Unione europea e immigrazione
Silvia Di Bartolomei
Prima in Austria, Danimarca, Portogallo, Francia. Ora in Olanda e
Irlanda. Domani, forse, in Germania e in Italia. La richiesta di “tolleranza
zero” contro l’immigrazione clandestina sta attivando nell’Unione
europea tensioni xenofobe e razziste che si credevano emarginate o
comunque di scarsa rilevanza, e che invece stanno cambiando interi
assetti politici e parlamentari.
“Questione di tempo, ma la nostra legge diventerà un modello per
tutta l’Europa”: la profezia degli autori delle nuove norme che
in Danimarca restringono i diritti degli immigrati si sta avverando.
Il vento freddo del Nord contro le politiche comunitarie soffia
forte da Copenaghen, non da ieri. Contro la ratifica del Trattato di
Maastricht nel ’92, contro l’Euro nel 2000 e ora con la svolta
sull’immigrazione. Intanto, la crescita dei movimenti neopopulisti
di destra ne ha segnato l’ascesa elettorale anche in paesi di
radicata egemonia socialdemocratica e liberale come la Norvegia, la
Svezia, la Svizzera e l’Austria.

Caso esemplare quello olandese. I successi della
sinistra socialdemocratica al governo da otto anni non sono stati
sufficienti ad arginare il dilagare dell’ondata xenofoba (nel
senso di quella “paura dello straniero” recentemente illustrata
dal professor Sartori). Gli elettori hanno votato con la mente
bloccata su un solo punto del programma svolto dal governo uscente,
giudicando assolutamente inadeguata l’azione di contrasto all’emigrazione.
La carica anti immigrazione si fa sentire punendo le forze politiche
che ne hanno sottovalutato le sollecitazioni, non avendone compreso
la complessità sociale e il carattere di psicosi collettiva.
Bisogna ora dare risposte puntuali a preoccupazioni e paure diffuse
che, se strumentalizzate politicamente, possono generare i mostri
dell’odio razziale contro i disperati che nei nostri paesi cercano
rifugio dalla miseria e dalle persecuzioni.
L’emigrazione sta dentro la dimensione mondiale dello sviluppo,
come fenomeno ineliminabile e anzi destinato ad aumentare. Le
conseguenze negative - clandestinità, criminalità, prostituzione,
sfruttamento - sono iscritte in quel lato oscuro della
globalizzazione da combattere anche con misure più forti di ordine
pubblico.
Le risposte nel lungo periodo sono soprattutto di carattere
culturale e si trovano nell’educazione alla tolleranza e al
rispetto della diversità. Inoltre, vanno cercate risposte sul piano
istituzionale sopranazionale e, da noi, in un contesto di
integrazione europea. I confini nazionali sono stati cancellati
dagli accordi di Schengen e tutti rispondiamo della sorveglianza di
uno spazio comune europeo di libera circolazione di merci, servizi e
persone. La droga, la criminalità organizzata, la frode
internazionale, la tratta degli esseri umani e lo sfruttamento
sessuale di donne e bambini riguardano tutti gli Stati membri dell’Unione
europea. Sono piaghe che infettano tutti, non arginate da alcuna
frontiera. Rimanere ancorati alle politiche nazionali dell’immigrazione
senza progredire verso una legislazione comunitaria, è oggi l’errore
più grave che si possa commettere.
Una politica comune per il fenomeno migratorio non c’è ancora, ma
una riflessione ineludibile anche su questo aspetto della
globalizzazione è già contenuta nella Carta europea dei diritti ed
è stata affidata alla Convenzione di Bruxelles che sta elaborando
il testo costituzionale dell’Unione. Nel 1997 il trattato di
Amsterdam aveva registrato la volontà di coordinare le misure dei
governi nazionali per l’immigrazione e nel 1999 il Consiglio
europeo di Tampere aveva dettato un programma legislativo per
trasferire all’Ue, in un arco di cinque anni, gran parte delle
attuali competenze degli Stati membri in materia di asilo,
immigrazione, gestione dei flussi migratori, trattamento degli
extracomunitari legalmente residenti e respingimento degli illegali.
