Israele Day, così non ha senso
Antonio Carioti
L’adesione del professor Luciano Canfora in nome di Stalin, cioè
di uno dei più spietati assassini di ebrei del XX secolo,
basterebbe da sola a suscitare qualche perplessità sull’Israele
Day indetto per lunedì 15 aprile dal Foglio di Giuliano
Ferrara. Ma è alla sostanza dell’iniziativa, ovviamente, che
bisogna guardare, perché gli organizzatori non sono certo
responsabili delle motivazioni addotte da ciascun partecipante.
Sul piano dei principi astratti, l’appello sottoscritto da varie
personalità di destra e di sinistra (da Vittorio Feltri a Furio
Colombo, per citare i più distanti tra loro) è condivisibile al 95
per cento. Solo la frase finale, che accomuna in pieno antisemitismo
(cioè una forma spregevole di razzismo) e antisionismo (cioè
ostilità verso lo Stato d’Israele) suona come un’evidente
forzatura: basta pensare che vi sono tra l’altro molti ebrei
antisionisti.

Il problema vero, tuttavia, è che quell’appello
risulta del tutto inadeguato di fronte ai dilemmi posti dalla
situazione attuale. Non ha senso invocare il diritto all’esistenza
per Israele ignorando la politica seguita dal governo di
Gerusalemme, così come non ha senso invocare i diritti dei
palestinesi ignorando la follia orrenda del terrorismo suicida e gli
errori imperdonabili di Yasser Arafat (primo fra tutti aver
rifiutato a suo tempo le offerte di Ehud Barak e di Bill Clinton).
Difendere Israele è un dovere morale, in primo luogo per noi
europei, ma bisogna innanzitutto chiarirsi le idee su qual è la
minaccia più grave per lo Stato ebraico. Militarmente, la
superiorità di Gerusalemme è schiacciante, non solo nei riguardi
dei palestinesi, ma di tutti i vicini arabi. Ora che non esiste più
l’Unione Sovietica, nessuna guerra convenzionale può essere vinta
contro una potenza che gode dell’appoggio pieno degli Stati Uniti.
E Israele dispone per giunta di numerose testate atomiche, che
garantiscono una notevole deterrenza contro il ricorso ad armi di
distruzione di massa da parte dei suoi nemici. I kamikaze possono
ferire lo Stato ebraico in modo dolorosissimo, ma non certo
distruggerlo dall’esterno.
Eppure Israele è effettivamente a rischio. Lo minaccia dall’interno
la bomba demografica costituita dalla popolazione palestinese, che
cresce a ritmi intensi su tutto il territorio dell’ex mandato
britannico e che non può essere integrata nelle sue istituzioni
democratiche, pena la paradossale trasformazione da Stato ebraico in
Stato arabo. Se continua così, i non ebrei saranno presto in
maggioranza, nel lembo di Medio Oriente che va dal Giordano al mare.
Che avverrà allora, se nel frattempo non si troverà una forma di
convivenza accettabile, secondo il principio “due popoli, due
Stati”?
La realtà drammatica che troppi, compresi i firmatari dell’appello
del Foglio, continuano a rimuovere è che il pericolo più
grave, per l’esistenza di Israele, viene dalla politica dissennata
della destra sionista, indirizzata inequivocabilmente ad annettere
territori abitati da milioni di arabi in nome di un preteso diritto
biblico. Queste forze hanno sabotato il processo di pace fin dall’inizio,
perseguendo pervicacemente il ritorno a una brutale logica militare.
Basta pensare alla campagna ignobile scatenata contro Yitzhak Rabin,
paragonato agli ebrei che collaboravano con i nazisti. O al
massiccio incremento degli insediamenti israeliani in Cisgiordania
cui si dedicò, quando era primo ministro, Benjamin Netanyahu.

L’equiparazione di Arafat a Bin Laden, sostenuta
dall’attuale premier israeliano Ariel Sharon fin dagli attentati
dell’11 settembre, è l’ultimo tassello di una strategia fin
troppo lucida, che nega per principio qualsiasi possibilità di
raggiungere la pace con i palestinesi. Se infatti il presidente dell’Anp
è certamente un personaggio poco affidabile (al pari del resto di
diversi leader israeliani), la sua uscita di scena in un contesto di
guerra spietata non può che favorire l’ascesa dell’integralismo
islamico, con il quale nessuna intesa sarebbe praticabile.
Sharon non chiede di meglio, perché il suo intento è ridurre la
questione palestinese a un problema di lotta contro il terrorismo,
cancellando totalmente dall’agenda la prospettiva di un ritiro
delle forze israeliane dai territori occupati in seguito alla guerra
del 1967. Ma una condizione del genere non si stabilizzerà mai,
perché gli arabi, costretti a vivere in uno stato intollerabile di
segregazione, continueranno a lottare con tutti i mezzi, compresi i
più feroci, contando sull’appoggio del mondo islamico. Israele si
troverà così dinanzi agli stessi dilemmi che hanno dovuto
affrontare la Francia in Algeria e gli Stati Uniti in Vietnam, con l’aggravante
che in quei casi la posta in gioco era infinitamente più bassa.
L’unica soluzione militare possibile sarebbe quella già oggi
proposta dalle frange più estreme, ma in fondo anche più realiste,
della destra israeliana: un’operazione di pulizia etnica che
sgombrasse le antiche terre bibliche di Giudea e Samaria dalla
presenza araba, riequilibrando definitivamente la bilancia
demografica. Ma potrebbe Israele sopravvivere come Stato democratico
dopo aver compiuto un atto del genere, che provocherebbe sofferenze
indicibili e getterebbe nel caos più completo l’intera regione?
Molte altre considerazioni si potrebbero aggiungere, a partire dal
fatto che non si può presentare il conflitto arabo-israeliano
semplicemente come la lotta di uno Stato democratico contro il
terrorismo, se non altro perché atrocità contro i civili sono
state commesse anche da parte sionista. La strage compiuta a Deir
Yassin il 9 aprile 1948, quando i predecessori di Sharon e Netanyahu
distrussero un villaggio e uccisero buona parte degli abitanti, non
fu un episodio isolato, ma la punta estrema di una lotta senza
quartiere comprendente molti altri capitoli sanguinosi, ben
documentati nel libro “Vittime” dello storico israeliano Benny
Morris, edito in Italia da Rizzoli. Ma questi sono discorsi sul
passato che porterebbero troppo lontano.
In Medio Oriente si sta consumando un conflitto tragico, in cui le
ragioni e i torti delle due parti sono paurosamente intrecciati.
Schierarsi unilateralmente per Israele, come se davvero fosse all’ordine
del giorno una nuova Shoah e a minacciarla fosse Arafat, significa
eludere i termini reali del problema. Con il rischio di fornire un
alibi a scelte politiche che, lungi dal garantire la sicurezza dello
Stato ebraico, rischiano a lungo termine (quello che veramente
conta) di comprometterne la sopravvivenza.
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