Quel farabutto di Barney Panofsky
Horatio Flaccus
“Mai sottovalutare la crocerossina che si annida nelle carogne
come me”
Barney
Chi scrive è uno che s’era rotte le scatole di Barney Panofsky
già molto prima di leggerne le memorie. Gli e le aveva rotte Il
Foglio di Giuliano Ferrara.
Ora, rompere le scatole a qualcuno è inevitabile e, talvolta,
perfino encomiabile. Romperle conto terzi, invece, non è onorevole.
Sarebbe bello che almeno questa attività fosse praticata in
proprio, in modo tale che la vittima possa sapere sempre con
precisione chi è il rompiscatole e da quale parte deve pararsi il
colpo.
Questo, si dirà, riguarda Il Foglio, non Panofski e capisco
bene che, dati i tempi che corrono, non è il caso di mettersi a
discorrere delle regole del marchese di Queensberry. Tuttavia resta
il fatto che mi sono trovato nella spiacevole condizione di leggere
di Barney con la grave pregiudiziale di averne avuto piene le tasche
in via, per così dire, preventiva.
Bisogna dire, però, che l’amico prometteva bene. Quando il suo
autore fece la prima apparizione in Italia (Scegli il tuo nemico,
ed. e/o) il libro passò sotto silenzio. Congiura dei comunisti? Il
conformismo imperante? Non saprei. Era un libro noioso, mediocre ma
impegnatissimo a dire qualcosa “fuori del coro” sul milieu antimaccartista.
Una griffe come un'altra…ma allora, dalle nostre parti, si
sopravvalutavano, semmai, scrittori di terz’ordine per la ragione
esattamente opposta, perciò non se ne fece nulla.

Oggi, invece, l’atmosfera dello stivale è
cambiata e non c’è gazzettiere che non canti fuori del coro.
Così, quando il povero Richler ritornò in Italia sulla scia del
successo editoriale del suo ultimo libro, sceso dall’aereo trovò
ad accoglierlo una magnifica parata di accademici con la feluca di
sghimbescio che sputazzavano di lato e toccavano il culo alle
hostess. Deliziosamente incorrect.
Torniamo al nostro Barney. Gli perdoniamo volentieri di essere
patetico e sentimentale come neppure i safaristi e i toreri di
Hemingway seppero esserlo (“vivere veramente, non puramente
trascorrere i giorni” lui l’avrebbe trasformata in “vivere
veramente? E cos’altro vuol dire se non passare i miei giorni tra
una partita di hockey, una capatina alla mia bettola preferita, ed
una sbirciatina sotto le gonne della mia donna?” che è
esattamente la stessa cosa ma più incorrect, cioè ancora
più fasulla). Gli perdoniamo (ma più a malincuore) di non avere
assassinato nessuno di quegli imbecilli di cui si circondava (e in
particolare di non avere sgozzato la famosa “madre dei suoi figli”,
questa insopportabile icona della femminilità da rotocalco che lo
fa sdilinquire di romanticismo andato a male). Gli perdoniamo anche
quel disincanto da saputello di liceo che ti dà lezioni sulla vita
vera. Ma, a parte le menate insopportabili da piccolo spocchioso
vezzosetto, che non perde occasione di farti notare ogni tre righe
come egli sia imbattibile nello smercio all’ingrosso di
pensierismi da scettico blu (prodotto che al momento, sul mercato
nazionale, tira che è una bellezza) resta il fatto che Barney è
uno stronzo.
E questo non possiamo perdonarglielo.
Fino a che punto lo sia in proprio resta, si diceva, da stabilire.
Quanto, cioè, ci sia di bella materia prima e quanto, invece, ci
abbiano messo i suoi lettori (i belli, le belle, i bravi, le brave,
gli èoradifinirla, le nonciavetelepalle, i sacrosanteggianti,
quelli che ad ogni parola aggiungono tre minchie e un micacazzi
perché ora fa fino così, gli spiritosi liberi da fureria, i
chiosatori del menefrego, ecc).
Perché un libro, siamo giusti, può benissimo essere devastato dai
suoi lettori e non sempre gli si può addebitare in toto la
minchioneria di cui si fa portatore. Questo per essere bipartisan.
E’ dura, lo riconosco, essere portati in processione da questi
cascami del benpensantismo inamidato tirati su a clisteri di macallan
e a supposte di spirito di patate e rivoltati come il pastrano della
nonna per sembrare nuovi di zecca. Ma quando vedo che si prende sul
serio l’understatement di Barney io, un pochettino, m’incazzo.
