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No, Berlusconi, i giornali no
Giancarlo Bosetti
L’opposizione
in Italia fa bene a parlare di informazione, di libertà e
pluralismo, e fa bene a celebrare giornate di mobilitazione politica
sul tema, perché chi non ammette la esistenza del problema, avendo
superato l’esame di quinta elementare, è un penoso Pinocchio con
un naso di legno lungo come una sequoia millenaria. Che l’iniziativa
cada mentre sembrano entrare in movimento gli equilibri della
proprietà del Corriere della Sera dovrebbe convincere anche i non
addetti alle vicende dell’editoria a dare uno sguardo a quel che
si muove.
Il noto conflitto di interesse che “affligge”, tra virgolette, e
beneficia, senza virgolette, il presidente del consiglio riguarda
per l’appunto la informazione perché coinvolge le televisioni
private e pubbliche, la maggiore casa editrice italiana, un discreto
numero di periodici, un paio di quotidiani, il controllo del mercato
della pubblicità. Quando si dice che i leader dell’opposizione
fanno male a toccare questo tasto perché l’argomento è abusato,
consumato, non fa più abbastanza presa, non facilita la
aggregazione di una alternativa etc. etc. si sbaglia. Quelle
obiezioni sono fuori tema. E non vale neanche quel genere di replica
che alcuni fanno all’opposizione: non avete saputo risolvere il
problema quando eravate al governo, non avete cambiato il metodo di
nomina alla Rai e così via.
Queste obiezioni riguardano certamente gli uomini che guidano le
formazioni del centrosinistra, i loro errori, i loro programmi
vecchi e nuovi, e molti formidabili dibattiti che su questo si
potrebbero fare, e si faranno, ma non toccano minimamente la
sostanza della questione: l’Italia ha tendenzialmente fuori posto
alcuni parametri del pluralismo, della pluralità di soggetti, di
attori che concorrono a formare la vita civile, e su questa vita
civile una opinione pubblica, e su questa opinione pubblica una
rappresentanza politica che prende le decisioni di pertinenza della
politica. E questo non va bene, in tutti i casi. E’ un guasto che
sarebbe bene riparare. Bene per tutti, a destra, a sinistra, al
centro.
Per capire di quale pericolo si tratti bisogna pensare al rischio di
una opinione pubblica monocromatica meno alla maniera di George
Orwell e più a quella di Aldous Huxley. Nel mondo immaginato dal
primo, quello del Grande fratello, la libertà e’ soppressa
da un potere totalitario che usa la tecnologia per comandare e per
controllare ogni movimento della popolazione ridotta in schiavitù.
Nel mondo immaginato dal secondo, il Brave New World, i
cittadini si nutrono con entusiasmo del cibo e delle parole create
per addomesticarli e non sanno più neanche sospettare che ci sia
una alternativa a quel mondo tecnologico di un solo colore.
Da questo genere di incubi, che non descrivono certo la nostra
condizione di oggi, ma, per così dire, la direzione del vizio verso
il quale si manifestano talora nostre inclinazioni, i paesi più
robusti nel mondo, sia per il loro Pil che per i loro sistemi
democratici (al quale novero l’Italia appartiene a pieno titolo),
si difendono in vario modo. La difesa più sicura - è quasi una
scoperta scientifica che dobbiamo a un grande del secolo scorso, a
nome Joseph Schumpeter - ce l’abbiamo in una caratteristica
formidabile della democrazie, da cui le democrazie rappresentative
nascono e di cui si alimentano: la competizione tra le élites
politiche ed economiche.
E’ un brevetto insostituibile di cui le democrazie hanno il
copyright: le élites configgono tra loro, si accapigliano per gli
affari e per le decisioni pubbliche, naturalmente senza spargimento
di sangue (in quel caso non è più democrazia, ma savana), i poteri
economici configgono su qualunque cosa, chi fa gli ospedali e gli
aeroporti, quale tasso di sconto, alzare o abbassare le tariffe, i
salari, quante e quali strade costruire; e le classi dirigenti della
politica parimenti configgono intrecciando il conflitto politico con
quello economico. Quanto agli elettori - che, come si sa, in
democrazia sono molto importanti - non possono certo sostituirsi ai
poteri economici, né possono prendere in blocco il posto dei
dirigenti politici, ma possono, più realisticamente, decidere nelle
urne quali premiare e quali congedare. La premessa perché il voto
conti è che ci siano alternative in contrasto tra le quali
scegliere.