Da allora sono state istituite, o rafforzate, le strutture di
cooperazione, come l’ufficio europeo di polizia Europol, il gruppo
speciale di esperti Eurojust per i procedimenti penali che
riguardano gravi reati transfrontalieri, e alcune altre task force
di polizia e amministrazione giudiziaria comune. Tutti strumenti
validi per scovare traffici illegali e respingere i clandestini,
anche se gli esperti giudicano ancora troppo scoordinate le
operazioni di queste strutture di intervento e prevenzione.
Il nodo della questione è di carattere politico. Troppo spesso le
proposte avanzate dalla Commissione per attuare il programma di
Tampere sono state bloccate o accantonate dal Consiglio europeo,
perché non è stato possibile superare le resistenze di singoli
governi ad abbandonare o modificare la legislazione nazionale.
Eppure, non si vince contro l’immigrazione illegale, la tratta di
organi e di esseri umani, i traffici di stupefacenti, il terrorismo,
se non si combatte su un terreno di cooperazione internazionale, di
coordinamento tra grandi aree geografiche rappresentate da
istituzioni federali forti, in grado di aiutare i paesi d’emigrazione
e regolare l’arrivo della loro gente nei nostri paesi. Il
Presidente Ciampi ha detto: “L’Europa e l’Italia hanno una
limitata capacità di accoglimento” e dunque “dobbiamo fare di
più per portare lavoro nei paesi poveri”.
Nel territorio dell’Unione europea arrivano ogni anno circa
500.000 immigrati clandestini e molti lavorano in nero. I governi,
non solo in Italia, hanno più volte regolarizzato la loro posizione
con le sanatorie, alimentando la diffidenza e i pregiudizi di chi
considera gli stranieri una minaccia per i posti di lavoro, la
sicurezza, il welfare e le culture nazionali, senza tenere in alcun
conto le ragioni umanitarie, e nemmeno la convenienza economica,
poiché gli immigrati svolgono lavori che gli europei rifiutano.
Se le sanatorie possono essere risposte valide in stati di
emergenza, va però sblooccata la paralisi decisionale dell’Unione
sul controllo dei flussi migratori. Infatti, nonostante le
raccomandazioni della Commissione, negli ultimi anni sono mancati
una valutazione comune dello sviluppo economico e demografico delle
aree di provenienza, un calcolo rigoroso della capacità di
accoglienza, un’impostazione coordinata e più incisiva per
impedire l’ingresso degli irregolari o per rimpatriarli una volta
entrati. E a poco sono valsi gli accordi già ratificati, come
quello di Dublino del 1995 sulla definizione e la revoca dello status
di rifugiato politico.
Di recente sono state studiate alcune misure, come il sistema “Eurodac”
per l’identificazione attraverso le impronte digitali di chi
richiede asilo; o come la carta di soggiorno rilasciata alle vittime
del racket dell’immigrazione clandestina e della tratta degli
esseri umani disposte a cooperare; come la costituzione di una banca
europea dei visti per incrociare e mettere in comune le informazioni
sui permessi rilasciati o negati da ciascun paese. Tutti passi
avanti, ai quali dovrebbe aggiungersi l’aumento dei fondi di
sostegno allo sviluppo dei paesi poveri per frenare l’esodo verso
l’Europa.
Certo, il percorso per soluzioni che contemperino le esigenze di
solidarietà con quelle della disponibilità di spazi e di risorse
per l’accoglienza, sarà ancora lungo. Come pure lontano, forse
irraggiungibile, è il traguardo di una società europea che voglia
essere multiculturale. Intanto, però, si dovrebbe far capire a
tutti che un’Europa debole e divisa non saprà mai governare i
fenomeni migratori con razionalità, umanità e rigore. Tutti
ingredienti necessari, in uguale misura.
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