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La fiction di qualità chiede spazio



Chiara Rizzo




In un paese in cui si organizzano Galà della Pubblicità in prima serata e l’assegnazione dei Telegatti assomiglia sempre più a una copia deforme della notte degli Oscar, la televisione è oggi più che mai una promessa mancata. Un mezzo “deficiente”, nel senso etimologico del termine, perché manca naturaliter, cancellandole, delle differenze: siamo tutti santi, tutti poliziotti, tutti commesse. L’idiot box di Gilder omogeneizza in nome del relax secondo la logica del minimo comun denominatore, relegandoci, sempre più inerti, nella melassa di una seconda scelta superficiale. Sempre più passivi e rintronati, gli spettatori sono semplici numeri e diagrammi, picchi d’ascolto da vendere agli inserzionisti come enormi vivai di potenziali consumatori.

Se questo non vi basta, il tubo catodico italiano è d’altro canto da sempre territorio sistematico di occupazione politica, rivendicato e dilaniato da una forma mostruosa di “democrazia” chiamata lottizzazione. O almeno, così era. Oggi, se possibile, le cose peggiorano. Le perversioni del duopolio si perdono nell’onnipotenza di un Presidente del Consiglio già padrone del polo privato e ora in grado, in virtù del suo ruolo istituzionale, di controllare (neanche troppo discretamente) anche quello pubblico. Il panorama comunicativo italiano è un nuovo Golem, in cui le linee editoriali dovranno sottostare, chissà per quanto, ad una volontà unica.

Come in tutte le crisi, le fonti ufficiali cercano un capro espiatorio su cui scaricare ogni responsabilità e, nel caso della tv, questo ruolo spetta da sempre agli autori: “se le cose vanno male", si dice, è perché non ci sono idee”. Ma per la fiction di qualità, forse al contrario una delle avanguardie del nostro orizzonte mediatico, è arrivato il momento di ribellarsi, e lo ha fatto, con forza e intelligenza, nel corso del convegno La fiction di qualità chiede spazio, organizzato da Reset (che su questo tema ha pubblicato un dossier - www.reset.it - coordinato da Paola Casella, caporedattore di Caffè Europa) e moderato da Giancarlo Bosetti, direttore di Reset e Caffè Europa. Il convegno si è tenuto l’8 maggio al DAMS dell’Università di Roma Tre: un contributo intellettuale significativo, un tentativo di analisi obiettiva della situazione e di ricerca di possibili soluzioni.

“Ci sono ancora buoni professionisti, ma non abbiamo più talenti. È un deficit generale che ha colpito la cultura italiana”, ha sostenuto Laura Toscano, autrice e sceneggiatrice di successo, in apertura dell’incontro, e la sua opinione ha trovato d’accordo un personaggio storico della Rai, Ettore Bernabei, che con grande lucidità ha ripreso il concetto etimologico di tv deficiente, nel senso di tv dove mancano parecchie cose, prima fra tutte appunto la cultura, persa a scapito dell’obbedienza, della logica dell’apprendistato e di una mediocre intelligenza.

Un errore madornale: il momento dell’ideazione, ha ripreso la Toscano, richiede una grande sensibilità e preparazione. La semplificazione del linguaggio, compito chiave dello sceneggiatore per rispondere alle esigenze di un pubblico meno attento, è un processo alto ed elaborato, perché vuol dire costruire un racconto che sia in grado di trasmettere un messaggio specifico e accattivante per ognuna delle innumerevoli fasce di telespettatori. Chi scrive ha la grande responsabilità morale di filtrare la realtà e gli umori della società circostante, descrivendoli onestamente, raccontando noi stessi, rispettando un vero e proprio dovere di comunicazione.

La fiction ha aiutato il pubblico a crescere, ora deve soddisfarlo con coraggio, dimostrandosi all’altezza delle aspettative. I rischi sono tanti: primo fra tutti quello della ripetitività, che ha certo una sua tenuta e una sua tradizione, ma rischia di trasformarsi in una clonazione che distrugge il prototipo perché ne è sempre una bruttissima copia. È un pericolo soprattutto per i giovani, spesso indotti, per inserirsi nel sistema, a seguire un meccanismo che finisce per ingabbiarli nella frustrazione di non riuscire a creare contenuti originali: forza e autonomia risultano controproducenti in questa logica industriale da catena di montaggio. Probabilmente anche, e soprattutto, la committenza dovrebbe dimostrarsi più coraggiosa, ma non ha alcun interesse a farlo: l’Auditel domina e cancella tutto, diventa padrone assoluto delle idee dello sceneggiatore-esecutore e distrugge ogni sperimentazione.

Proprio su quest’ultimo punto ha insistito Francesco Scardamaglia, sceneggiatore, produttore e presidente della SACT (Scrittori Associati di Cinema e Televisione): “Il nostro paese vive un deleterio deficit di libertà nel settore culturale. Produttori e sceneggiatori sono obbligati a cedere permanentemente i diritti del proprio lavoro alle aziende, diventando meri appaltatori. La nostra è un’industria a sovranità limitata, in cui la linea editoriale viene dal network, e il mercato è solo teorico, non esistono reali opportunità di investimento.” Il panorama mediatico si trasforma dunque, strutturalmente, per una stratificazione storica, in un “castello delle lamentele incrociate”, in cui i vari soggetti non sono nient’altro che vittime del sistema.

“La nostra è una tv dei mass media, in cui ciò che funziona corrisponde a linee editoriali non sempre alte, che nulla hanno a che vedere con l’arte e la poesia, anche se l’arte e la poesia dovrebbero costituire i valori di riferimento della cultura”, ha rincalzato lo scrittore e regista Italo Moscati. “La fatica più grande la dobbiamo fare noi, abbandonando definitivamente la logica della commercializzazione e del dirigismo”, anche se non tutti sono della stessa opinione: per Franco Monteleone, ex dirigente Rai e oggi docente di Storia della Radio e della Televisione, l’idea berlusconiana che Mediaset, in quanto polo commerciale, diventi in futuro il core business del sistema televisivo e si goda i grandi ascolti, mentre la Rai passi a rivestire il ruolo di nicchia di qualità, non è poi così malvagia. Una convinzione sincera ma pericolosa: la corrispondenza tra bassi ascolti e alta qualità non sarà forse anche l’alibi di chi spera, per il proprio tornaconto, di mettere da parte una volta per tutte il servizio pubblico?

D’accordo con la linea generale del convegno anche Massimo Ghini, protagonista del recente successo targato Rai Giovanni XXIII, e presidente del Sindacato Attori Italiani: “La vera censura è il prime time, che limita già in fase di scrittura.” Ma la sua è una visione un po’ più ottimista, che riconosce, da attore, la democrazia di fondo della tv, in grado di risollevare la carriera di un interprete, “facendolo arrivare” al pubblico con immediatezza dirompente. Bisogna creare un canale di comunicazione tra cinema e televisione, continua Ghini, lo stesso termine “fiction” è omologante: perché non parlare invece di “film per la tv”? E' possibile nobilitare la comunicazione, è possibile sognare anche in maniera epica, senza abbandonarsi per forza alle immagini attuali edulcorate e insignificanti. Le cose si possono migliorare, l’emozione non è morta. Chi vuol tentare, alzi la mano.

 


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