Più Unione postale europea che Stati
Uniti d’America?
Silvia Di Bartolomei
La casa crolla quando le fondamenta troppo esili non reggono più il
suo peso. L’Europa unita che si allarga ad Est rischia di franare,
se le sue istituzioni non saranno riformate per accogliere i nuovi
inquilini e le loro complesse realtà economiche, giuridiche e
sociali.
Non basta. Se l’Unione europea non accelera la riforma delle sue
istituzioni, rimarrà schiacciata tra gli Stati Uniti e la Russia
che, in un’inedita alleanza, stanno tornando a dominare l’equilibrio
geopolitico del pianeta. L’accordo per la riduzione dei missili
nucleari e il patto siglato da Russia e Nato a Pratica di Mare,
aprono la via a una intensa collaborazione fra le due ex potenze per
fronteggiare la minaccia del terrorismo, archiviando la reciproca
ostilità lasciata in eredità dalla Guerra fredda. Stiamo dunque
assistendo alla ridefinizione delle alleanze mondiali. E l’Europa,
sta a guardare?
Lo storico Giuseppe Galasso ritiene che la logica degli Stati
nazionali, ancora dominante nell’Unione, costringerà gli europei
a rimanere “relegati ai margini della storia ‘maggiore’, come
in epoca rinascimentale accadde per esempio agli Stati italiani
rispetto alle potenze europee. O all’antica Grecia rispetto a
Roma.” Insomma, l’Europa è troppo debole e divisa per contare
davvero nella definizione del nuovo ordine mondiale che sta ancora
nascendo dopo il crollo del muro di Berlino. L’Unione europea non
avrà peso nell’assetto dei futuri equilibri internazionali, se
non riuscirà a parlare con una sola voce e ad imporsi con una sola
volontà.
Ma allora la sfida si vince o si perde sul piano della riforma delle
istituzioni. Si vince con un governo dell’Unione autorevole e
riconoscibile. Si vince a Bruxelles, se la Convenzione saprà
elaborare un testo costituzionale che fissi una volta per tutte i
principi e i meccanismi operativi di un sistema istituzionale di
tipo federale.
Il dibattito sul futuro dell’Europa è finalmente entrato nel vivo
della questione istituzionale e sul tavolo della Convenzione le
relazioni contrarie all’idea di una democrazia federale sono più
numerose di quelle a favore. Nell’ultima sessione plenaria, il 24
e 25 maggio, i delegati hanno preso in esame due alternative di
riforma dell’Unione, formulate da Romano Prodi e dal premier
britannico Tony Blair.
Le due ipotesi non sono incompatibili, ma hanno certamente una
valenza politica diversa rispetto all’esigenza sottolineata da
Prodi al Parlamento europeo, che lo ha lungamente applaudito, di un
“grande progetto per porre le basi per una democrazia
sovranazionale”.
La proposta di Prodi mette la Commissione al centro dell’architettura
istituzionale europea; quella inglese punta sul ruolo del presidente
del Consiglio Europeo. L’una mira a costruire un governo federale
rafforzando la Commissione, vigile e garante del carattere
sovranazionale dell’Unione, estende i poteri legislativi del
Parlamento, prevede l’abolizione dell’unanimità per il voto del
Consiglio e l’adozione del principio della sussidiarietà per la
ripartizione delle competenze tra l’Unione e i singoli Stati. L’altra
propone un presidente del Consiglio in carica per cinque anni (oggi
è retto a turno dai Quindici, con rotazione semestrale), nominato
dai governi nazionali per rafforzare la collaborazione comunitaria
che, tuttavia, non dovrebbe andare oltre il metodo delle decisioni
intergovernative, mantenendo il voto all’unanimità per i più
importanti settori, come il fisco e la difesa e la sicurezza comune.
L’orientamento delineato da Blair è evidentemente minimalista
rispetto a quello prospettato da Prodi, il quale vorrebbe assegnare
alla Commissione il potere di iniziativa proprio nei settori che
oggi sono riservati alla cooperazione intergovernativa, come la
politica estera e di sicurezza comune, l’immigrazione, l’asilo
politico e la giustizia. L’Unione europea acquisterebbe così una
forte capacità propositiva, derivata dalla sintesi democratica
delle volontà dei singoli governi. In particolare, la politica
estera sarebbe progressivamente unificata, e l’Alto rappresentate
dell’Ue, che oggi risponde ai governi nazionali, verrebbe
integrato nella Commissione, della quale assumerebbe la
vicepresidenza.
Anche il governo dell’economia verrebbe esercitato attraverso un
più stretto coordinamento delle politiche economiche e di bilancio
degli Stati membri, e attraverso l’istituzione di un Consiglio dei
Paesi dell’euro. Un’intesa speciale necessaria, perché quando l’allargamento
sarà compiuto il numero degli Stati che non avranno ancora adottato
la moneta unica sarà di poco inferiore a quello della cosiddetta
eurozona. Infine, al Parlamento europeo spetterebbe un’incisiva
facoltà di codecisione con il Consiglio in materia di entrate e
spese dell’Unione.
Insomma, secondo Prodi il sistema che era valido per la Comunità a
Sei e già meno per l’Unione a Quindici, dovrebbe essere
rimpiazzato da un sistema sostanzialmente federale, basato sul
bilanciamento del “triangolo decisionale”, Commissione -
Consiglio dei ministri - Parlamento.
D’altra parte, anche la proposta di Blair, subito apprezzata nella
Convenzione dai rappresentanti dei governi nazionali, non è priva
di valenza politica. Il primo ministro in carica per cinque anni
godrebbe di forte autorità per coordinare i rapporti all’interno
dell’Unione e sarebbe una figura importante, legittimamente
riconosciuta all’esterno. Ma quanto varrebbe il suo ruolo in
assenza di una riforma complessiva e coerente delle istituzioni
europee? Probabilmente poco. Sarebbe, forse, solo una nuova carica
sommata alle altre nella confusione generale dei titoli e delle
competenze.
Ralph Dahrendorf ha scritto di recente che l’Ue “per vari
importanti aspetti assomiglia più all’Unione postale europea che
agli Stati Uniti d’America. E’ l’amministrazione di un’unione
doganale, con un’enorme sovrastruttura di istituzioni”. Le
riflessioni di un autorevole europeista, oggi dichiaratamente
euroscettico, aiutano a capire che il vuoto di potere politico di
cui soffre l’Unione non potrà essere colmato solamente con l’investitura
di un leader dei governi nazionali. Così come non sarà risolto il
deficit democratico delle istituzioni europee, perché i cittadini e
l’Europarlamento da loro eletto non parteciperanno alla scelta del
premier nominato dalle cancellerie degli Stati membri.
La questione istituzionale dovrà comunque essere affrontata e
risolta dalla Convenzione, dove speriamo prevalga la consapevolezza
che lo scopo dell’azione comunitaria è il valore aggiunto che
essa può apportare alle politiche nazionali. Quel valore che, come
sostiene il Commissario delle Riforme istituzionali Michel Barnier,
ci permette di comprendere perché vale la pena agire insieme per
rispondere alle sfide che l’Europa si trova oggi ad affrontare.
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