La nascita delle lingue romanze 
             
             
             
            Roberto Antonelli 
             
             
             
            Questo articolo è stato pubblicato sul numero 13 della rivista
            trimestrale Iter,
            uscito nel gennaio 2002. 
             
            L’atto di nascita ‘ufficiale’ delle lingue romanze viene
            comunemente fissato all’anno 813 quando, al concilio di Tours,
            promosso da Carlo Magno, si dichiara esplicitamente nella XVII
            deliberazione che i vescovi debbono «tradurre (transferre) le
            prediche in modo comprensibile, nella lingua romana rustica o nella
            tedesca (in rusticam romanam linguam aut thiotiscam), affinché
            tutti possano comprendere più facilmente quel che viene detto». Il
            punto di partenza della decisione è la necessità che tutti debbano
            comprendere le prediche, ovvero le direttive comportamentali
            enunciate dal clero. Fin qui nulla di nuovo, apparentemente:
            finalità principale di ogni lingua è quella di garantire la
            comprensione reciproca, la comunicazione, fra tutti (o la massima
            parte) gli appartenenti a una certa società.
              
            All’interno di ogni comunità linguistica
            possono presentarsi problemi di comunicazione, poiché nella nozione
            stessa di ‘lingua’ non è mai compresa una realtà assolutamente
            unitaria al suo interno e stabile attraverso il tempo. Le differenze
            all’interno del latino, sin dalle sue fasi più antiche, erano
            però ormai arrivate a un punto d’incomunicabilità, equiparabile
            a quello che i missionari cristiani avevano dovuto affrontare nell’evangelizzazione
            di popoli non latini o talmente rustici da non comprendere neppure
            il latino cosiddetto ‘volgare’ (una nozione controversa ma
            sinteticamente felice, in cui possiamo peraltro comprendere sia i
            livelli cittadini più bassi sia quelli rustici). Non si trattava
            più di differenze sociolinguistiche o stilistiche all’interno di
            qualcosa concepito come un sistema unitario ma di sistemi diversi,
            almeno nella coscienza dei parlanti: l’uso del vocabolo transferre
            e insieme l’equiparazione fra rustica romana lingua e (rustica)
            thiotisca (lingua) è al riguardo evidente, per quante sottili
            distinzioni si possano fare. 
             
            Lingue e società 
             
            Varietà colloquiali o dialettali simili alle nostre erano attestate
            già, al livello più alto della società romana, fin dal suo
            periodo ‘classico’ (e si ricordi l’etimologia di ‘classico’,
            termine derivato dalla prima, la più ricca, delle cinque classi in
            cui la costituzione serviana ordinava i cittadini). Augusto stesso,
            secondo Svetonio, parlando indulgeva ai volgarismi; perfino Cicerone
            si chiedeva, com’è noto (in una famosa lettera a Peto), se nel
            suo stile epistolare non indulgesse troppo alla lingua del popolo
            («Quid tibi ego videor in epistulis? Nonne plebeio sermone agere
            tecum?»). Ma «fin che durò la coesione strutturale della società
            intorno alla classe dominante e poterono agire con continuità ed
            efficacia le forze di trasmissione della cultura elaborata da quella
            classe, le tendenze innovative rimasero infrenate e disciplinate, e
            le differenze fra lingua letteraria e uso parlato rimasero contenute
            entro l’ambito stilistico» (Roncaglia). 
             
            Quando la società repubblicana romana, fondata sul potere
            senatoriale, viene posta in crisi dalla pressione dei ceti
            subalterni, gli humiliores, le cose progressivamente cambiano, anche
            con brusche accelerazioni; alla crisi del potere dirigente politico
            si affianca quella del potere dirigente linguistico. La norma
            linguistica non regge all’urto delle rivendicazioni sociali e
            politiche degli humiliores: lo scontro tra honestiores e ceti
            subalterni e la vastità dell’Impero e delle popolazioni
            rappresentate spostano poco a poco le differenze da variabili
            sociostilistiche interne, esse stesse articolate anche nello spazio,
            a distinzioni più radicali, pur se ancora all’interno di una
            stessa realtà linguistica. Il prevalere della corrente popolare, la
            fine dell’unità politica romana, con la frantumazione dell’impero
            e il prevalere quindi di tendenze regionali e provinciali
            particolaristiche, segneranno in modo sempre più evidente il
            divergere della lingua colta e di quella parlata, del latino ‘classico’
            e di quello ‘volgare’. 
             
