I lettori scrivono
Da: lelsemer@tin.it
A: <caffeeuropa@caffeeuropa.it>
Data: Giovedì, 18 aprile 2002 9:22
Oggetto: Gioco e lavoro
Parigi, 16 aprile 2002
Gentile redazione di "Caffeeuropa",
mi piacerebbe conoscere la Vostra opinione riguardo l'articolo di
Massimo Riva apparso su La Repubblica il 15 aprile 2002 intitolato
sulla prima pagina "Quel diritto da difendere" e che
iniziava con la frase "Il lavoro è una merce" e che in
seguito dimostrava che il lavoratore ha più diritti di una merce.
C'è ancora bisogno, anche e nonostante il periodo politico che
attraversiamo, di scrivere queste ovvietà? Un giornale che si propone
antigovernativo non dovrebbe proporre prospettive diverse, antitetiche
alla logica capitalista?
Sono un ragazzo di ventitré anni e non ho ancora iniziato a lavorare.
Quindi potrei dire che gioco, intendendo lo studio come un gioco verso
la conoscenza, un gioco, a volte spaventoso, a qual è l'idea che gli
uomini hanno della realtà.
Mi piacerebbe giocare anche al gioco che tutto sia un gioco, ma non
sempre ci si riesce. Osservo le persone che lavorano e alcune sembrano
rassegnate a soffrire mentre altre si sentono felici perché
migliorate dalle proprie opere o sembrano che riescano anche a
giocarci con il proprio lavoro. In effetti, ragionando per astrazione,
i due termini sono equiparabili. Il lavoro impegna come anche i giochi
impegnano ma è nient'affatto allegro perché ha regole che si
subiscono passivamente e per la maggior parte delle persone è
d'importanza vitale. Come un gioco, il lavoro è una serie di azioni,
mentali e corporee, che si ripetono in modo simile e con una certa
frequenza. E' importante quindi quali siano queste azioni e quanto
pensiero ci si mette in queste azioni.
La differenza tra pulire una strada e scrivere un pezzo di giornale, a
differenza di quanto sostiene Riva, a me sembra non solo lampante ma
in ogni caso sempre pertinente perché reale. Forse non sono riuscito
ad entrare sul "piano della logica concettuale" a cui il
giornalista fa riferimento, ma l'azione di un operatore ecologico mi
sembra molto più reale del "giocare in Borsa", un gioco che
è molto più potente nel trasformare la vita degli uomini.
E di uomini bisogna parlare. Anche e soprattutto quando si parla di
lavoro e non della linea di demarcazione tra lavoratore e
merce-lavoro. Si potrebbe sostenere che l'uomo è il suo lavoro
perché questo è d'importanza sostanziale per l'identità e perché
è una lente grazie alle quale la società sanziona la rispettabilità
degli individui, ma anche queste sono costruzioni sociali che a volte
possono essere gabbie. Se mi sono azzardato a parlare di gioco come ho
fatto è perché a mio avviso un modo per migliorare la vita dell'uomo
è riconoscere la libertà di ciascuno, di ogni persona ad agire
contro le identificazioni concettuali, che vanno a vantaggio di chi
vorrebbe usare la parola libertà per disporre dei bisogni naturali
degli uomini.
Il gioco del datore di lavoro è un gioco serio ma non troppo, non è
vitale, è piuttosto strumentale: alla produzione o all'accumulazione
di capitale, etc. etc., insomma ad altri giochi. Se un imprenditore
volesse cambiare attività gli basterebbe investire il suo capitale da
un'altra parte. Per un lavoratore manuale è certamente più
difficile. E' costretto a giocare quel gioco ripetitivo, e per
contribuire a cambiare le regole del suo lavoro (fare politica) deve
ovviamente uscire dal quel gioco a cui è legata la sua sopravvivenza.
Un giornalista, sotto questa prospettiva, è molto più fortunato,
perché potrebbe cambiare in qualche modo le norme del suo mestiere
dal di dentro, scrivendo. Sono belli i giochi nei quali mentre ci si
gioca si migliorano le regole e i partecipanti, anche quel gioco
talmente serio dello sviluppo economico. Altrimenti è meglio la fine
di tutti i giochi.
Lelio Semeraro
Risponde la Redazione di Caffè Europa:
Gentile lettore,
Pubblichiamo la sua lettera perché solleva interrogativi interessanti
e soprattutto perché parla di un argomento poco trattato: la qualità
del lavoro, piuttosto che la sua reperibilità o la sua deregulation.
Una sola domanda: perché questa lettera è stata indirizzata a noi,
invece che a la Repubblica?
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