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Esiste un’identità teatrale europea?



Matteo Bavera con Antonia Anania



Metti una T in mezzo, e al posto dell’Ue c’è l’UTE. Esiste dal 1990 e la sigla sta per Unione dei Teatri d’Europa. L’ha fortissimamente voluta Giorgio Strehler. Per realizzare un’unione europea della cultura e del teatro e intrecciare collaborazioni al di là dei confini geografici, delle incomprensioni linguistiche, nel rispetto delle differenze culturali. C’è riuscito. Malgrado le tante difficoltà.

E oggi i “Teatri Uniti d’Europa” sono diciannove. Dal Teatro de La Abadia di Madrid al MalyTeatr di San Pietroburgo, dal Teatro Nazionale della Finlandia di Helsinki, all’Odeon di Parigi. Oltre agli associati a titolo personale, come il direttore artistico dello Schauspiels Zürich, Cristoph Marthaler, o il famoso regista e drammaturgo svedese Ingmar Bergman.

A Palermo invece sta il Teatro dell’Unione più a Sud di tutti. E’ il Garibaldi, rinato nel 1996 dopo trent’anni, grazie alla volontà e all’impegno di Matteo Bavera che l’ha diretto con Carlo Cecchi fino a qualche mese fa, quando quest’ultimo è andato via: “Per sua scelta -precisa il maestro Bavera- non perché qualcuno l’abbia mandato”.

E proprio con Matteo Bavera, ora direttore unico del Garibaldi, Caffè Europa parla dei cantieri teatrali europei, nella settimana -quella dell’otto maggio- in cui viene presentato alla stampa e al pubblico palermitano il videocatalogo del 10º Festival Itinerante dell’UTE che si è tenuto lo scorso autunno nel teatro siciliano.

Che cosa può offrire un teatro del Sud all’UTE?

Quello che dice Georges Lavaudant il direttore dell’Odéon di Parigi: “Il teatro più bello del mondo”.

A che cosa si riferisce Lavaudant: alla bellezza architettonica o alla bravura e creatività delle menti che ci lavorano?

A tutte e due le cose. Innanzi tutto al luogo. Il Teatro fu costruito nel 1862 e inaugurato dallo stesso Garibaldi, nell’epoca in cui si omaggiava un eroe costruendogli teatri. E la Sicilia tra il 1860 e il 1862 è disseminata di teatri Garibaldi; quello di Palermo, era il più grande di tutti, visto che si trovava nella “capitale”. A un certo punto però, verso la fine degli Anni Cinquanta, come spesso accade anche ai teatri, finisce di vivere. Il figlio di Angelo Musco, Angelo Musco Junior, se lo assume, lo ristruttura e lo riapre per un anno e mezzo, tra il 1966 e il 1967, quando vi recita Carmelo Bene con Un Amleto di meno.

Dopodichè il teatro viene abbandonato di nuovo e i palermitani rubano tutte le parti di legno, anche i palchi, per farci i fuochi della festa di San Giuseppe, un’operazione scenografica meravigliosa a pensarci bene. Le intemperie poi fanno la loro parte di scenografi e distruggono quasi tutto. Quando ho visto il Garibaldi per la prima volta, da un lato, essendo molto legato a Carmelo Bene, ho riconosciuto che ci fosse il suo fantasma, e poi mi sono detto: “Questo è uno spazio insolito, contemporaneamente all’aperto e al chiuso: bisogna ripristinarlo”. Ho dichiarato al comune di Palermo che avevo un progetto con Carlo Cecchi il quale all’inizio non ne sapeva niente. Poi ho invitato Carlo a vedere il posto e abbiamo cominciato a lavorare insieme al Garibaldi. Dal 96 in poi.

E l’UTE che cosa dà a questo teatro del Sud?

Una proiezione europea. Lo immette dentro il suo mondo. Il Teatro Garibaldi alla Kalsa è il terzo teatro italiano dell’UTE, il primo è il Piccolo, il teatro del fondatore dell’Unione, Giorgio Strehler e che ora è diretto da Sergio Escobar e Luca Ronconi. Poi c’è il teatro di Roma, alla cui direzione è arrivato da poco Giorgio Albertazzi. Infine, visto che bisogna scendere un po’, geograficamente, si arriva a Palermo al nostro Teatro, completamente diverso dagli altri e per questo molto amato.

