Uno spiritoso libero
simpaticamente alala'
Horatio Flaccus
“Avere la libertà di pensiero non basta alla mentalità moderna.
Gli sciocchi si sentono in obbligo di esercitarla. Gli archivi di
questa società ricca di “libero pensiero” offriranno deliziosi
sollazzi agli studiosi del futuro”
Nicolàs Gòmez Dàvila
Alle quotidiane insolenze cui si è soggetti per essere nati, senza
colpa, in questo luogo ed in quest’epoca si aggiunge, quando il
clima è favorevole alla proliferazione, la petulante arroganza dell’uomo
libero per assegnamento d’ufficio.

Il libero pensatore assoldato per nessun altro
scopo che proclamare e fare proclamare al mondo che egli è un uomo
libero e che, perciò, ha acquisito il diritto materiale di
martellarti i coglioni.
Il personaggio di cui voglio parlarvi è uno che di libertà di
spirito se ne intende come pochi.
Un frequentatore giovanile di quelle deliziose sezioncine d’essai
nella cui penombra ci si convinceva in mucchio, romanticamente, mano
nella mano e in fretta, d’essere degli intellettualoni eretici
mentre il capomanipolo teneva rapporti quotidiani sull’esistenza
delle mitiche cariatidi che, sottoterra, ondeggiando su enormi e
misteriosi pedalò, sostengono sulle spalle la Vera Cultura.
I Maestri del Pensiero Tradizionale e dello Spirito di Patate. Di
qua Evola e Guenon di là Mino Maccari e tutto il codazzo di
Spiritosi di Regime (però perennemente rivoluzionari:
conservatorrrrivoluzionari, per la precisione, perché, come diceva
Lui, motorizziamoci ché “chisifermaèperduto”) di cui il nostro
paese ha sempre fatto sfoggio; a chi non rideva, tanto, provvedevano
altri (i cattivelli…) con l’olio di ricino, mentre nei salottini
e nelle redazioni si produceva “coscienza critica”, satira a
tirichitò e barzellette a raffica.
Fu così che battaglioni coraggiosi di spiriti liberi traversarono
il ruscelletto della pipì del Duce ed approdarono, vittoriosi e
illesi, dall’altra parte. Giusto per figliare altri spiriti liberi
e passargli la consegna di tener duro con le barzellette, ché alla
fine qualche altro “Ghepensimì” sarebbe riapparso per
sganasciarsi dalle risate e pagare a tutti caffè e cornetti.
Il misirizzi apparve e lo spiritoso libero fu libero, da quel
momento, di tramortirci a furia di coups d’esprit. Il mio soggetto
costituisce, potrei dire, l’epitome di questa schiatta di
barzellettieri della Patria a scartamento ridotto, in cui la
volgarità si mescola alla saccenteria in una sbobba appiccicosa
condita con il sussiego narcisistico di una macchietta
dongiovansiciliota col retino sui capelli.
Naturalmente esercita il Mestiere (d’altra parte la gazzetteria è
oramai il più adeguato sbocco occupazionale per i taralli, per i
teppisti, e a maggior ragione per quelli che per particolare
benevolenza del destino sono ambedue le cose). Abbina con stile e
professionalità la farraginosa retorica dell’impiegato siculo che
discute di politica in pausa caffè, con la tradizionale propensione
alla frase alla vaccinara del federale romano quando c’era da
strappare l’applauso. Quella miscela, insomma, che produceva nel
suo maccaronico maestro di stile freddurone come questa: “Trascurabili
differenze. Di Mussolini ce n’è uno al mondo. Di Farinacci
svariati milioni”, con le quali, dietro il paravento della
pernacchietta irriverente, si mostrava di sapere perfettamente chi
incensare e a che prezzo.
O giochi di parole che solo a ripeterli l’unto ci contagia: “Date
“loro” alla Patria!”. E questo papì (tacchino in lingua di
Sicania) passa per articolo di lusso del giornalismo di razza
(italica).
Merita, del resto, il riconoscimento. Grazie alle superiori facoltà
di scelta consentitegli dal suo “spirito libero” ha saputo
puntare con tempismo perfetto sul cavallo politico vincente ed
accorrere immediatamente là dove si stava imbandendo il banchetto.
Adesso era giusto che passasse a riscuotere.
In lui tutta l’immondizia aforistico-giornalistica che ci ha
passato l’Eterno Governo sottoforma di sbobba per cervello fino,
la chiacchiera ridereccia da strapaese (che da sempre trova credito
in questa nazione in cui le flatulenze assurgono categoricamente al
rango di spiritosaggini e per le quali è di rigore sganasciarsi dal
ridere) trovavano un vessillifero di rango.
Naturalmente quest’articolo da salotto opina su ogni cosa. E su
tutto, imparzialmente, spara cazzate.
Un enciclopedismo del genere gli deriva, probabilmente, dall’aver
letto le note di copertina (e talvolta la prefazione) di molti
libri. Un’erudizione da quarta di copertina che gli consente di
usare, senza provare ripugnanza di se medesimo, espressioni come ”Abbandono
Heideggeriano” oppure “Paganesimo Evoliano”. Tutte cose che,
naturalmente, vogliono dire poco più di un cazzo, ma che fanno
molto brodo (e bello grasso) per chi è abituato a sorsare
direttamente dal piatto come la vecchia guardia delle adunate
oceaniche e la nuova del punto it, che sostituisce libro e moschetto
con telefonino a tracolla e segreteria telefonica.
E questo accaparratore di paraminchioneria superomista, aggiornata
all’altroieri con un frasario da arguto ciabattino e figlio della
lupa, è, naturalmente, un sostenitore, udite udite, del “me ne
frego” squadrista che, dice, “nella sua sublime ironia
costituisce una staffilata di moralità per gli italiani rammolliti,
l’ordine di fregarsene, innanzitutto di se stessi”. Alalà. Un
vero trombettiere.
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