Un titolo è una chiave di lettura?
Sergio Garufi
Chissà se esiste una storia dei titoli in arte e letteratura? In
ogni caso, una trattazione breve ma sufficientemente esaustiva
riguardo ai libri l'ha scritta Gerard Genette in Soglie - I
dintorni del testo (Einaudi), partendo dagli interminabili
titoli barocchi per arrivare fino alla brusca concisione di quelli
novecenteschi, ed elencandone le funzioni principali
(identificazione dell'opera, designazione del contenuto,
valorizzazione).
"Giorgione - La Tempesta"
Umberto Eco, nelle Postille al suo primo romanzo, spiegava la genesi
di quel titolo, di cui fu corresponsabile - come succede molto
spesso - il suo editore (cioè Bompiani). Vennero rifiutati titoli
troppo neutri, che prendevano a prestito il nome del protagonista,
come Adso da Melk (il preferito dall’autore); o titoli più
banali, come L'Abbazia del delitto, che lo faceva
assomigliare a un giallo di serie B. La scelta finale fu
particolarmente azzeccata, perché Il nome della rosa è una
chiave di lettura appropriata, per le valenze nominaliste a cui
rimanda l’esametro latino finale; e allo stesso tempo rimaneva
sufficientemente vago da non precludere ulteriori percorsi
ermeneutici.
Un bel titolo, spesso, contribuisce al successo di un libro. Si
pensi, per esempio, agli imitatissimi (e storpiati) Viaggio al
termine della notte di Céline o Cronaca di una morte
annunciata di Garcìa Marquez; al sublime depistaggio de L'Uomo
senza qualità di Musil (che invece ha un sacco di qualità),
allo sconcio Sodomie in corpo 11 di Busi, al divertente non
sense di Storia della pittura universale in tre volumi di
Benezet - che in verità è uno smilzo libricino in cui non si parla
minimamente di pittura -, al cupo Gioia di vivere di Zola;
allo splendido ossimoro de L'insostenibile leggerezza dell'essere
di Kundera, o infine a molti componimenti lirici di Quasimodo, i cui
titoli sono non di rado più belli delle stesse poesie (penso, per
esempio, a Mai ti vinse notte così chiara, o Di fresca
donna riversa in mezzo ai fiori).
"Mantegna - Cristo Morto"
Nell'arte rinascimentale non si usava titolare le
opere. Al più le si descrivevano, come nei tanti registri dei
collezionisti dell'epoca, che si limitavano a illustrarne il
soggetto principale e a indicarne l'autore. Fra i tanti dipinti che
ci sono giunti privi di indicazione, alcuni fra i più famosi sono la
Tempesta di Giorgione, la Flagellazione di Piero della
Francesca e il Cristo morto del Mantegna. Curiosamente,
proprio i titoli che in seguito sono stati attribuiti a queste opere
sono indicatori dei contenuti che questi dipinti si supponeva
veicolassero.
Riguardo al primo dipinto, viene generalmente indicato così proprio
per evidenziare il fatto che sarebbe privo di un soggetto preciso;
per cui, non essendoci alcun rapporto fra scene sacre o mitologiche
e la coppia con bimbo immersa nel paesaggio, si è posto l'accento
sul lampo che squarcia le nubi, quasi a suggerire che si tratti di
un semplice pretesto del pittore che, in assenza di precise
indicazioni del committente (o addirittura in assenza del
committente), aveva dato così libero sfogo alla sua fantasia.
"Piero della Francesca - La Flagellazione"
Salvatore Settis, in uno splendido saggio intitolato La Tempesta
interpretata (Einaudi), pare aver sciolto l'enigma,
riconducendo le tre figure principali ad Adamo, Eva e Caino, e
rinvenendo nella città turrita l'Eden perduto e in un apparente
ramoscello adagiato sul terreno il celebre serpente responsabile
della loro caduta.
Sulla cosiddetta. Flagellazione di Piero, invece, si sono
scontrate diverse interpretazioni, soprattutto riguardo
l'identificazione e le ragioni del dialogo fra i tre personaggi in
primo piano. Federico Zeri e Pope-Hennesy ci vedevano la
rappresentazione del Sogno di San Gerolamo, così come viene
raccontato da quest’ultimo in una lettera a Eustochio; mentre
Ginzburg e la Ronchey rintracciavano precisi riferimenti alla fine
di Costantinopoli e alla fallita riconciliazione tra chiesa
d'Oriente e d'Occidente.
La maggior parte delle interpretazioni concernenti Il Cristo
morto del Mantegna sottolineano la volontà dell'artista di
umanizzare la scena rendendocela familiare; e difatti Gesù viene
osservato dallo spettatore nello stesso modo con cui vedrebbe un
parente nella camera mortuaria; cioè entrando nella stanza e
guardandolo disteso dalla parte dei piedi, per poi accostarsi di
fianco a compiangerlo come fanno i tre personaggi a margine.
Ma in una lettera del 1504, in cui il figlio di Mantegna raccomanda
ai Gonzaga di Mantova l'acquisto delle opere del padre rimaste in
bottega al momento della morte, questi lo descrive come Cristo in
scurto, facendo così pensare a un mero esercizio tecnico, un
semplice - seppur sommo - esempio di virtuosismo prospettico, senza
tutte le implicazioni che gli abbiamo attribuito in seguito.
Alberto Burri, e come lui molti artisti contemporanei, si
rifiutarono di fornire chiavi di lettura alle loro opere,
intitolandole con numeri, o con i nomi dei materiali, o con le
tecniche usate, lasciando così liberi i fruitori di scorgerne il
senso più affine alla propria sensibilità; e forse anche per
questa ragione, per questa indeterminatezza, incontrò all'inizio
della sua carriera notevoli difficoltà.
Perché, in genere, gli amanti dell'arte pretendono che il titolo
indichi, o perlomeno evochi, una spiegazione del senso ultimo
dell'opera, cioè che li sollevi dall’arduo compito di rinvenirlo
da soli; e proprio questa esigenza del fruitore si scontra invece
col desiderio dell'autore, che tende naturalmente a non delimitare
troppo i margini interpretativi, precludendo così altre possibili
chiavi di lettura.
Proprio riguardo a questa contrapposizione, vale forse la pena
ricordare un curioso aneddoto riguardante Hans Arp. Si narra infatti
che l’artista, di fronte alla richiesta del visitatore di una
mostra di conoscere il titolo (e implicitamente il significato) di
una sua scultura che ne era priva, perché intenzionato ad
acquistarla, rispose: "forchetta o buco di culo, a
seconda". Superfluo aggiungere che l'opera rimase invenduta.
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