Può spiegare a chi non l’ha mai visto o non ne conosce le produzioni, in che cosa consiste la differenza?

E’ un teatro illuminato dalla luce del sole, che non ha palcoscenico né sipari. E’ uno spazio aperto, in continua reinvenzione. A livello produttivo, invece, non facciamo le stagioni tradizionali ma dei progetti, che durano il tempo in cui il teatro può essere aperto, l’estate, da maggio a settembre. Così chiamiamo degli artisti che lavorano qui fino alla fine di settembre. Prima c’era Carlo Cecchi, ora ci sono due giovani registi, Claudio Collovà e Antonio Latella. Claudio Collovà farà Zafer, tratto da Todo modo di Leonardo Sciascia. Antonio Latella invece metterà in scena una trilogia di Jean Genet che comprende Querelle, Les Negres e Haute surveillance e rappresenterà l’Italia all’11º Festival dei Teatri d’Europa il prossimo autunno, a Villeurbanne in Francia. Lì, accanto a Latella ci saranno Vassiliev e Bergman e altri grandi. E siamo fieri di andarci con un giovane, anzi hanno accettato noi proprio perché abbiamo proposto qualcuno che rappresentasse le nuove generazioni.

Esiste già un’identità teatrale europea, secondo lei?

Sì. Tanto per cominciare, l’Unione dei Teatri d’Europa per certi versi è più avanti dell’Unione Europea stessa, perché ha già annesso i teatri di Paesi dell’Est che non stanno nell’UE, o dell’Inghilterra che né sta nell’UE, né ha adottato l’euro. E questo perché il teatro lituano Meno Fortas di Nekrosius o il teatro di San Pietroburgo diretto da Dodin, il Katona che sta in Ungheria hanno talenti straordinari. Anticipiamo gli altri, grazie al sogno di Strehler. E diamo vita a una Europa teatrale unita nelle diversità, in cui si va a vedere quello che succede, quali sono le idee drammaturgiche, i talenti dei vari teatri, ci si incontra e si decide come e su che cosa lavorare insieme. Tutto questo non ci sarebbe stato senza Strehler; era il suo sogno, era il sogno di non essere solo.

Ha un ricordo di Strehler?

Quando a diciassette anni, ho visto L’opera da tre soldi diretta da lui e scritta da Bertolt Brecht, ho deciso di fare teatro. Purtroppo non ho avuto modo di conoscerlo anche se andavo spesso al Piccolo a spiare dietro le quinte. E quando anni dopo, mi hanno dato un premio Ubu proprio su quel palcoscenico che osservavo da lontano, fu inquietante sentire di essere passato dalla posizione di curioso che se ne stava dietro le quinte a quella di premiato che sta davanti alla platea.

Molti teatri italiani collaborano con Nekrosius, Vassiliev, Dodin: la rivoluzione del teatro contemporaneo sta venendo dall’Est?

Secondo me, la rivoluzione sta nello stare insieme, nell’incontrarsi e fare progetti. Nekrosius, Vassiliev, Dodin stanno qui perché gli italiani hanno fatto dei progetti con loro, altri collaborano con noi o con il teatro di Madrid o di Helsinki o di Stratford Upon Avon. Visto che abbiamo in tasca l’euro perché non possiamo pensare che siamo veramente una nazione e muoverci di più? Perché non possiamo pensare che gli ungheresi o i rumeni sono nostri fratelli e se hanno un buon teatro, possono passare da noi e fare delle cose nei nostri teatri?

L’ultima assemblea dell’UTE si è tenuta a Roma, lo scorso 14 Aprile. Avete deciso qualcosa che può interessare noi spettatori di teatro?

Nell’ultima assemblea era in discussione la permanenza nell’Unione di due teatri italiani, il Garibaldi e il Teatro di Roma, perché ogni volta che cambia la direzione artistica si deve discutere se far rimanere o no quei teatri. Noi abbiamo esposto la nostra relazione, il teatro di Roma la sua, e tutti hanno accettato che rimanessimo entrambi nell’Unione.

