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L’estetica delle firme



Sergio Garufi




Com'è noto, solo una piccola parte dei dipinti del Rinascimento ci è giunta firmata dai loro artisti. In alcuni casi, questo succede perché furono smembrati delle loro cornici, sulle quali gli ebanisti avevano inciso il nome dell'autore, ma in molti altri questo capita perché firmare non era ancora un'usanza diffusa (come dimostra il caso di Caravaggio, al quale sono attribuiti più di un centinaio di dipinti dei quali uno solo firmato).

Quando firmavano le proprie opere, la maggior parte dei pittori si atteneva a regole molto precise, codificate nel tempo. Tranne il caso eclatante, citato come unicum da tutti i manuali di storia dell'arte, della cappella Baglioni a Spello affrescata dal Pinturicchio, in cui l'artista introduce orgogliosamente nella rappresentazione un piccolo riquadro col proprio ritratto, in genere il modo più semplice e diffuso di rivendicare la paternità di un'opera consisteva nell'apporre in calce il proprio nome, in qualche caso seguito dalla data di esecuzione. Le formule più comuni erano, per esempio, questa opera fece X (hoc opus fecit X), oppure Y dipinse (Y pinxit).

Curiosamente, analizzando le rare infrazioni alla norma, si scopre che, spesso, proprio queste anomalie suggeriscono una personalissima concezione dell'arte, un'estetica poco ortodossa insomma, ma in alcuni casi ancora attuale.

Il caso più singolare resta quello di Vittore Carpaccio. Pittore di scuole, cioè di confraternite religiose, riceveva sovente commissioni per l'esecuzione di grandi tele aventi per oggetto la narrazione di temi religiosi, eventi e cerimonie sullo sfondo di angoli suggestivi della città lagunare. Nell'apparentemente analitica ricostruzione delle architetture veneziane si è voluto rintracciare un antesignano dei vedutisti settecenteschi come Canaletto, trascurando invece le tante, deliberate trasgressioni di Carpaccio, che lo farebbero semmai accostare simpateticamente ai capricci del Guardi.

Non a caso, Carpaccio firmò un certo numero di opere usando forme del verbo latino fingere (come Victor Carpathius finxit), al posto del più comune pingere. Questo semplice cambio di consonante per qualificare la natura del suo intervento sembra essere un caso unico nell'arte del Rinascimento, rimasto senza precedenti e senza successori. Bisognerà aspettare il Novecento (e da noi il Manganelli de La letteratura come menzogna), per sentir ripetere che l'arte è, in sostanza, una finzione, e non la mimesi della realtà.

Non c'è dubbio che Carpaccio intendesse essere esplicito in questo senso: il compito dell'artista, per lui, non era solo quello di imitare la natura, ma in qualche modo di ricrearla. Difatti, la Venezia che fa da sfondo alle sue processioni è falsa, o perlomeno non è Venezia, perché è una sua rappresentazione arbitraria, non diversamente dalla famosa pipa di Magritte (ceci n'est pas une pipe). E, a ben vedere, in entrambi i casi gli artisti affidarono il compito di svelare il trucco della finzione alla scrittura (alla didascalia nel secondo caso e alla firma nel primo), anziché alla pittura.

Jan Van Eyck fu il primo a infrangere la regola della firma codificata, e lo fece in una delle sue opere profane più celebri e polisemiche. Nel ritratto dei Coniugi Arnolfini (1424), oggi esposto alla National Gallery di Londra, sulla parete di fondo, subito sotto lo specchio convesso, campeggia la scritta Johannes Van Eyck fuit hic, cioè Jan Van Eyck era qui presente; e difatti l'immagine dell'artista fiammingo compare nella scena, riflessa in piccolo sulla superficie deformante dello specchio. L'idea dell'artista che, più che creatore, si fa testimone del proprio tempo, sembra per alcuni versi precorrere di alcuni secoli la "teoria dello specchiamento" di Lukacs, pur senza le implicazioni socio-politiche di quest'ultima.

Alla Pinacoteca di Brera, invece, è esposta una tavola cinquecentesca di grosse dimensioni raffigurante la Madonna in trono con Gesù bambino e due santi ai lati. E' di scuola veneta ma, per le ragioni sotto esposte, non dirò quali sono le diverse attribuzioni che gli storici dell'arte hanno proposto finora. Basti sapere che non si tratta di nomi molto noti. Ai piedi del trono c'è un piccolo cartiglio bianco privo di scritte, solitamente usato dall'artista per apporvi la propria firma. All'inizio si pensava che il tempo avesse cancellato la scritta, ma, dopo le analisi di laboratorio eseguite in occasione di un restauro recente, si è giunti alla conclusione che è sempre stato bianco, cioè che l'artista non vi scrisse nulla volutamente.

Non è improbabile che siano solo congetture prive di fondamento, ma mi piace pensare che quell'anonimato intenzionale esprima una sorta di panteismo estetico (in perfetta sintonia con l'utopia tloniana di Borges), secondo il quale l'arte è una vasta creazione anonima, e l'autore è soltanto l'incarnazione fortuita di uno Spirito atemporale e impersonale, capace di ispirare il più bello dei quadri al più mediocre dei pittori e viceversa.

 


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