            Il ceto dirigente cristiano aveva compreso benissimo la situazione,
            corrispondentemente alle ragioni profonde della propria predicazione
            rivolta non ai senatores ma ai più umili, ai piscatores, e infatti
            preferiva essere ripreso dai grammatici piuttosto che dal popolo: «melius
            est reprehendant nos grammatici quam non intelligant populi» aveva
            detto incisivamente s. Agostino, con formula che non a caso ricorda
            da vicino, per questo aspetto, quella della XVII deliberazione di
            Tours, lontana ancora quattro secoli. Ma nel frattempo, dopo
            Agostino, era successo comunque dell’altro: la situazione storica
            della Romània [box con filo 1] occidentale (trasmigrazioni di
            popoli, costituzione di più o meno effimeri regni romano-barbarici,
            crisi delle città, vita economica per circuiti sostanzialmente
            chiusi, scarsa presenza e funzione di ceti intellettuali ecc.) non
            permette nei secoli VI-VII un efficace e continuo aggiustamento del
            livello scritto e di quello parlato. Manca un’autorità politica
            centrale, manca una norma regolatrice: l’unica realtà linguistica
            concreta riconosciuta dai parlanti è l’uso orale dei centri
            provinciali, delle sedi vescovili e dei monasteri, dei principali
            mercati, dei potentati locali: «[…] non meno gravido di
            conseguenze è che il portatore concreto di questo uso di prestigio,
            diverso da zona a zona, non sia più il ceto dirigente romano, di
            origine senatoria, ma gruppi molto misti nei quali primeggiano i
            capi germanici, che il latino parlavano male o spesso poco» (Varvaro). 
             
            Quando a Tours si mette sullo stesso piano la rustica romana lingua
            e la tedesca non si riconosce dunque soltanto l’esigenza di
            risolvere un problema di comunicazione interno al fatto religioso,
            ma anche la presenza paritaria di un elemento romano e di uno
            germanico (cioè di due lingue diverse, l’una derivata dal latino
            volgare e dal suo incontro con i germani, l’altra da una lingua
            germanica), in una comunità che si riunisce per fissare regole all’interno
            di un ‘nuovo’ territorio e di una nuova entità politica
            centrale che si è fatta, non a caso, promotrice e organizzatrice
            del Concilio: per l’Impero carolino la comunicazione con il popolo
            dei fedeli, garantita dal clero, era essenziale anche ai fini del
            consenso e del successo del nuovo ordinamento sociale e politico.
            Esiste di nuovo in Occidente un potere centrale che continua a usare
            il latino ma questo potere ha bisogno di rimettere ordine nella
            comunicazione linguistica con tutti i sudditi, riconoscendo il
            diverso e con ciò stesso riconoscendo che la sua identità
            linguistica si definisce anche a partire dal basso: in prospettiva
            sarà proprio questo riconoscimento a connotare in modo assoluto l’eccezionalità
            e la specificità della cultura europea, che dall’Europa carolina
            procederà. 
             
            L’Europa 
             
            Non è dunque un caso, o un’indicazione meramente geografica,
            malgrado le controindicazioni esposte in sede storica, da Chabod in
            poi, che Carlo Magno sia definito rex pater Europae (oltre che
            patricius Romanorum, nei titoli ufficiali), dominus Europae e che a
            un antenato di Carlo, Carlo Martello, Isidoro Pacensis, nel secolo
            VIII, accompagni un’interessante attestazione dell’aggettivo ‘europeo’
            («prospiciunt Europeenses Arabum tentoria ordinata»), nella
            descrizione della battaglia di Poitiers. È un’Europa che coincide
            con la Christianitas, con il nuovo Sacro Romano Impero germanico, ma
            è un’Europa (occidentale) che, dopo le prime attestazioni greche
            (da Isocrate ed Erodoto al sogno della madre di Serse nei Persiani
            di Eschilo) riscopre, inconsapevolmente, le ragioni profonde dei
            suoi miti fondatori: la diversità e ciò malgrado l’unità
            interna, la conflittualità, l’indocilità e la mobilità delle
            sue componenti (anche linguistiche) e con ciò la loro vitalità e
            specificità (un elemento fondante che Machiavelli comprenderà
            perfettamente, riflettendo anche sull’Età repubblicana a Roma, da
            cui estrarrà, nel XVI secolo, una vera e propria teoria
            storico-politica, esponendo le differenze fondamentali fra europei e
            turchi, fra potere pluralistico e autocrazia). 
             
