La nascita delle lingue romanze
Roberto Antonelli
Questo articolo è stato pubblicato sul numero 13 della rivista
trimestrale Iter,
uscito nel gennaio 2002.
L’atto di nascita ‘ufficiale’ delle lingue romanze viene
comunemente fissato all’anno 813 quando, al concilio di Tours,
promosso da Carlo Magno, si dichiara esplicitamente nella XVII
deliberazione che i vescovi debbono «tradurre (transferre) le
prediche in modo comprensibile, nella lingua romana rustica o nella
tedesca (in rusticam romanam linguam aut thiotiscam), affinché
tutti possano comprendere più facilmente quel che viene detto». Il
punto di partenza della decisione è la necessità che tutti debbano
comprendere le prediche, ovvero le direttive comportamentali
enunciate dal clero. Fin qui nulla di nuovo, apparentemente:
finalità principale di ogni lingua è quella di garantire la
comprensione reciproca, la comunicazione, fra tutti (o la massima
parte) gli appartenenti a una certa società.

All’interno di ogni comunità linguistica
possono presentarsi problemi di comunicazione, poiché nella nozione
stessa di ‘lingua’ non è mai compresa una realtà assolutamente
unitaria al suo interno e stabile attraverso il tempo. Le differenze
all’interno del latino, sin dalle sue fasi più antiche, erano
però ormai arrivate a un punto d’incomunicabilità, equiparabile
a quello che i missionari cristiani avevano dovuto affrontare nell’evangelizzazione
di popoli non latini o talmente rustici da non comprendere neppure
il latino cosiddetto ‘volgare’ (una nozione controversa ma
sinteticamente felice, in cui possiamo peraltro comprendere sia i
livelli cittadini più bassi sia quelli rustici). Non si trattava
più di differenze sociolinguistiche o stilistiche all’interno di
qualcosa concepito come un sistema unitario ma di sistemi diversi,
almeno nella coscienza dei parlanti: l’uso del vocabolo transferre
e insieme l’equiparazione fra rustica romana lingua e (rustica)
thiotisca (lingua) è al riguardo evidente, per quante sottili
distinzioni si possano fare.
Lingue e società
Varietà colloquiali o dialettali simili alle nostre erano attestate
già, al livello più alto della società romana, fin dal suo
periodo ‘classico’ (e si ricordi l’etimologia di ‘classico’,
termine derivato dalla prima, la più ricca, delle cinque classi in
cui la costituzione serviana ordinava i cittadini). Augusto stesso,
secondo Svetonio, parlando indulgeva ai volgarismi; perfino Cicerone
si chiedeva, com’è noto (in una famosa lettera a Peto), se nel
suo stile epistolare non indulgesse troppo alla lingua del popolo
(«Quid tibi ego videor in epistulis? Nonne plebeio sermone agere
tecum?»). Ma «fin che durò la coesione strutturale della società
intorno alla classe dominante e poterono agire con continuità ed
efficacia le forze di trasmissione della cultura elaborata da quella
classe, le tendenze innovative rimasero infrenate e disciplinate, e
le differenze fra lingua letteraria e uso parlato rimasero contenute
entro l’ambito stilistico» (Roncaglia).
Quando la società repubblicana romana, fondata sul potere
senatoriale, viene posta in crisi dalla pressione dei ceti
subalterni, gli humiliores, le cose progressivamente cambiano, anche
con brusche accelerazioni; alla crisi del potere dirigente politico
si affianca quella del potere dirigente linguistico. La norma
linguistica non regge all’urto delle rivendicazioni sociali e
politiche degli humiliores: lo scontro tra honestiores e ceti
subalterni e la vastità dell’Impero e delle popolazioni
rappresentate spostano poco a poco le differenze da variabili
sociostilistiche interne, esse stesse articolate anche nello spazio,
a distinzioni più radicali, pur se ancora all’interno di una
stessa realtà linguistica. Il prevalere della corrente popolare, la
fine dell’unità politica romana, con la frantumazione dell’impero
e il prevalere quindi di tendenze regionali e provinciali
particolaristiche, segneranno in modo sempre più evidente il
divergere della lingua colta e di quella parlata, del latino ‘classico’
e di quello ‘volgare’.
