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La Convenzione nell'indifferenza



Silvia Di Bartolomei




Qualche giorno dopo aver pronunciato lo “storico” discorso di Piazza Navona, Nanni Moretti spiegò su la Repubblica perché era stato così duro nella critica agli errori dell’Ulivo, concludendo: “I dirigenti del centrosinistra hanno preso tanti (troppi) schiaffi dagli avversari, forse sarà salutare lo schiaffo di un elettore. Imparino ad ascoltarci”. Da allora i politici sono appostati all’ascolto in permanenza, ma ora forse dovrebbero richiedere a loro volta qualcosa in più alle forze popolari e intellettuali della protesta: per esempio, una partecipazione convinta alla battaglia europeista.

Viene a proposito il riferimento ai lavori della Convenzione europea, che si svolgono nella completa indifferenza di tutti. Qualcuno ha forse organizzato marce, fiaccolate, girotondi per impedire che il grande progetto della federazione europea subisca un nuovo, rovinoso rinvio? Eppure, lì sono in gioco gli stessi valori democratici e i diritti liberali che stanno alla base della contestazione civile, compresa quella non violenta dei no-global.

Negli Anni Quaranta e Cinquanta i promotori della battaglia federalista potevano contare su una forte e convinta adesione popolare. Ripercorrendo a ritroso il cammino dell’unificazione, è evidente ora che il consenso popolare si è affievolito e molte carenze degli Stati nazionali vengono erroneamente attribuite alle istituzioni comunitarie. L’Europa come mito ha perduto una parte consistente del suo appeal con la caduta del Muro e l’allentamento delle tensioni della sfida Est-Ovest e della difesa dei valori democratici e liberali dell’Occidente.

Eppure il momento è decisivo: a sostegno degli obiettivi dell’integrazione politica e dell’allargamento c’è ancora bisogno di molta volontà politica e di forte consenso, due fattori decisamente in declino. Il dibattito è impantanato nella disquisizione sul grado dei poteri da trasferire dagli Stati nazionali alle istituzioni federali. Anche le poche concessione strappate a Laeken dai ministri europeisti agli euroscettici sembra ora isterilirsi nei bizantinismi circa la modica quantità di federalismo da introdurre nella riforma dei trattati affidata alla Convenzione. D’altra parte, il consenso popolare è sempre più diluito dalla disinformazione, perché i politici non hanno interesse a ravvivare l’attenzione degli elettori per le problematiche europee, su cui non giocano direttamente le loro carte elettorali.

E’ a questo punto che la battaglia dei federalisti potrebbe intersecare il fronte della protesta contro gli effetti perversi della globalizzazione. C’è bisogno di una nuova linfa per dare impulso ad un consenso rinnovato. Serve una spinta popolare per ridare slancio alla prospettiva europeistica, in pericolo fra le tempeste e le bonacce di un continente che rischia di perdere le motivazioni profonde della sua ricerca di unità. Il movimento della protesta civile allo sviluppo capitalistico senza regole è oggi l’espressione più viva della volontà di partecipazione politica allo sviluppo democratico nei contesti economici e sociali in continua trasformazione.

Tuttavia, sebbene i temi dell’antiglobalizzazione - il divario tra il nord e il sud del mondo, tra ricchi e poveri, la pace, i diritti umani, l’ecologia, il lavoro - abbiano fatto breccia nelle riunioni dei G8, del Wto, del Word economic Forum, la protesta no-global continua a considerare queste sedi come le stanze segrete dove i signori della Terra celebrano il sacrificio dei popoli. Il rischio è, dunque, che una protesta civile troppo integralista, avversa all’idea stessa di un ordine mondiale, finisca per isterilire il contributo decisivo che essa può invece dare all’affermazione di un’etica globale della vita pubblica.

Bisogna però riconoscere che dalla “battaglia di Seattle”, nell’autunno del ’99, alle manifestazioni di Praga, Gotebord, Napoli, Genova, fino al raduno di Porto Alegre dello scorso febbraio, la contestazione ha registrato momenti di evoluzione nelle tematiche e nelle forme di espressione. Anche l’aspirazione alla “globalizzazione dal basso”, esaltata in un primo momento come modello di democrazia diretta da adottare in tutte le espressioni della vita pubblica, è stata riformulata e adottata, almeno dai movimenti più maturi e riflessivi, come domanda di “democratizzazione e rafforzamento delle istituzioni sopranazionali che hanno la responsabilità di gestire il bene comune globale, di ridurre il disordine mondiale, garantire il rispetto delle regole democratiche della convivenza, promuovere e difendere i diritti umani di tutti.”

Le forze democratiche europee si trovano ora di fronte a un fatto incontrovertibile. I movimenti della contestazione sono riusciti, da Seattle in poi, a superare lo stadio della protesta frammentata e a esprimere una forza d’urto che sta mettendo in crisi il modello verticistico di governo della mondializzazione. Si fa largo la considerazione che la “globalizzazione dal basso”, che non ha prospettiva come sistema di governo, sia valida come istanza di partecipazione indirizzata a diminuire il “deficit democratico” delle istituzioni rappresentative.
Se “un mondo migliore è possibile”, come ancora la scorsa domenica scandivano i 100.000 della marcia di Assisi per la pace, esso non può che nascere dalla costruzione di un ordine mondiale fondato sulla collaborazione tra istituzioni sovranazionali impegnate a governare i grandi problemi di un mondo sempre più piccolo, perché senza confini. Kofi Annan ha detto: “Il mondo è piccolo, e se una farfalla agita le ali in Amazzonia, scoppia un uragano dall’altra parte del pianeta”
 


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