            Gli Arabi sono fermati a Poitiers da Carlo Martello e dagli
            europeenses, ma occuperanno stabilmente per otto secoli, dopo il
            già fiorente regno visigoto, la Spagna (fino al 1492), organizzando
            una società in cui convivranno felicemente musulmani, cristiani ed
            ebrei (espulsi invece dai re cattolici, una volta terminata la
            reconquista): la Spagna diverrà, con la Sicilia, uno dei punti
            strategici in cui l’incontro (e lo scontro) linguistico e
            culturale, col diverso consentirà la nuova civiltà e lo sviluppo
            europeo, influenzando fortemente a livello di ‘superstrato’ (in
            Spagna e Sicilia) ma anche di ‘parastrato’ le lingue romanze ed
            europee. Lo sviluppo dello spagnolo è anch’esso scandito dalla
            lotta con gli Arabi e dalla lenta e progressiva riconquista che,
            partendo dalle valli della Cordigliera cantabrica orientale,
            troverà nella contea, poi regno, di Castiglia un centro decisivo d’iniziativa. 
              
            L’essere l’Impero d’Occidente carolino una
            neo-formazione, costituita almeno da un elemento romano e da uno
            germanico (entrambi articolati al loro interno), rappresenta un vero
            e proprio salto di qualità di contro alla fissità dell’Impero
            Romano d’Oriente, ormai ‘asiatico’, caratterizzato da qualità
            contrapposte a quelle delle nuove realtà occidentali. È tuttora
            difficile valutare il peso relativo dell’elemento germanico nelle
            varie lingue romanze, tutte toccate in realtà da contatti
            linguistici risalenti già all’epoca romana, ma tutte influenzate
            in misura differente; di norma è dimostrabile soprattutto un’influenza
            di tipo lessicale, in varia percentuale (massima in francese,
            generalmente dal francone, e in italiano, dal longobardo, con alcune
            centinaia di parole interessate, e molti toponimi). In francese,
            peraltro, secondo una radicale proposta di Georges Straka, è
            proprio all’intensità dell’accento di origine germanica che
            dovrebbero essere ascritti gran parte dei mutamenti fonetici (altri,
            più cautamente, parlano di ‘riflessi’ fonetici, come quello
            dovuto alla h aspirata, ancor oggi funzionale nell’impedire la
            liaison). 
             
            Coscienza linguistica plurale e suo riconoscimento ufficiale
            identificano comunque, sin dal Concilio di Tours, l’Europa
            rispetto a quel che avviene contemporaneamente o nei secoli
            successivi nelle altre grandi formazioni politiche del mondo antico
            e medievale, dall’Impero Romano d’Oriente alla Cina, all’Islam,
            ove il riconoscimento delle dignità di lingua scritta al volgare
            arriverà solo nel XX secolo, o addirittura non ancora, e sempre fra
            mille polemiche e resistenze. Il melting pot originato dalle grandi
            (e tragiche) trasmigrazioni dei popoli germanici (le nostre ‘invasioni
            barbariche’), come aveva già visto con straordinario acume
            Ludovico Antonio Muratori non significa, dunque, soltanto
            abbattimento di un vecchio ordine, o ‘barbarie’, ‘secoli bui’;
            rappresenta anche una delle ragioni fondative della nascita della
            nostra modernità, e dell’Europa, inevitabilmente e
            necessariamente cristiana nella sua fattualità storica, non solo
            nella nostalgia romantico-reazionaria di Novalis (La cristianità
            ossia l’Europa, frammento scritto nell’anno 1799, quando il
            patto ‘trono e altare’ e l’ancien régime sono appena crollati
            sotto i colpi di un’altra Europa, quella illuminista e giacobina
            della Rivoluzione francese: «Erano tempi belli, splendidi, quelli
            dell’Europa cristiana quando un’unica cristianità abitava
            questo continente di forma umana […]»). 
             
