David Foster Wallace e Michel
Houellebecq
Sergio Garufi
Stando al parere di molti autorevoli critici letterari, gli
scrittori David Foster Wallace e Michel Houellebecq rappresentano
due tra i maggiori talenti narrativi attualmente in circolazione.
Houellebecq ho avuto modo di incontrarlo in un paio di occasioni. La
prima volta a dicembre dello scorso anno, per la presentazione del
suo ultimo romanzo Piattaforma (Bompiani) in una libreria
Feltrinelli di Milano; e l’ultima a Crema, per un reading
di poesie all’interno del festival letterario “Squilibri”,
promosso dalla locale biblioteca civica.
Mentre l’americano Wallace si presenta alle interviste con un look
da MTV, con bandana in testa e t-shirt informale, e sbandiera
il suo passato di sportivo semi-professionista, il francese
Houellebecq mostra un aspetto più dimesso e sedentario, conforme
all’immagine tradizionale del tipico intellettuale europeo un po’
misantropo, trasandato e introverso.

Oltre all'aspetto, anche la loro narrativa è
profondamente diversa. L'americano è l'alfiere dell’ultimo
postmoderno, o meglio della “deriva americana” del
postmodernismo. Negando valore all’assunto fondante del primo
postmodernismo (quello teorizzato da John Barth in Letteratura
dell’esaurimento, per intenderci), secondo il quale tutto è
già stato detto e non resta che riscrivere e variare sugli stessi
temi di sempre (lavorando quindi di sottrazione, come facevano
Borges, Nabokov e Beckett), David Foster Wallace costruisce le sue
opere come una sorta di concatenazione tridimensionale di singoli
episodi.
I suoi sono racconti brevi che in certi casi raggiungono dimensioni
mastodontiche, fluviali, e si dilatano fino a diventare
macronarrazioni orizzontali e polifoniche, affollate da un numero
impressionante di voci e di storie che s'inseguono, si sviluppano
parallelamente, si intersecano, tornano a separarsi, agiscono su
più piani distinti; ricordando in questo certa filmografia
altmaniana.
E più che di personaggi veri e propri, forse converrebbe parlare
nel suo caso di funzioni narrative, che sono appunto il tratto
distintivo dei racconti. Sono figure che sfiorano il grottesco, che
non vivono una vita propria, prive come sono di spessore o di
volume; più che dire qualcosa di loro stesse, servono all'autore
per dire qualcosa. Come il custode del bagno dell'hotel di lusso (in
Brevi interviste a uomini schifosi, Einaudi), che trascorre
la sua squallida vita ad ascoltare il flusso delle minzioni, gli
sbotti dei peti, lo scrosciare degli sciacquoni dei clienti dell’albergo.
O come quel personaggio che decide di vendere i vecchi divani, e
pubblica un'inserzione nella quale dice che li regalerà a chi se li
porta via. E non vedendo arrivare nessuno dopo qualche giorno cambia
il testo dell'inserzione, mette un prezzo - seppur basso - e
finalmente li vende; folgorante metafora dell'importanza del denaro
nella società americana.
I libri di Houellebecq hanno una struttura più tradizionale,
lineare. Sono romanzi a tesi, che riprendono il filo interrotto
della tradizione esistenzialista francese, con in più il rifiuto
perfino dell’atto gratuito; in un’apologia della rinuncia e dell’autodistruzione
che ispirò ad alcuni critici la definizione di “Camus dell’era
digitale” (non a caso, uno dei protagonisti de L’estensione
del dominio della lotta trova precisi riscontri nel Mersault de Lo
Straniero).

Nessuna traccia di metanarrativa, di
intertestualità, di rivisitazione ironica nelle sue opere; in
sostanza, nessun elemento caratterizzante la narrativa c.d.
postmoderna. Una sola storia e pochi personaggi, tratteggiati a
tutto tondo, come l'incantevole Valerie di Piattaforma (Bompiani),
accompagnati fino alla fine in un percorso di annientamento e
desolazione (come pure le due coppie protagoniste de Le
particelle elementari). Gente comune che potresti incontrare per
strada, che potresti riconoscere a una festa, o in ufficio, come il
Tisserand de L'Estensione del dominio della lotta (Bompiani).
Tra le funzioni narrative di Wallace e i personaggi di Houellebecq
c'è la stessa differenza che passa tra le figure tardogotiche di
Masolino e quelle rinascimentali di Masaccio. Le prime ti dicono
qualcosa di quel tempo, di quella cultura, della moda e del costume
di allora; le seconde ti parlano di loro stesse, della loro vita,
delle loro emozioni.
Entrambi adoperano spesso il taglio saggistico, l'inserzione di
folgoranti analisi della società; ma nell'americano quasi
incidentalmente, en passant, mentre nel francese con lunghe e
circoscritte digressioni specifiche. Entrambi dimostrano una
capacità affabulatoria sorprendente, e interpretano alla perfezione
- il francese con un linguaggio gelido e spietato, da referto
autoptico; e l’americano con uno stile più espressionista - il
nostro zeitgeist, lo spirito del tempo.
I limiti di David Foster Wallace riguardano l’eccessivo
istrionismo, lo sfoggio gratuito di virtuosismo che dimostra a
tratti; come in quell’episodio di Verso Occidente l'impero
dirige il suo corso (Minimum fax), in cui a un certo punto
l'autore descrive una giovane aspirante narratrice iscritta a un
corso di scrittura creativa, che viene redarguita dal suo insegnante
perché il suo stile è troppo "mamma guarda, senza
mani!".
Houellebecq, viceversa, possiede un maggiore controllo sul proprio
stile, sempre asciutto e scarno, ma tende a volte a essere
ripetitivo, cioè a dare l’impressione che le opere successive a Le
Particelle elementari siano una sorta di glossa di quel
capolavoro.
Al fondo delle loro storie c'è sempre una visione sconsolata,
desolante, nichilista dell'esistenza umana, la rivelazione che la
realtà poggia sul nulla, che il principio primo, su cui si fonda la
loro “Azione Parallela”, semplicemente non esiste.
Il francese ce lo comunica mostrando quanto il sistema capitalistico
occidentale sia marcio fin nelle fondamenta, e con l'alibi della
diffusione del benessere contamini e inquini ogni aspetto della vita
sociale - come l'amore, gli affetti, le amicizie -, convincendoci di
bisogni innecessari e generando così frustrazione e infelicità;
mentre l’americano ci fa capire che tutta la nostra esistenza non
è altro che un gigantesco scherzo del destino (Infinite Jest),
un affaccendarsi penoso e ilare allo stesso tempo intorno a cose
futili e inconsistenti.
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