle. Quando ho scritto le canzoni del CD era impossibile non
            farsi prendere, non farsi coinvolgere, e anche travolgere, dalle
            giornate di Genova. Poi è arrivato l’11 settembre e zac, è come
            se avessero passato sopra quei giorni e quei fatti un colpo di
            spugna. 
             
            E invece Genova ha germinato, ha fatto crescere nelle coscienze
            della gente una nuova responsabilità e capacità di partecipare, di
            contare, di decidere. Anche manifestando, a volte troppo, forse, ma
            comunque con una grande voglia di riappropriazione dei propri
            destini e delle proprie scelte. La scelta criminale della politica e
            della cultura è stata quella di darci da bere la “guerra tra le
            divise”. Poliziotti da una parte, manifestanti dall’altra. Che
            errore madornale cascarci. Noi di questa parte, dico. 
             
            Il mio nemico ce l’ho in tasca, ecco, guardalo bene: è la mia
            carta Visa. Sono sicuro che ce l’hai in tasca, o meglio nella
            fondina, anche tu. Quella è la nostra pistola più micidiale: un’economia
            che non ha né un progetto di società né un’idea di uomo. Ma
            perché la politica non rimette al centro l’uomo, perché viviamo
            senza idee, ma ossessionati dai bilanci aziendali? 
             
            E con i bilanci “familiari”, come la mettiamo? 
             
            Guarda, io ho passato un anno orribile, l’anno scorso, e sto
            passando un anno meraviglioso adesso. E non per il successo: lo
            vedo, certo, intorno a me, in ogni cosa che faccio, ad ogni
            concerto, ma quando ti muore un padre e poi scopri che ti nascerà
            un figlio, cambia tutta la tua vita, di colpo. E il superfluo, tutto
            il superfluo, si autoelimina da solo. Non devi neanche fare sforzi,
            per eliminarlo. 
             
            La morte di mio padre, il mio primo fan da quando ero ragazzino e
            dicevo di voler suonare la chitarra, ha smesso di farmi sorridere
            per un anno. La notizia della nascita di mio figlio mi ha fatto
            tornare il sorriso. E da allora non ho più smesso, di sorridere. Mi
            ero ritirato in un paesino dell’Abruzzo, per cercare di
            concentrarmi, per scrivere, ma non succedeva niente. Poi, d’improvviso,
            è successo tutto. 
             
            "Quando entro in casa e sento musica 
            Vuol dire che ci sei 
            Perché sei fatto di musica 
            Come per tua madre il jazz 
            E per me il teatro e la penna 
            Tua madre è ancora jazz 
            Ed io ancora penna 
            Finché ci sarà musica, tu ci sarai 
            Finché ci sarai, ci sarà musica" 
             
            Alberto Silvestri 
             
            Daniele Silvestri ha pubblicato cinque album: “Daniele
            Silvestri”, “Prima di essere uomo”, “Il dado” (doppio),
            “Sig. Dapàtas”, “Occhi da orientale” (raccolta) ed ora “Unò-dué”.
            Tre i singoli: “Cohiba”, “Aria” e “Salirò”. Ha
            collaborato, scritto e cantato con Niccolò Fabi, Max Gazzé,
            Tiromancino, Subsonica, Fiorella Mannoia, PFM. Per il teatro
            Silvestri ha scritto le musiche del “Repertorio dei pazzi della
            città di Palermo” e molti altri testi, mentre per il cinema ha
            recitato, cantato e composto le colonne sonore dei film “Cuori al
            verde” e “Barbara”.
             
             
             
            
             
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