            Diversità invece, si diceva, ma anche unità: il riconoscimento ‘ufficiale’
            del ‘diverso’ nelle deliberazioni del Concilio di Tours (cui
            sono affiancabili numerosi altri documenti analoghi) è
            paradossalmente reso possibile, anzi necessario, dal recupero dell’unità
            linguistica e culturale rappresentata dal latino e dalla sua
            cultura. Non a caso la cosiddetta ‘rinascita’ carolina è teatro
            di un formidabile recupero dell’Antico quale si darà poi (dopo la
            cosiddetta rinascenza del XII secolo) soltanto nell’Umanesimo e
            nel Rinascimento italiano ed europeo, che dai testi copiati e
            conservati nelle biblioteche approntate in età carolina trarranno
            gran parte dei classici cosiddetti ‘scoperti’. Nello stesso
            concilio di Tours quindi, prima del riconoscimento ufficiale del
            volgare, troveremo la riaffermazione forte della cultura ecclesiale
            - «A nessun vescovo sia consentito ignorare […] i canoni o il
            libro pastorale edito dal beato papa Gregorio» (deliberazione III);
            «Da ogni e qualsiasi allettamento uditivo e visivo onde possa
            sospettarsi un rammollimento della forza dell’animo, come si può
            pensare di musici e di svariate altre cose, i sacerdoti di Dio
            debbono astenersi […]» (deliberazione VII) - così come era stato
            disposto sin dalla fine dell’VIII secolo (capitolare De litteris
            colendis, fra il 794 e il 796). Si noti che la deliberazione XVII si
            limita alle sole prediche; per arrivare a consentire, fra molte
            polemiche, l’uso del volgare nella messa dovranno passare altri
            mille anni, fino al Concilio ecumenico Vaticano II, mentre la Bibbia
            rimarrà latina per lungo tempo e non a caso fra i primi atti di
            ogni movimento riformatore ci sarà sempre, fino alla traduzione di
            Lutero, il volgarizzamento biblico. 
             
            Plurilinguismo 
             
            Il latino rimane la lingua ufficiale dei grandi poteri
            sovranazionali, Chiesa e Impero, ma rimane anche, nel tempo, uno dei
            segni linguistici, culturali, e socio-politici, più forti e
            identitari dell’Europa. In quanto lingua del Libro ufficiale dell’Europa
            cristiana, la Bibbia, esso segna le forme linguistiche e mentali
            dell’Occidente, ma rimarrà lingua dell’alta cultura, del
            diritto, della scienza e della liturgia, fin quasi ai giorni nostri.
            La prima versione della Institution de la religion chrétienne di
            Calvino (1541) è ancora in latino (1536); nel XIX secolo tesi di
            laurea e saggi riguardanti lingue e letterature romanze erano
            paradossalmente ancora scritti in latino; il giornale ufficiale
            della Chiesa, «L’osservatore romano», sarà in latino fino ai
            giorni nostri (l’innovazione partirà di nuovo dal Concilio
            ecumenico Vaticano II). 
             
            Il bilinguismo latino/volgare è uno dei segni distintivi della
            cultura e dell’identità europea sin dalle prime documentazioni
            delle lingue romanze (e germaniche), che non per nulla iniziano
            proprio nello stesso IX secolo del Concilio di Tours: il primo
            documento ufficiale in una lingua romanza, il Giuramento di
            Strasburgo (842), in un volgare francese, è tramandato nelle
            Historiae di Nitardo, accanto, di nuovo, allo stesso testo in
            tedesco (a garanzia della comprensione, e relativa garanzia, dei due
            eserciti, dinanzi a cui Carlo il Calvo e Ludovico il Germanico
            confermavano la loro alleanza); le formule testimoniali campane (ca.
            960) sono riportate in strumenti notarili latini ecc. I documenti
            nelle ‘nuove’ lingue via via si infittiscono, soprattutto in
            Francia (la più ‘germanica’ delle lingue romanze) e lasciano il
            passo, in Francia e Provenza molto precocemente, ai ‘monumenti’,
            testi a carattere letterario, scritti per intrattenere ed educare,
            per ricordare e durare attraverso il tempo. 
             