Il ceto dirigente cristiano aveva compreso benissimo la situazione,
corrispondentemente alle ragioni profonde della propria predicazione
rivolta non ai senatores ma ai più umili, ai piscatores, e infatti
preferiva essere ripreso dai grammatici piuttosto che dal popolo: «melius
est reprehendant nos grammatici quam non intelligant populi» aveva
detto incisivamente s. Agostino, con formula che non a caso ricorda
da vicino, per questo aspetto, quella della XVII deliberazione di
Tours, lontana ancora quattro secoli. Ma nel frattempo, dopo
Agostino, era successo comunque dell’altro: la situazione storica
della Romània [box con filo 1] occidentale (trasmigrazioni di
popoli, costituzione di più o meno effimeri regni romano-barbarici,
crisi delle città, vita economica per circuiti sostanzialmente
chiusi, scarsa presenza e funzione di ceti intellettuali ecc.) non
permette nei secoli VI-VII un efficace e continuo aggiustamento del
livello scritto e di quello parlato. Manca un’autorità politica
centrale, manca una norma regolatrice: l’unica realtà linguistica
concreta riconosciuta dai parlanti è l’uso orale dei centri
provinciali, delle sedi vescovili e dei monasteri, dei principali
mercati, dei potentati locali: «[…] non meno gravido di
conseguenze è che il portatore concreto di questo uso di prestigio,
diverso da zona a zona, non sia più il ceto dirigente romano, di
origine senatoria, ma gruppi molto misti nei quali primeggiano i
capi germanici, che il latino parlavano male o spesso poco» (Varvaro).
Quando a Tours si mette sullo stesso piano la rustica romana lingua
e la tedesca non si riconosce dunque soltanto l’esigenza di
risolvere un problema di comunicazione interno al fatto religioso,
ma anche la presenza paritaria di un elemento romano e di uno
germanico (cioè di due lingue diverse, l’una derivata dal latino
volgare e dal suo incontro con i germani, l’altra da una lingua
germanica), in una comunità che si riunisce per fissare regole all’interno
di un ‘nuovo’ territorio e di una nuova entità politica
centrale che si è fatta, non a caso, promotrice e organizzatrice
del Concilio: per l’Impero carolino la comunicazione con il popolo
dei fedeli, garantita dal clero, era essenziale anche ai fini del
consenso e del successo del nuovo ordinamento sociale e politico.
Esiste di nuovo in Occidente un potere centrale che continua a usare
il latino ma questo potere ha bisogno di rimettere ordine nella
comunicazione linguistica con tutti i sudditi, riconoscendo il
diverso e con ciò stesso riconoscendo che la sua identità
linguistica si definisce anche a partire dal basso: in prospettiva
sarà proprio questo riconoscimento a connotare in modo assoluto l’eccezionalità
e la specificità della cultura europea, che dall’Europa carolina
procederà.
L’Europa
Non è dunque un caso, o un’indicazione meramente geografica,
malgrado le controindicazioni esposte in sede storica, da Chabod in
poi, che Carlo Magno sia definito rex pater Europae (oltre che
patricius Romanorum, nei titoli ufficiali), dominus Europae e che a
un antenato di Carlo, Carlo Martello, Isidoro Pacensis, nel secolo
VIII, accompagni un’interessante attestazione dell’aggettivo ‘europeo’
(«prospiciunt Europeenses Arabum tentoria ordinata»), nella
descrizione della battaglia di Poitiers. È un’Europa che coincide
con la Christianitas, con il nuovo Sacro Romano Impero germanico, ma
è un’Europa (occidentale) che, dopo le prime attestazioni greche
(da Isocrate ed Erodoto al sogno della madre di Serse nei Persiani
di Eschilo) riscopre, inconsapevolmente, le ragioni profonde dei
suoi miti fondatori: la diversità e ciò malgrado l’unità
interna, la conflittualità, l’indocilità e la mobilità delle
sue componenti (anche linguistiche) e con ciò la loro vitalità e
specificità (un elemento fondante che Machiavelli comprenderà
perfettamente, riflettendo anche sull’Età repubblicana a Roma, da
cui estrarrà, nel XVI secolo, una vera e propria teoria
storico-politica, esponendo le differenze fondamentali fra europei e
turchi, fra potere pluralistico e autocrazia).
