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Buona notizia per tutti:
l'opposizione è viva
Giancarlo Bosetti
“Tutto
quasi come prima”, “Mancato sfondamento”, “Nessuno stravince”,
“Il Polo non cede e l’Ulivo rimane a galla”. “Reggio
Calabria alla destra, Pericu trionfa a Genova”. A parte qualche
sconfinamento indotto dalle simpatie o antipatie di qua o di là, il
senso dei commenti sulla stampa italiana, a una prova elettorale
significativa che ha coinvolto un quarto dell’elettorato, indica
qualcosa che viene mentalmente archiviato all’insegna del “pareggio”.
Ulivo e Casa delle Libertà hanno “pareggiato”, insomma. Chi si
aspettava che uno dei due poli mettesse sotto l’altro è rimasto
deluso. Dei tre risultati possibili, 1 X 2, il primo e il secondo
sono da scartare. La colonna vincente prevede in questa casella -
elezioni amministrative italiane, maggio 2002 - una X. Benissimo. Ma
questo responso, così sintetizzato, sarebbe troppo reticente. In
verità, sotto la scorza retorica, il risultato dice molto di più
di una X, in molti sensi.
Vi dico subito il senso principale: prima di queste elezioni in
Italia si paventava, o si auspicava (da parte di pochi, che a mio
avviso, peccano di semplicismo) una netta e incolmabile prevalenza
da parte del centrodestra sull’opposizione. L’incertezza, il
rischio, l’ambivalenza degli equilibri di potere che sono tipici
della democrazia erano cancellati e sostituiti dalla convinzione che
c’è un “regime”, un potere non questionabile, un consenso
vastissimo, più che un’onda lunga, una marea. Un processo che
appariva destinato, pre-destinato a una lunga durata, al di là
della legislatura. Il conflitto di interesse, vale a dire il potere
televisivo-editoriale-finanziario, di Berlusconi giocava a favore di
queste aspettative (dei suoi) o timori (degli altri), in una somma
di fattori tra loro curiosamente imparentati: Silvio forever.
Dopo queste elezioni queste aspettative “imperiali”, “augustee”,
che avevano fatto breccia non solo nell’elettorato televisivo,
nelle fasce più passive e più facile preda della propaganda, ma
anche nell’élite economica e nelle zone più forti della
società, che guidano o condizionano l’opinione di massa, saranno
necessariamente messe da parte: incertezza e rischio riprendono il
loro posto nell’ordinario ciclo politico di una democrazia
ordinaria quale l’Italia viene non a torto considerata. Chi
governa è sotto la minaccia di essere mandato a casa al prossimo
giro. Questa è una condizione di immenso valore per una società
libera e democratica, da qualunque parte la si guardi, da destra o
da sinistra, al punto che ne hanno ricavato anche una definizione:
un sistema è democratico quando la maggioranza è sotto la minaccia
di essere sostituita al turno elettorale successivo.
Per di più le aspettative imperiali erano avvalorate dalla
sintonia, vera o presunta, con una tendenza favorevole alla destra
(dopo Bush una serie di risultati elettorali allarmanti per il
centrosinistra, elezioni regionali in Germania, presidenziali
francesi, e da ultimo elezioni olandesi). La forza di questa “onda
lunga” internazionale, - che ha dovuto comunque frangersi l’anno
scorso sulle coste britanniche - è ancora da verificare alla prova
delle politiche francesi tra poco e di quelle tedesche il prossimo
autunno. Si vedrà allora a beneficio di chi tira il vento
internazionale. Al momento si può dire che non è comunque tale da
decidere i giochi in casa nostra, né per un verso né per l’altro.
Il governo italiano si porta dietro quel “memento mori” che
rappresenta una etichetta Doc di appartenenza garantita al
territorio della democrazia. E’ utile farlo notare alle audience
di massa come alle élites che in questi mesi se lo fossero
eventualmente scordato. Ed è bene ricordare che questa condizione
di “rischio” sia anche una delle forme di controllo e di
contenimento più efficaci nei confronti dei detentori, temporanei,
del potere politico. La minaccia di perderlo, il potere politico,
induce a esercitarlo con maggiore prudenza, e magari anche meglio
che se si avessero maggioranze plebiscitarie.
Ma le elezioni ricordano anche alcune altre cose:
a) la leadership del centrosinistra, sottoposta a un fuoco
permanente di artiglieria soprattutto dalle linee interne, sembra
aver superato la fase peggiore della sua storia recente anche se non
ha ancora ben definito le nuove geometrie e regolato le tensioni tra
le varie componenti. Riesce a produrre un risultato sufficientemente
minaccioso per Berlusconi anche se si presenta in una formazione
ancora piuttosto scombinata. L’esito autorizza a immaginare
risultati decisamente migliori una volta schierati ranghi più
compatti.
b) gli accordi di coalizione hanno un valore decisivo sugli altri
fattori, il che è persino ovvio, anche se non basta saperlo per
evitare di cascarci. Esemplari in negativo i casi di Verona, per la
Casa delle libertà costretta al ballottaggio dove poteva vincere al
primo colpo, o di Monza per il centrosinistra presentatosi diviso e
suicida. In positivo confermano la stessa cosa Genova e Reggio
Calabria.
c) Se il voto è un campanello d’allarme - che dà un serio
ammonimento alla maggioranza: bada che non c’è tranquillità
garantita -, per l’opposizione è un campanone che dà la sveglia
e forse l’aiuta a individuare i suoi errori più clamorosi negli
anni recenti. Per i Ds di Fassino è un voto di incoraggiamento: la
residua forza di insediamento di quel partito può avere un alto
valore pragmatico (voti) quando si riesce a liberarsi dalla coazione
a ripetere delle vecchie conteste interne. Prendete il risultato di
Sesto San Giovanni: Giorgio Oldrini, ds, al 61%. Gli avversari si
consolano con il fattore storico: città rossa. E sbagliano due
volte, la prima perché rossa, super-rossa, era anche Bologna, oggi
amministrata dalla destra. Ricordate il 1999? La seconda perché
Sesto, paradigma della città operaia, è cambiata socialmente forse
più di qualunque altro luogo italiano in questi vent’anni.
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