            La cultura dei rappresentanti del primo canone letterario europeo,
            le ‘tre corone’ - Dante, Petrarca e Boccaccio - è
            fondamentalmente bilingue: e bilingue sarà la loro enorme influenza
            sull’Europa, così come bilingue (e trilingue, col recupero del
            greco) sarà la cultura umanistica e rinascimentale europea. Latino
            soprattutto (oltre che greco) sarà il serbatoio lessicale cui
            attingeranno le lingue moderne, fino ai giorni nostri, per indicare
            scoperte o forgiare neologismi. 
             
            Ma la circolarità linguistica non rimane solo verticale: dalle
            lingue romanze al latino, o viceversa; è anche orizzontale, fra le
            lingue romanze. Dante ha una cultura almeno quadrilingue (e la usa:
            nel discordo [box con filo 2] Aï faux ris, pour quoi traï avés,
            poeta in francese, latino e italiano, mentre nella Commedia Arnaut
            Daniel parla in provenzale), e prima di lui Pietro della Vigna
            leggeva almeno quattro lingue (volgare ‘italiano’, francese,
            provenzale, latino), così come Guido delle Colonne (e con lui,
            ancor più poliglotta, Federico II, che parlava anche tedesco e
            leggeva e si dilettava di francese, provenzale, arabo e quasi
            certamente almeno di greco). Non è fuor di luogo pensare che a
            spiegare la straordinaria fioritura letteraria e culturale del XIII
            secolo italiano, dopo tanti ‘ritardi’ una vera ‘età d’oro’,
            sia proprio la voracità intellettuale con cui i colti italiani dell’epoca
            si appropriano di altre lingue e culture e le fanno proprie, sull’esempio
            del resto di altri colleghi. Raimbaut de Vaqueiras, un famoso poeta
            provenzale vissuto a cavallo fra XII e XIII secolo, sapeva poetare
            (in un famoso discordo plurilingue), oltre che in provenzale, anche
            in italiano, francese, guascone e galego-portoghese (e come lui
            altri trovatori). 
             
            Ma quel che è soprattutto importante è la circolarità romanza che
            tali atteggiamenti implicano: il ‘tradurre’ da una lingua
            romanza a un’altra non è un vero tradurre, poiché la
            comprensione è quasi implicita per il lettore, pur se l’operazione
            implica per l’autore una grande padronanza linguistica che può
            arrivare, si è visto, sino al virtuosismo. L’operazione che
            rappresenta meglio la nascita dell’Europa romanza e moderna è
            forse proprio l’incessante attività di traduzione, anche dall’arabo,
            e il plurilinguismo che vi è attestato (compreso quello
            arabo-romanzo ed ebraico-romanzo, nelle kharge mozarabe composte in
            Spagna dall’XI secolo, prima della stessa nascita della lirica
            provenzale e romanza): diversità, dialogicità, circolarità. L’identità
            europea inizia a formarsi in questo molteplice confronto, a volte
            ‘associazione di contrari’, un ‘vortice’ culturale, secondo
            una brillante formula di Edgar Morin. 
             
            Sono dunque traduzioni, o meglio ‘volgarizzamenti’, dal latino
            nelle lingue romanze, riadattamenti di opere famose dell’antichità,
            studiate e glossate nella scuola medievale, ma sono anche
            riscritture da una lingua romanza all’altra, generi letterari
            nuovi, per tematiche e struttura retorica e/o metrica: prima la
            cultura francese poi quella italiana producono testi tradotti in
            tutta Europa. L’epica francese, dalla Chanson de Roland ai grandi
            cicli è trascritta e rielaborata in quasi tutte le lingue romanze
            ed europee fino al norreno, all’estremo Nord dell’Europa. La
            toponomastica e l’onomastica europea riflettono prontamente il
            successo straordinario dei personaggi del Roland (come poi quelli
            del romanzo arturiano). 
             