Gli Arabi sono fermati a Poitiers da Carlo Martello e dagli
europeenses, ma occuperanno stabilmente per otto secoli, dopo il
già fiorente regno visigoto, la Spagna (fino al 1492), organizzando
una società in cui convivranno felicemente musulmani, cristiani ed
ebrei (espulsi invece dai re cattolici, una volta terminata la
reconquista): la Spagna diverrà, con la Sicilia, uno dei punti
strategici in cui l’incontro (e lo scontro) linguistico e
culturale, col diverso consentirà la nuova civiltà e lo sviluppo
europeo, influenzando fortemente a livello di ‘superstrato’ (in
Spagna e Sicilia) ma anche di ‘parastrato’ le lingue romanze ed
europee. Lo sviluppo dello spagnolo è anch’esso scandito dalla
lotta con gli Arabi e dalla lenta e progressiva riconquista che,
partendo dalle valli della Cordigliera cantabrica orientale,
troverà nella contea, poi regno, di Castiglia un centro decisivo d’iniziativa.

L’essere l’Impero d’Occidente carolino una
neo-formazione, costituita almeno da un elemento romano e da uno
germanico (entrambi articolati al loro interno), rappresenta un vero
e proprio salto di qualità di contro alla fissità dell’Impero
Romano d’Oriente, ormai ‘asiatico’, caratterizzato da qualità
contrapposte a quelle delle nuove realtà occidentali. È tuttora
difficile valutare il peso relativo dell’elemento germanico nelle
varie lingue romanze, tutte toccate in realtà da contatti
linguistici risalenti già all’epoca romana, ma tutte influenzate
in misura differente; di norma è dimostrabile soprattutto un’influenza
di tipo lessicale, in varia percentuale (massima in francese,
generalmente dal francone, e in italiano, dal longobardo, con alcune
centinaia di parole interessate, e molti toponimi). In francese,
peraltro, secondo una radicale proposta di Georges Straka, è
proprio all’intensità dell’accento di origine germanica che
dovrebbero essere ascritti gran parte dei mutamenti fonetici (altri,
più cautamente, parlano di ‘riflessi’ fonetici, come quello
dovuto alla h aspirata, ancor oggi funzionale nell’impedire la
liaison).
Coscienza linguistica plurale e suo riconoscimento ufficiale
identificano comunque, sin dal Concilio di Tours, l’Europa
rispetto a quel che avviene contemporaneamente o nei secoli
successivi nelle altre grandi formazioni politiche del mondo antico
e medievale, dall’Impero Romano d’Oriente alla Cina, all’Islam,
ove il riconoscimento delle dignità di lingua scritta al volgare
arriverà solo nel XX secolo, o addirittura non ancora, e sempre fra
mille polemiche e resistenze. Il melting pot originato dalle grandi
(e tragiche) trasmigrazioni dei popoli germanici (le nostre ‘invasioni
barbariche’), come aveva già visto con straordinario acume
Ludovico Antonio Muratori non significa, dunque, soltanto
abbattimento di un vecchio ordine, o ‘barbarie’, ‘secoli bui’;
rappresenta anche una delle ragioni fondative della nascita della
nostra modernità, e dell’Europa, inevitabilmente e
necessariamente cristiana nella sua fattualità storica, non solo
nella nostalgia romantico-reazionaria di Novalis (La cristianità
ossia l’Europa, frammento scritto nell’anno 1799, quando il
patto ‘trono e altare’ e l’ancien régime sono appena crollati
sotto i colpi di un’altra Europa, quella illuminista e giacobina
della Rivoluzione francese: «Erano tempi belli, splendidi, quelli
dell’Europa cristiana quando un’unica cristianità abitava
questo continente di forma umana […]»).