Ecco, il parametro tendenzialmente fuori posto in Italia è quello
della riduzione del tasso di conflitto tra le élites. Il conflitto
di interesse berlusconiano - questo è un vero paradosso verbale -
è insidioso perché riduce la conflittualità tra le èlites. E lo
riduce anche perché il controllo dei settori della informazione e
della comunicazione ha un peso crescente nei confronti di tutto il
resto dell’industria e dei servizi, e diventa un fattore
ammorbante quando si somma al potere politico.
Ma riduzione del tasso di conflitto non significa che il conflitto
non ci sia più o che non possa tornare, fortunatamente, a esplodere
in forme vigorose. Ecco perché è probabile che alle polemiche in
corso sul sistema televisivo se ne stiano per aggiungere di nuove
relative ai giornali. Ogni minimo spostamento di equilibri nella
proprietà del Corriere della Sera viene seguita con l’attenzione
che merita una testata, ed una azienda editoriale (Rcs e’ la
seconda dopo la prima, la Mondadori, di Berlusconi), che
rappresenta, come del resto Mediobanca, il crocicchio dove si
confezionano equilibri destinati a durare per un po’.
In edicola ci sono forti giornali che stanno con la maggioranza,
forti giornali che stanno con l’opposizione, e forti giornali che
stano in mezzo. Il che significa che il panorama della carta
stampata italiana assomiglia al paesaggio variegato che si addice a
una democrazia più del panorama televisivo (qui forti cose di
opposizione non ce n’è) , pur senza essere certo tra i più
esaltanti al mondo. Un risultato non disprezzabile, se consideriamo
le tradizionali, croniche, insuperabili debolezze della stampa
italiana, interamente posseduta e controllata da imprese e
imprenditori che hanno interessi prevalenti non editoriali, “impropri”.
Ora non vorremmo che i mutamenti in corso, anche se dovuti a ragioni
strettamente imprenditoriali, e se mai andranno in porto, avessero
come conseguenza un “allineamento”, un incremento del tasso di
fedeltà governativa, o mettiamo la scomparsa degli editoriali di
Giovanni Sartori sul conflitto di interesse o la discesa e l’ascesa
di questa o quell’altra firma sulla base di gradimenti “impropri”
espressi, o anche soltanto “pensati”, da un ministro.
Si capisce perché i giornalisti del Corriere, e tutti gli altri con
loro, si preoccupino di tenere aperti gli spazi della loro azione e
non abbiano voglia di fare la fine di uno qualsiasi dei sette canali
della tv italiana di oggi. E perché la Federazione della Stampa,
attraverso il suo presidente, Paolo Serventi Longhi, giudichi “drammatico”
il momento per il Corriere della Sera. In attesa che energie
prorompenti e bellicose si manifestino da parte di una élite
economica capace di combinare la buona gestione imprenditoriale con
l’amore per la varietà delle opzioni politiche, a noi giornalisti
conviene accettare i consigli di una vecchia conoscenza della
categoria, Paolo Murialdi, (che ai giornali italiani, dopo avervi
avuto parte rilevante, ha dedicato dei bei libri di storia). Li ha
dati ieri, i consigli, in una intervista sull’Unità: “Giornalisti
svegliatevi”.
Che cosa vuol dire? Soprattutto una cosa: “Difendete la
indipendenza che c’è e che si può esercitare”. In altre
parole: non abbiate, non abbiamo paura di dispiacere prima ancora di
essere dispiaciuti a qualcuno. La storia della stampa italiana è
storia di pressioni, condizionamenti, interessi esterni. Vissuti,
per carità, con il necessario realismo, imposto dai miserevoli
livelli di vendita italiani. Eppure in edicola (e sul web) un po’
di dignitosa scelta c’è, no? Dunque, tiriamo sempre la corda
dalla parte dei lettori. Loro se ne accorgeranno, che è quel che
conta.
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