            L’Europa è unificata da comuni tematiche, generi letterari, miti,
            atteggiamenti, personaggi; la lirica trobadorica provenzale è
            riscritta, tradotta o ripensata in francese, galego-portoghese,
            siciliano, toscano, catalano ecc., ma anche in medio-alto-tedesco,
            con i Minnesänger [box con filo 3]. Attraverso la lirica romanza e
            il nuovo lessico cortese - praticato in una koiné letteraria (la
            prima uniforme del Medio Evo), il ‘provenzale’, allora
            espressione di un sistema di dialetti comprendente tutta la Francia
            del Sud fino alla linea Loira-Garonna - l’Europa ripensa a uno dei
            sentimenti fondativi dell’essere umano, l’amore, secondo
            modalità affettive e linguistiche del tutto nuove che marcheranno l’identità
            europea (e occidentale) fino ai nostri giorni: la crociata
            antialbigese e l’editto di Villers-Cotterets (1539) con cui
            Francesco I imponeva l’uso esclusivo del francese in tutta l’amministrazione
            e nei tribunali del regno, ridurranno drasticamente l’uso e l’importanza
            del provenzale, malgrado il tentativo di rivitalizzazione di
            Frédéric Mistral: oggi si estende in circa un terzo della Francia
            ma, come altre lingue e dialetti romanzi (sardo, corso, friulano,
            ladino, galego ecc.) è oggetto e soggetto di un ritorno alle radici
            che si può colorare - di fronte a un’accelerazione dell’integrazione
            europea e a un possibile ridimensionamento degli Stati-nazione - di
            varie e diverse sfumature politico-culturali, tutte comunque giocate
            sul riconoscimento dell’autonomia innanzitutto linguistica (ciò
            che in numerose costituzioni federali europee è già avvenuto, con
            l’introduzione anche di un insegnamento scolastico nella o della
            lingua regionale). 
             
            Mai come nel momento in cui si forma l’Europa moderna,
            occorrerebbe oltrepassare la nozione moderna di ‘nazione’ e
            ricordare le modalità storico-geografiche preesistenti: Europa è
            anche e soprattutto l’incontro del molteplice e del molteplice
            nell’uno, la difficoltà, per noi oggi, è appunto «di pensare l’uno
            nel molteplice, il molteplice nell’uno: l’unitas multiplex» (Morin). 
             
            Lingua franca 
             
            Anche il romanzo medievale è ‘francese’, pur se, di nuovo,
            occorrerebbe riconoscere che ha uno sviluppo basilare, per temi e
            modelli e best-seller, in un ‘altrove’, nell’Inghilterra
            anglo-normanna del secolo XII, intorno alla corte di Enrico II,
            titolare di un vero e proprio impero che comprendeva anche una
            cospicua parte della Francia occidentale (Normandia, Angiò e Poitou
            compresi). È estremamente intrigante e molto significativo nella
            prospettiva storica moderna, abituata al distacco ancora recente di
            un’Inghilterra signora dei mari e del mondo, in qualche modo ‘altra’
            dall’Europa nella propria stessa coscienza, notare come nel XII e
            nel XIII secolo essa sia la culla di un movimento letterario e
            umanistico di fondamentale rilevanza per la cultura e la storia
            europea, espresso prevalentemente in un dialetto del francese (l’anglonormanno
            portato nel 1066 da Guglielmo il Conquistatore) e in un latino che
            ancora Dante e gli umanisti leggeranno con profitto per la rilevanza
            degli auctores che vi si espressero (primo fra tutti Giovanni di
            Salisbury). 
             
            Fino al XIV secolo il francese fu la lingua dei ceti alti e dei
            tribunali, con conseguenze enormi sul piano dell’evoluzione dell’inglese:
            oggi l’inglese, dal punto di vista lessicale, si può a buon
            diritto definire, grazie anche all’influenza del latino durante e
            dopo il Rinascimento (con rimodellizzazione anche di parole di
            derivazione francese), più una lingua romanza che germanica: nel
            lessico generale della lingua inglese - ricordava recentemente
            Tullio De Mauro - troviamo «10% di parole patrimoniali […]
            appartenenti al fondo linguistico […] sassone e germanico
            occidentale (la percentuale è più alta, ma non di molto, se si
            guarda al solo vocabolario di base); 76.5 % di lessemi esogeni,
            prestiti e adattamenti da altre lingue, come francese 42% […],
            latino 25%, spagnolo 4%, italiano 4%, altre lingue 1.5%; 13.5 % di
            neoformazioni endogene» (De Mauro, p. ). I tre quarti del lessico
            generale inglese sono dunque di derivazione latina o romanza: ancor
            maggiore sarà senza dubbio la percentuale del lessico colto.
            Inghilterra romanza dunque, nella sua fisionomia linguistica e nel
            contributo letterario e culturale fornito alle origini romanze ed
            europee, così come poi, insieme soprattutto alla Francia e alla
            Germania, al genere letterario che definirà la modernità europea,
            il romanzo moderno in prosa (l’inglese novel, ma anch’esso
            etimologicamente romanzo). 
             