Diversità invece, si diceva, ma anche unità: il riconoscimento ‘ufficiale’
del ‘diverso’ nelle deliberazioni del Concilio di Tours (cui
sono affiancabili numerosi altri documenti analoghi) è
paradossalmente reso possibile, anzi necessario, dal recupero dell’unità
linguistica e culturale rappresentata dal latino e dalla sua
cultura. Non a caso la cosiddetta ‘rinascita’ carolina è teatro
di un formidabile recupero dell’Antico quale si darà poi (dopo la
cosiddetta rinascenza del XII secolo) soltanto nell’Umanesimo e
nel Rinascimento italiano ed europeo, che dai testi copiati e
conservati nelle biblioteche approntate in età carolina trarranno
gran parte dei classici cosiddetti ‘scoperti’. Nello stesso
concilio di Tours quindi, prima del riconoscimento ufficiale del
volgare, troveremo la riaffermazione forte della cultura ecclesiale
- «A nessun vescovo sia consentito ignorare […] i canoni o il
libro pastorale edito dal beato papa Gregorio» (deliberazione III);
«Da ogni e qualsiasi allettamento uditivo e visivo onde possa
sospettarsi un rammollimento della forza dell’animo, come si può
pensare di musici e di svariate altre cose, i sacerdoti di Dio
debbono astenersi […]» (deliberazione VII) - così come era stato
disposto sin dalla fine dell’VIII secolo (capitolare De litteris
colendis, fra il 794 e il 796). Si noti che la deliberazione XVII si
limita alle sole prediche; per arrivare a consentire, fra molte
polemiche, l’uso del volgare nella messa dovranno passare altri
mille anni, fino al Concilio ecumenico Vaticano II, mentre la Bibbia
rimarrà latina per lungo tempo e non a caso fra i primi atti di
ogni movimento riformatore ci sarà sempre, fino alla traduzione di
Lutero, il volgarizzamento biblico.
Plurilinguismo
Il latino rimane la lingua ufficiale dei grandi poteri
sovranazionali, Chiesa e Impero, ma rimane anche, nel tempo, uno dei
segni linguistici, culturali, e socio-politici, più forti e
identitari dell’Europa. In quanto lingua del Libro ufficiale dell’Europa
cristiana, la Bibbia, esso segna le forme linguistiche e mentali
dell’Occidente, ma rimarrà lingua dell’alta cultura, del
diritto, della scienza e della liturgia, fin quasi ai giorni nostri.
La prima versione della Institution de la religion chrétienne di
Calvino (1541) è ancora in latino (1536); nel XIX secolo tesi di
laurea e saggi riguardanti lingue e letterature romanze erano
paradossalmente ancora scritti in latino; il giornale ufficiale
della Chiesa, «L’osservatore romano», sarà in latino fino ai
giorni nostri (l’innovazione partirà di nuovo dal Concilio
ecumenico Vaticano II).
Il bilinguismo latino/volgare è uno dei segni distintivi della
cultura e dell’identità europea sin dalle prime documentazioni
delle lingue romanze (e germaniche), che non per nulla iniziano
proprio nello stesso IX secolo del Concilio di Tours: il primo
documento ufficiale in una lingua romanza, il Giuramento di
Strasburgo (842), in un volgare francese, è tramandato nelle
Historiae di Nitardo, accanto, di nuovo, allo stesso testo in
tedesco (a garanzia della comprensione, e relativa garanzia, dei due
eserciti, dinanzi a cui Carlo il Calvo e Ludovico il Germanico
confermavano la loro alleanza); le formule testimoniali campane (ca.
960) sono riportate in strumenti notarili latini ecc. I documenti
nelle ‘nuove’ lingue via via si infittiscono, soprattutto in
Francia (la più ‘germanica’ delle lingue romanze) e lasciano il
passo, in Francia e Provenza molto precocemente, ai ‘monumenti’,
testi a carattere letterario, scritti per intrattenere ed educare,
per ricordare e durare attraverso il tempo.
La cultura dei rappresentanti del primo canone letterario europeo,
le ‘tre corone’ - Dante, Petrarca e Boccaccio - è
fondamentalmente bilingue: e bilingue sarà la loro enorme influenza
sull’Europa, così come bilingue (e trilingue, col recupero del
greco) sarà la cultura umanistica e rinascimentale europea. Latino
soprattutto (oltre che greco) sarà il serbatoio lessicale cui
attingeranno le lingue moderne, fino ai giorni nostri, per indicare
scoperte o forgiare neologismi.