Quando vi incontrate in assemblea, quale difetto del teatro italiano le capita di notare? Che cosa manca al teatro italiano che può essere compensato dagli altri?

Il difetto dei teatri italiani è che cambiano direttore tutti gli anni. Gli altri quasi mai. Diciamo pure che la mobilità che i politici vorrebbero nella classe operaia, in questo momento sta nella classe teatrale. Inoltre manca il rispetto: in tutto il mondo, la cultura è rispettata anche come fatto economico, che dà guadagno. In Italia invece quando da ragazzo mi chiedevano che cosa facessi e rispondevo che facevo teatro, mi ribattevano: “E per campare che cosa fai?”. Bisogna che il teatro italiano come il cinema, riconquisti la condizione di essere un veicolo economico specialmente per il Sud. Non solo. I teatri italiani comunicano poco tra loro, spesso sono autarchici, delle case chiuse, a sé. Non possiamo negarlo. Così mentre all’Odeon, a Tessalonica, a Villeurbanne, sono pronti ad accoglierci, qua è più difficile. Quando c’era Mario Martone alla direzione dell’Argentina, abbiamo superato questa chiusura e il teatro Garibaldi ha aperto la prima stagione dell’India, lo spazio alternativo all’Argentina. Nell’ultima assemblea Albertazzi non si è mostrato contrario a questo tipo di comunicazione: lui che dice di essere di destra, è un uomo di teatro, il che supera l’essere di destra o di sinistra, perché il teatro è una specie di zona franca. Non è il territorio della politica, dunque possiamo parlarci.

Secondo lei, perché ci sono poche direttrici artistiche in Europa?

Non penso che questo sia un problema. Tutte le mie collaboratrici sono “femmine”, perché mi trovo molto bene con le donne. Palermo da questo punto di vista è rivoluzionaria, piena di donne che si occupano di teatro. E tra l’altro il progetto di questa estate verrà aperto da una coreografia dedicata alle donne di una danzatrice francese, Catherine Diverres, l’uno e il due giugno.

Se qualcuno dice di vivere e lavorare al Sud, i più gli danno del coraggioso. E’ così anche quando qualcuno dice che al Sud fa teatro?

Fare teatro al Sud è molto difficile però il Sud ha un enorme potere d’attrazione, tanto che non ho mai avuto difficoltà a far venire un artista a Palermo. Questa città è come una bellissima donna, totalmente seducente che una volta decide di lasciare l’amante e di amarne un altro, un’altra di fidanzarsi, un’altra, più spesso, di fare la libertina. E tutti sono innamorati di lei. Quello che dobbiamo fare è coltivare questo potere d’attrazione.

L’8 e il 9 maggio avete presentato alla stampa e al pubblico, il videocatalogo del 10º Festival dell’UTE: può raccontarlo a chi non avrà modo di vederlo?

Si fanno sempre i cataloghi dei festival, per una volta abbiamo voluto fare un videocatalogo: alcuni registi hanno ripreso gli spettacoli, intervistato i registi, montato i pezzi. Il risultato è davvero notevole, in particolare tre interviste: quella a Lev Dodin (Maly Teatr di San Pietroburgo) che ha spiegato il Gabbiano di Anton Cechov come testo che parla degli attori, degli autori, del teatro; a Krystian Lupa (Stary Teatr di Cracovia) che ha parlato degli zombie del teatro, ossia dei Fratelli Karamazov di Fedor Dostoevskij che sono stati risuscitati una seconda volta dalla sua compagnia, dopo quindici anni. E l’intervista a Mario Martone (Teatro di Roma) che era presente al Festival con I dieci comandamenti di Raffaele Viviani e che ha raccontato la dialettica che c’è tra l’identità del Sud, di Napoli e quindi anche di Palermo, e l’Europa e quindi anche la globalità. Chi è napoletano o siciliano sta ai confini dell’Europa ma ne fa parte integrante, è internazionale. Allo stesso tempo non deve mai perdere la propria identità solo perché ha in tasca l’euro.

 


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