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            Lo snobbone e il suo branco 
             
             
             
            Horatio Flaccus 
             
             
             
            Sir Julian Abbott Mac Neill Ferrara ama sostenere che il suo
            giornale è l’ultima trincea dello snobismo e che lui, la
            Botafuego, la Bersagliera, la Silviopellico (avventizia) ecc. sono
            tutti degli elegantissimi dandies in incognita proiettati,
            per un disdicevole risucchio temporale, lì sul pianeta Papalla
            (largo corsia dei servi 3, 20122 Milano) dalla Londra dei Wilde e
            dei Whistler, in mezzo a paninazzi alla rustica e cicche di toscano
            Garibaldi. 
             
            Ora, un tipo che si proclama “Snob” dalla prima pagina di una
            gazzetta, Ronald Firbank (per dire uno che di snob se ne intendeva
            abbastanza) non l’avrebbe neppure classificato tra i primati. Io,
            invece, che sono di bocca buona, non farò difficoltà: nulla osta.
            Tuttavia, siccome ai maestri occorre portare rispetto e io tremo al
            pensiero di contraddire Firbank, faremo così: mescoleremo uno snob
            e un gibbone ed otterremo uno snobbone. Con soddisfazione, spero, di
            tutti i partecipanti. 
             
            Sir Julian Abbott Mac Neill Ferrara lo snobbone. 
             
            Ammetterete che la parolina si presta, perché qui parliamo di uno
            snobismo veramente all’ingrosso, praticato su scala industriale.
            Quello snobismo un tanto il chilo che piace da impazzire a chi,
            lettore o scriba, conosce il valore del denaro e sa che ogni cosa ha
            un prezzo. Quello snobismo al dopobarba che forse è la vera ragione
            che induce, per esempio, un gaucho della gazzetteria incorrect
            & snob qual’è Vittorio Feltri, a conciarsi come il
            cocchiere del principe di Galles convinto così di assomigliare al
            principe in person, ma economizzando sulle spese di
            rappresentanza. Geniale. 
             
            Del resto basta dare un’occhiata al branco che transuma assieme
            allo snobbone per farsene un’idea. Chi sono questi aiutanti di
            campo del grande imperatore alto un metro e un cazzo (tutti morti e
            resuscitati come il colonnello Chabert), con le loro pernacchiuccie
            e i loro sberleffini sgraffignati (è tutto dire…) a Prezzolini, e
            le maccaronate italiote tolte dalle tasche (basta la parola…) di
            Maccari, chi sono questi finedicitori della minchia bollita e dello
            scassamento di vertule? 
             
            Questi lampasoni della battuta da caffè, che ad ogni sucata dalla
            tazzina fanno “ahhhh…”, ruotano la manina adorna di
            occhialetto da presbite, si carezzano le panze e ammiccano,
            ammiccano, ammiccano…”A chi il culo della cameriera? A Noi!”? 
             
            Questi anticameristi da trotto passati attraverso le sale d’aspetto
            di tutti i partiti per le quali valeva la pena di passare e
            attualmente allineati e coperti come nessuno, ma che hanno la
            meravigliosa faccia di bronzo di proclamarsi frondeurs e “senza
            partito”? 
             
            Questi caporali coraggiosi, indomiti nel prendere per il culo gli
            studenti di un liceo che si permettono di contestare una pressoressa
            che parla coma una libressa stampata (“sono tutti figli di papà”
            dicono, facendo col braccino come Franco quando sgomitava Ciccio, ai
            loro altrettanto indomiti correligionari di gazzetteria, che invece,
            vivaddio, si sono fatti da sé come il Feltri Mattia, figlio del
            sullodato Feltri Vittorio che prima di passare cocchiere faceva l’operaio
            alla Bovisa, o come il Sofri Luca, anch’egli figlio di un muratore
            e di una commessa ai grandi magazzini)? 
             
            Sono gli eterni bourgeois bohemiens, quelli di sempre, che
            già cent’anni or sono (allora si piazzavano à gauche)
            facevano drizzare gli aculei a Wyndham Lewis. Quelli che s’appanzano
            e ironizzano sul loro appanzarsi, gli ipocriti dell’antiipocrisia,
            quelli che oggi trombeggiano e piffereggiano allegramente in testa
            alla truppa imperiale di tenutari televisivi e gestori di gazzette,
            piazzisti di caffè e di detersivo, Roberte siliconate e Roberti
            imbrillantinati, commercialisti con l’erre moscia e imputati di
            lusso. 
             
            Sono loro. E lo snobbone è il capo. 
             
            O meglio, il capo no, il Capo è un altro. 
             
            Lo snobbone è il sergente maggiore, quello che, nello stesso tempo,
            dà voce alla truppa quando c’è da incrementare il vitto e le
            traduce in linguaggio da caserma i dispacci e le ordinanze che
            arrivano nottetempo dal quartier generale. Fa tutto questo, lo
            snobbone, conservando sempre un’aria da liberto che “vuol esser
            gentiluomo e non vuole più servir”. Il fisico l’aiuta: egli non
            può scattare sull’attenti per il semplice motivo che possiede una
            complessione isotropa e si espande ugualmente in tutte le direzioni,
            comunque si mette risulta sempre seduto. 
             
            Eppure (che mistero è la vita…) anche lui sembra convinto e
            felice di essere quello che pensa di essere. 
             
            E anche lui fa parte della oramai immensa tribù di quelli che, a
            una sola voce, dichiarano cadenzatamene ed ipnoticamente di pensare
            con la propria testa: si muovono, indiati, attorno al totem e
            tracannano ululando acqua di fuoco convinti di essere a un garden
            party a centellinare martini dry discutendo di economia politica. 
             
            Tutti liberi pensatori. Tutti laici. 
             
            Nella nostra grande nazione gli uomini di questo stampo hanno sempre
            avuto un ruolo fondamentale: servono a far stare l’utente dalla
            parte giusta, consentendogli però di mantenere, se vuole, un'aria
            indipendente che gli consenta di non tagliarsi il ciuffo pur
            calandosi le braghe. Sono i maitres à penser di quella
            categoria di impiegati che "non guardano in faccia
            nessuno", neppure il capoufficio, perché quando lo vedono
            tengono gli occhi inchiodati al pavimento. Sono lo stendardo di
            quelli che incontri al bar e che gli e ne hanno appena "cantate
            quattro" a qualcuno. Il punto di riferimento per chi porta le
            bretelle e non vede l'ora di farsele schioccare sul petto. Il faro
            di chi ti soffia in faccia il fumo del suo sigaro spiegandoti con
            raffiche di doppi sensi e l'aria astuta che cosa è veramente la
            vita, con la prosopopea smargiassa di chi crede di avere la missione
            di insegnarti come ci si ficcano le dita nel naso.
              
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