Ma la circolarità linguistica non rimane solo verticale: dalle
lingue romanze al latino, o viceversa; è anche orizzontale, fra le
lingue romanze. Dante ha una cultura almeno quadrilingue (e la usa:
nel discordo [box con filo 2] Aï faux ris, pour quoi traï avés,
poeta in francese, latino e italiano, mentre nella Commedia Arnaut
Daniel parla in provenzale), e prima di lui Pietro della Vigna
leggeva almeno quattro lingue (volgare ‘italiano’, francese,
provenzale, latino), così come Guido delle Colonne (e con lui,
ancor più poliglotta, Federico II, che parlava anche tedesco e
leggeva e si dilettava di francese, provenzale, arabo e quasi
certamente almeno di greco). Non è fuor di luogo pensare che a
spiegare la straordinaria fioritura letteraria e culturale del XIII
secolo italiano, dopo tanti ‘ritardi’ una vera ‘età d’oro’,
sia proprio la voracità intellettuale con cui i colti italiani dell’epoca
si appropriano di altre lingue e culture e le fanno proprie, sull’esempio
del resto di altri colleghi. Raimbaut de Vaqueiras, un famoso poeta
provenzale vissuto a cavallo fra XII e XIII secolo, sapeva poetare
(in un famoso discordo plurilingue), oltre che in provenzale, anche
in italiano, francese, guascone e galego-portoghese (e come lui
altri trovatori).
Ma quel che è soprattutto importante è la circolarità romanza che
tali atteggiamenti implicano: il ‘tradurre’ da una lingua
romanza a un’altra non è un vero tradurre, poiché la
comprensione è quasi implicita per il lettore, pur se l’operazione
implica per l’autore una grande padronanza linguistica che può
arrivare, si è visto, sino al virtuosismo. L’operazione che
rappresenta meglio la nascita dell’Europa romanza e moderna è
forse proprio l’incessante attività di traduzione, anche dall’arabo,
e il plurilinguismo che vi è attestato (compreso quello
arabo-romanzo ed ebraico-romanzo, nelle kharge mozarabe composte in
Spagna dall’XI secolo, prima della stessa nascita della lirica
provenzale e romanza): diversità, dialogicità, circolarità. L’identità
europea inizia a formarsi in questo molteplice confronto, a volte
‘associazione di contrari’, un ‘vortice’ culturale, secondo
una brillante formula di Edgar Morin.
Sono dunque traduzioni, o meglio ‘volgarizzamenti’, dal latino
nelle lingue romanze, riadattamenti di opere famose dell’antichità,
studiate e glossate nella scuola medievale, ma sono anche
riscritture da una lingua romanza all’altra, generi letterari
nuovi, per tematiche e struttura retorica e/o metrica: prima la
cultura francese poi quella italiana producono testi tradotti in
tutta Europa. L’epica francese, dalla Chanson de Roland ai grandi
cicli è trascritta e rielaborata in quasi tutte le lingue romanze
ed europee fino al norreno, all’estremo Nord dell’Europa. La
toponomastica e l’onomastica europea riflettono prontamente il
successo straordinario dei personaggi del Roland (come poi quelli
del romanzo arturiano).