            L’avventura sul mare, che aveva già segnato le origini greche del
            termine ‘Europa’, contribuisce a fissarne, proprio favorendo la
            comparazione e lo sguardo esterno, la coscienza identitaria. Tanto
            è variegato spazialmente e temporalmente il sistema linguistico
            europeo, tanto si presenta unitario nei suoi cardini fondamentali
            quello delle due Americhe o quello australiano: il colonialismo e l’estirpazione
            violenta delle parlate indigene, oggi ridotte quasi tutte a poche
            migliaia o centinaia di parlanti, semplifica in modo drammatico il
            quadro, richiamando ancora oggi a considerare gli assenti e le loro
            ragioni, ma non ne modifica il senso. Circa 220 milioni di persone
            hanno oggi lo spagnolo come lingua materna o seconda lingua, circa
            160 il portoghese, 60 il francese (che però è conosciuto da almeno
            80), mentre l’italiano con i suoi 56 milioni di parlanti è nella
            sostanza, e malgrado qualche eccezione, una lingua ‘territoriale’
            soltanto europea, come le altre lingue romanze. 
             
            È singolare che proprio un’identità fondata sin dalle origini
            sull’incontro e scontro di culture (dai tre continenti che si
            affacciano sul Mediterraneo) abbia insieme distrutto quasi
            completamente altre culture e lingue e fondato invece civiltà come
            quella statunitense basata su un ricchissimo melting pot etnico e
            peraltro, salvo che per lo spagnolo (anch’esso però ora
            ridimensionato nell’uso scolastico, anche negli Stati a forte
            componente ispanica), sulla riduzione linguistica all’anglo-americano,
            più lontano dell’inglese dalle sue matrici romanze. Come il
            latino rispetto alle lingue con cui veniva a contatto, salvo il
            greco, così oggi l’inglese si avvale nel suo pervasivo successo
            globale di una forza, di una cultura e di una tecnologia largamente
            egemoni; forse la nuova Europa del XXI secolo dovrà inevitabilmente
            riconoscere nell’inglese la propria lingua franca e peraltro,
            proprio nella storia dell’inglese e della sua formazione
            germanico-romanza così variata e complessa, così ‘germanica’ e
            così ‘romanza’, potrà vedere rispecchiata quella ricchezza
            linguistica e multiculturale che hanno fatto e definito l’Europa e
            che ne rappresentano al meglio l’identità. 
             
            La riduzione romana nell’Impero Romano d’Oriente ha prodotto
            stasi e ripiegamento, l’incontro con l’altro, germanico, arabo,
            ebraico, nella Romània occidentale ha prodotto innovazione e
            sviluppo: può di nuovo avvenire, a condizione che prevalga la
            dialogica e non la riaffermazione solipsistica dell’identità
            ereditaria, anche sul piano linguistico. L’allargamento della
            Comunità europea a Est è in questo senso un’occasione storica,
            anche dal punto di vista linguistico e culturale. La continuità
            dell’Impero orientale, la sua grecità, culturale e soprattutto
            religiosa (definitiva dal grande scisma del 1054) hanno segnato una
            divisione all’interno dell’Europa con frontiere ancor oggi
            visibili (e segnate recentemente dalla tragedia nell’ex-Jugoslavia,
            pur dopo la caduta del sistema sovietico). L’Europa, non solo per
            Dante e per Voltaire, ma ancora per molti contemporanei e per la
            coscienza comune occidentale, non è mai andata dall’Atlantico
            agli Urali ma si è sempre arrestata molto prima, comprendendo al
            massimo l’Est di tradizione latina e cattolica: recuperare il
            terzo grande gruppo linguistico indoeuropeo, quello slavo, e la
            cultura ortodossa, significa anche rimeditare sul percorso seguito a
            Oriente dalla seconda Roma, Costantinopoli, e dalla cultura greca,
            prima e oltre il Rinascimento italiano, ma anche sui tanti temi
            pervenuti in Occidente nella fase formativa dell’Europa
            occidentale o da Occidente trasmigrati a Oriente, non limitatamente
            alla sola ‘neolatina Romanìa’. 
             
              
            
             
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