Come si fa ad essere un modello di understatement quando, per
esserlo, bisognerebbe, innanzitutto, non darlo (non darsi) a vedere,
mentre Il Barney che piace a questi loggionisti, invece, ammicca ad
ogni battuta. Questo è il caso magico e meraviglioso di un
manualista dell’understatement che, a chiacchiere, ci
ammaestra e, nei fatti, deambula come un automa ingessato nelle sue
battute, battutine e battutone il cui prezzo è furbescamente
rincarato, per arrotondamento, con la scusa del cambio di moneta.
Fasullo (incorrect, appunto) in questo come nella cattiveria
Barney è sicuramente un povero diavolo, ma, porca miseria, non
cessa per questo di essere uno stronzo. Anzi, una stronza. Al
femminile. Con tutte le caratteristiche del “femminile” da
ipermercato che a lei piacerebbe tanto prendere per il culo: la
petulante propensione a parlarsi addosso, la maledetta invidia verso
il sex-appeal delle altre stronze (“certo, sono siliconate!”), l’arroganza
travestita da umiltà con cui l’insulsaggine è spacciata da
condotta di vita anticonformista, che fa tanto “simpatica canaglia”
(“io anticonformistaaa?! Figuriamoci, sono conformista per natura…”,
“io intelligenteee?! Figuriamoci, a scuola dormicchiavo nell’ultimo
banco..”, l’alter ego spiccicato del farabutto yuppie che si
allarga per piazzarsi, cambiano le espressioni e, forse, la tenuta
ma il concetto è il medesimo: io, io, io…tuuu?…Chi esser tuuu?
Sussiegoso come il brucaliffo).
Si arriva così a rimpiangere persino Bukowski che, come scrittore
non era neanche tanto meglio, ma almeno era un alcolista autentico e
bisognava recuperarlo all’alba tra i cassonetti né c’era verso
di fargli un intervista se non a proprio rischio e pericolo.
Invece Barney con tutta la sua prostata e la sua vescica, con il
catarro e l’enfisema finisce sempre per ordinare oefs-au-plat,
brioche e cafè au lait e risulta fasullo (incorrect)
come Berlusconi quando parla del “Popolo” e lo scambia con
quelli che fanno le comparsate all’Usa day e a Stranamore. Così,
se all’orizzonte si profilano corna e la sua fiancèe
mostra l’intenzione di farsi trombare da un altro egli non è un
povero cornuto potenziale qualsiasi. Nonzi. E’ “disperatamente de
trop”. E, a Parigi, non mangia pane (bread). Nonzi.
Bensì, naturalmente, une baguette. Barney Panofsky, insomma,
è, per chi non l’avesse capito, uno dell’ambiente, come Barney
Richler e come Mordecai Panofsky.
E va bene. Ma, attenzione, uno dell’ambiente, capace di mordente
ironia, capperi, nei confronti dell’ambiente stesso e, ancora
attenzione, anche di sé medesimo. Sardonico, disincantato quanto si
vuole ma autoironico anche verso il sé medesimo di prima: oh,
quanto!
Ciò è comprovato da Mordecai Panofsky alias Barney Richler,
scrittore per il suo e per l’altrui diletto, quando si
autodefinisce “Piazzista di libri”(adelphiana, maggio 2001). Se
infatti c’è da fare dell’ironia sulla vacua mondanità degli
scribi, Il simpaticone va e fa. Vero è che anche lui frequenta i
salotti e si stravacca sul divano a bere long drink e ad
abbuffarsi di tartine, però lo fa con occhio disincantato e
ironico. Quindi tutto a posto. Così l’amico, che naturalmente
(porco cane, questo si che è snobismo!) “detesta le autobiografie
delle star” perché finiscono sempre per raccontarci cosa si sono
messe e chi gli ha fatto i capelli, non esita a frantumarci gli
zebedei dalla prima all’ultima pagina (in ogni suo scritto, grande
e piccolo) con i whisky che ha consumato dalle tredici alle
ventidue, le emorroidi che gli prudono e le spiritosaggini che pensa
quando va a pisciare.
C’è da ironizzare sul fatto che lo scriba medio è diventato un
piazzista di libri e va in giro per librerie a mettere firme perché
i volumi firmati non sono più restituibili all’editore e quindi
fanno grana? Senza meno. Non che a questo spiritosone passi neppure
per l’anticamera del cervello di mandare a farsi fottere firma e
editore e smetterla, lui per primo, di fare il piazzista; così,
tanto per cominciare.