L’Europa è unificata da comuni tematiche, generi letterari, miti,
atteggiamenti, personaggi; la lirica trobadorica provenzale è
riscritta, tradotta o ripensata in francese, galego-portoghese,
siciliano, toscano, catalano ecc., ma anche in medio-alto-tedesco,
con i Minnesänger [box con filo 3]. Attraverso la lirica romanza e
il nuovo lessico cortese - praticato in una koiné letteraria (la
prima uniforme del Medio Evo), il ‘provenzale’, allora
espressione di un sistema di dialetti comprendente tutta la Francia
del Sud fino alla linea Loira-Garonna - l’Europa ripensa a uno dei
sentimenti fondativi dell’essere umano, l’amore, secondo
modalità affettive e linguistiche del tutto nuove che marcheranno l’identità
europea (e occidentale) fino ai nostri giorni: la crociata
antialbigese e l’editto di Villers-Cotterets (1539) con cui
Francesco I imponeva l’uso esclusivo del francese in tutta l’amministrazione
e nei tribunali del regno, ridurranno drasticamente l’uso e l’importanza
del provenzale, malgrado il tentativo di rivitalizzazione di
Frédéric Mistral: oggi si estende in circa un terzo della Francia
ma, come altre lingue e dialetti romanzi (sardo, corso, friulano,
ladino, galego ecc.) è oggetto e soggetto di un ritorno alle radici
che si può colorare - di fronte a un’accelerazione dell’integrazione
europea e a un possibile ridimensionamento degli Stati-nazione - di
varie e diverse sfumature politico-culturali, tutte comunque giocate
sul riconoscimento dell’autonomia innanzitutto linguistica (ciò
che in numerose costituzioni federali europee è già avvenuto, con
l’introduzione anche di un insegnamento scolastico nella o della
lingua regionale).
Mai come nel momento in cui si forma l’Europa moderna,
occorrerebbe oltrepassare la nozione moderna di ‘nazione’ e
ricordare le modalità storico-geografiche preesistenti: Europa è
anche e soprattutto l’incontro del molteplice e del molteplice
nell’uno, la difficoltà, per noi oggi, è appunto «di pensare l’uno
nel molteplice, il molteplice nell’uno: l’unitas multiplex» (Morin).
Lingua franca
Anche il romanzo medievale è ‘francese’, pur se, di nuovo,
occorrerebbe riconoscere che ha uno sviluppo basilare, per temi e
modelli e best-seller, in un ‘altrove’, nell’Inghilterra
anglo-normanna del secolo XII, intorno alla corte di Enrico II,
titolare di un vero e proprio impero che comprendeva anche una
cospicua parte della Francia occidentale (Normandia, Angiò e Poitou
compresi). È estremamente intrigante e molto significativo nella
prospettiva storica moderna, abituata al distacco ancora recente di
un’Inghilterra signora dei mari e del mondo, in qualche modo ‘altra’
dall’Europa nella propria stessa coscienza, notare come nel XII e
nel XIII secolo essa sia la culla di un movimento letterario e
umanistico di fondamentale rilevanza per la cultura e la storia
europea, espresso prevalentemente in un dialetto del francese (l’anglonormanno
portato nel 1066 da Guglielmo il Conquistatore) e in un latino che
ancora Dante e gli umanisti leggeranno con profitto per la rilevanza
degli auctores che vi si espressero (primo fra tutti Giovanni di
Salisbury).
Fino al XIV secolo il francese fu la lingua dei ceti alti e dei
tribunali, con conseguenze enormi sul piano dell’evoluzione dell’inglese:
oggi l’inglese, dal punto di vista lessicale, si può a buon
diritto definire, grazie anche all’influenza del latino durante e
dopo il Rinascimento (con rimodellizzazione anche di parole di
derivazione francese), più una lingua romanza che germanica: nel
lessico generale della lingua inglese - ricordava recentemente
Tullio De Mauro - troviamo «10% di parole patrimoniali […]
appartenenti al fondo linguistico […] sassone e germanico
occidentale (la percentuale è più alta, ma non di molto, se si
guarda al solo vocabolario di base); 76.5 % di lessemi esogeni,
prestiti e adattamenti da altre lingue, come francese 42% […],
latino 25%, spagnolo 4%, italiano 4%, altre lingue 1.5%; 13.5 % di
neoformazioni endogene» (De Mauro, p. ). I tre quarti del lessico
generale inglese sono dunque di derivazione latina o romanza: ancor
maggiore sarà senza dubbio la percentuale del lessico colto.
Inghilterra romanza dunque, nella sua fisionomia linguistica e nel
contributo letterario e culturale fornito alle origini romanze ed
europee, così come poi, insieme soprattutto alla Francia e alla
Germania, al genere letterario che definirà la modernità europea,
il romanzo moderno in prosa (l’inglese novel, ma anch’esso
etimologicamente romanzo).
L’avventura sul mare, che aveva già segnato le origini greche del
termine ‘Europa’, contribuisce a fissarne, proprio favorendo la
comparazione e lo sguardo esterno, la coscienza identitaria. Tanto
è variegato spazialmente e temporalmente il sistema linguistico
europeo, tanto si presenta unitario nei suoi cardini fondamentali
quello delle due Americhe o quello australiano: il colonialismo e l’estirpazione
violenta delle parlate indigene, oggi ridotte quasi tutte a poche
migliaia o centinaia di parlanti, semplifica in modo drammatico il
quadro, richiamando ancora oggi a considerare gli assenti e le loro
ragioni, ma non ne modifica il senso. Circa 220 milioni di persone
hanno oggi lo spagnolo come lingua materna o seconda lingua, circa
160 il portoghese, 60 il francese (che però è conosciuto da almeno
80), mentre l’italiano con i suoi 56 milioni di parlanti è nella
sostanza, e malgrado qualche eccezione, una lingua ‘territoriale’
soltanto europea, come le altre lingue romanze.
È singolare che proprio un’identità fondata sin dalle origini
sull’incontro e scontro di culture (dai tre continenti che si
affacciano sul Mediterraneo) abbia insieme distrutto quasi
completamente altre culture e lingue e fondato invece civiltà come
quella statunitense basata su un ricchissimo melting pot etnico e
peraltro, salvo che per lo spagnolo (anch’esso però ora
ridimensionato nell’uso scolastico, anche negli Stati a forte
componente ispanica), sulla riduzione linguistica all’anglo-americano,
più lontano dell’inglese dalle sue matrici romanze. Come il
latino rispetto alle lingue con cui veniva a contatto, salvo il
greco, così oggi l’inglese si avvale nel suo pervasivo successo
globale di una forza, di una cultura e di una tecnologia largamente
egemoni; forse la nuova Europa del XXI secolo dovrà inevitabilmente
riconoscere nell’inglese la propria lingua franca e peraltro,
proprio nella storia dell’inglese e della sua formazione
germanico-romanza così variata e complessa, così ‘germanica’ e
così ‘romanza’, potrà vedere rispecchiata quella ricchezza
linguistica e multiculturale che hanno fatto e definito l’Europa e
che ne rappresentano al meglio l’identità.
La riduzione romana nell’Impero Romano d’Oriente ha prodotto
stasi e ripiegamento, l’incontro con l’altro, germanico, arabo,
ebraico, nella Romània occidentale ha prodotto innovazione e
sviluppo: può di nuovo avvenire, a condizione che prevalga la
dialogica e non la riaffermazione solipsistica dell’identità
ereditaria, anche sul piano linguistico. L’allargamento della
Comunità europea a Est è in questo senso un’occasione storica,
anche dal punto di vista linguistico e culturale. La continuità
dell’Impero orientale, la sua grecità, culturale e soprattutto
religiosa (definitiva dal grande scisma del 1054) hanno segnato una
divisione all’interno dell’Europa con frontiere ancor oggi
visibili (e segnate recentemente dalla tragedia nell’ex-Jugoslavia,
pur dopo la caduta del sistema sovietico). L’Europa, non solo per
Dante e per Voltaire, ma ancora per molti contemporanei e per la
coscienza comune occidentale, non è mai andata dall’Atlantico
agli Urali ma si è sempre arrestata molto prima, comprendendo al
massimo l’Est di tradizione latina e cattolica: recuperare il
terzo grande gruppo linguistico indoeuropeo, quello slavo, e la
cultura ortodossa, significa anche rimeditare sul percorso seguito a
Oriente dalla seconda Roma, Costantinopoli, e dalla cultura greca,
prima e oltre il Rinascimento italiano, ma anche sui tanti temi
pervenuti in Occidente nella fase formativa dell’Europa
occidentale o da Occidente trasmigrati a Oriente, non limitatamente
alla sola ‘neolatina Romanìa’.
Vi e' piaciuto questo articolo? Avete dei commenti da
fare? Scriveteci il vostro punto di vista cliccando qui
Archivio
Attualita' |