No.
Imperterrito continua a firmare ad oltranza (la baguette, si
sa, è la baguette e probabilmente anche lui, pur essendo un
libero pensatore, tiene famiglia) ma fa lo spiritoso, ci ironizza
sopra. E ironizzando, detto tra parentesi, piazza la sua merce al
meglio.
Lo intervistano in televisione, alla radio, sui giornali?
Un tale sgasatissimo viveur non sapeva cos’è un talk show?
Certo che lo sapeva.
Ma finché occorreva affermarsi per benino egli, pur sapendolo,
correva e si presentava subito. Senza perdere un colpo. Oggi, che da
tanto tempo “bazzica l’ambiente” (e si è fatto i
quattrini e un nome) non fa più di tali “errori grossolani”,
non va più ai talk show. Preferisce ironizzarci sopra. Tutto, come
si dice, a tempo e a luogo.
Alle cene con la giornalista del Globe and Mail, però, si
presenta immediatamente, senza che gli e lo conducano sotto scorta e
con le pistole alla tempia. Ma ironizza lo stesso perché la
stupidina (oh! oh! oh!…) gli chiede quanto è alto e quanto è
alta sua moglie.
Così trotterella come il povero asinello da un vernissage ad
una conferenza a pagamento e nessuno, ma proprio nessuno (cribbio!),
ha pietà di lui: “Altre interviste alla radio, in Tv, seguite
da una lettura serale nell’aula magna della Università di
Toronto”. Fino a che, mentre com’è ovvio, “è lì che
firma copie” s’avanza una signorina e gli fa “Ho letto il
suo ultimo romanzo. Mi ci sono voluti due anni. Che palle”.
Non è meraviglioso?
E’ per questo, secondo me, che in Italia Barney ha spopolato. Egli
rappresenta, con un filino di rimmel rinfrescante, la nouvelle
vague del nouveau intellectual, il caballo vincente in
questa Italia di caballeros, quello che ti guarda ammiccando e fa
“Minchia stanotte ho cuccato una che voleva essere raccomandata a
un tale che neppure conoscevo, alla fine l’ha scoperto, ma prima
me lo sono trombata per bene. Un po’ mi dispiace..però che
ridere!”.. E via maramaldeggiando. Al culo il moralismo, ché non
se ne può più di questo bacchettonismo di sinistra (vedi alla
voce: “minchia! Che scassamento di vertule!”). Che ridere.
E, certo, si ride tantissimo. Una pernacchia e via, all’italiana.
Con tantissima autoironia (incorrect, fasulla). Evviva
Alberto Sordi. Insomma, tocchiamo il culo alla serva, ma poi
ricordiamolo con tenerezza…la nostra gioventù…l’uomo vissuto
fuori degli schemi…fuori dagli schieramenti…l’esprit libre
fragile e feroce…vivendo senza ipocrisie in questo mondo atroce e
meraviglioso…fallito magari, però ricco, perché nulla è solo
bianco o solo nero (come dice chi spaccia grigio all’ingrosso)…ecc.
Barney insomma è un dannunziano che è stato sull’albero a
maturare per tanto tempo che alla fine è caduto dal ramo e s’è
spappolato. L’altra faccia (fatte, ovviamente, le debite
proporzioni) del signor Vittorio Sgarbi. Tutt’e due insieme
costituiscono il profilo del vate. Sgarbi però è l’alcova del
Vittoriale prima che ci si sia steso Giuliano Ferrara per la
pennichella post-prandiale, Richler dopo. Barney Panofsky è l’arcitaliota
révolté, quello che richiede il mercato. Perciò non mi
sembra per niente paradossale, come invece pare al signor Codignola
(adelphiana, luglio 2001), né “che il direttore di un quotidiano
nazionale imponga ai suoi redattori di seguire la tournée di quest’autore”
né che “un intero paese scopra all’improvviso come una novità
assoluta e sventoli come una bandiera antagonista quella “scorrettezza”
di cui è fisiologicamente, istituzionalmente, irrimediabilmente
impregnato”. Direi piuttosto che l’arcitaliota ha trovato in
Barney ciò che ha voluto cercarvi, ciò che, dati i tempi, aveva
assoluto bisogno di consumare. Incorrect. Che c’è di più incorrect
dei media? “Il caso mediatico più singolare degli ultimi anni”
(come scrive ancora Codignola)? Non so, certo un caso “mediatico”
lo è stato. E cos’altro poteva essere? Sveglia! Siamo in Italia,
perbacco. E l’Italia s’è desta.
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