Ivanov di Checov visto da
Nekrosius
José Luìs Sànchez-Martìn
Una tendenza ormai non più recente di una parte del teatro italiano
è quella di trarre i propri riferimenti, nel senso della poetica di
fondo e dei modi per esprimerla, dal pulp, dal trash e da quelle
zone del sentire umano torbide, degradate, di confine. Possiede,
questa costellazione buia, una propria drammaturgia, talvolta (come
in Inghilterra) di buona fattura, autorevole e dirompente, capace di
partorire messe in scena forti, strazianti e volutamente “disgustose”
come avvenne nel caso del vero e proprio manifesto drammaturgico del
genere, Shopping and Fucking.

In Italia questa cifra artistica, estetica e in
qualche misura politica si è tradotta quasi unicamente nella
progressiva sparizione della figura cardine dell’attore col suo
specifico bagaglio professionale, in luogo di una sequela
pittoresca, quando non tragica, di “mostri”, dai travestiti ai
nani, dai microcefali ai carcerati, dai mutilati agli handicappati,
(dalla Compagnia di Pippo del Bono alla Societas Raffaello Sanzio,
per intenderci sui nomi), esposti nella propria crudezza reale e
quindi nella totale vulnerabilità di persone. Quella coercizione
alla catarsi che passa dall’imposizione di un dramma reale o dall’enfatizzazione
di uno dei suoi aspetti più duri pretende di denunciare la
decadenza, in realtà le rende omaggio, millanta di affrontare le
ombre, in verità le moltiplica narcisisticamente. A nostro avviso
questa non è la sola via per fare un teatro contemporaneo.
Vi è infatti una tendenza internazionale che premia, in questo
momento più che mai, quel teatro portato avanti da maestri come il
lituano Eimuntas Nekrosius, che con le proprie rivisitazioni di
Shakespeare e Cechov (Amletas, Macbetas, Otelas; Il Gabbiano,
Ivanov) non ‘rappresenta’ il contemporaneo, piuttosto lo
riconduce a ritroso in un tempo e luogo arcaico, fuori contesto,
esente da una situazione riconoscibile o declamata in costume, ne
evince l’elemento saliente, il nodo irrisolto, l’atmosfera tesa
in cui si svolgono i fatti, portando le persone di fronte alle
persone e grandi energie primigenie a incontrarsi o respingersi.

Per un teatro come il suo; che da alcuni anni si
sta incidendo nell’immaginario di molti spettatori di tutte le
età e di tutta Europa, sono irrinunciabili in quanto perno e fulcro
del suo lavoro, gli attori, accanto ovviamente alla sua
incontenibile forza di sintesi poetica, di metafora e di visione
profonda che spesso è veicolata con l’uso rituale degli elementi
della natura (acqua in particolare ma anche ferro, terra fuoco,
legno, pietra, eccetera).
In questi giorni nuovamente in Italia, al Teatro Argentina di Roma
con uno spettacolo coprodotto da Teatro di Roma, Teatro Biondo
Stabile di Palermo e Aldo Miguel Grompone, il genio registico di
Eimuntas Nekrosius mette in scena Ivanov di Cechov con una
compagnia di attori italiani. E la differenza tra i suoi precedenti
capolavori e quest’ultimo consiste proprio negli attori. Qui non c’è
il mitico Bagdonas, attore immenso e travolgente sia nei panni del
padre di Amleto che nel terribile Otello, nè i suoi straordinari
interpreti lituani che danno vita, voce e corpo a quel magma
incandescente e misterioso che la sua irruenza creativa solleva; qui
ci sono attori italiani disomogenei nel registro recitativo:
tromboni di vecchia scuola ottocentesca camuffati quel che basta a
darla a bere agli abbonati in naftalina, accanto a giovani aitanti
che calcano i toni in modo eccessivo e con isterismo per riempire
disperatamente un vuoto che essi stessi creano, e infine alcune
iniziative individuali che affiorano nell’innocenza di
giovanissime leve che riescono, magari con la freschezza, laddove il
mestiere (discutibile) di altri non aveva saputo.
Ma c’è anche una differenza tra uomini e donne molto marcata. Le
donne, come spesso accade in teatro, risultano sempre e comunque
più generose e intense, non di rado all’altezza della scena
creata dal regista. In modo speciale ci piace ricordare la brava
Mascia Musy nel difficile ruolo di Anna Petrovna, moglie malata di
Ivanov e Alvia reale, ragnesca presenza sempre appoggiata a due
bastoni che diventano zampe nel suo portamento caricaturale.
La noia cala sulla platea, come un alone opaco. Poi di colpo, come
per magia, in tutte le scene collettive, dove ciò che predomina è
la mano del regista e dove quindi tutto deve rispondere dell’unitarietà
e della sua visione d’insieme, lo spettacolo accelera
improvvisamente e decolla, lasciando lo spettatore ammutolito a
subire tanta forza e bellezza, immerso in un mondo pieno, denso,
lontano quanto suggestivo; infine, al ritorno del primo dialogo, o
peggio, di uno dei numerosissimi monologhi del protagonista, si
riatterra brutalmente nella poltroncina rossa. Nonostante ciò, dopo
oltre quattro ore di rappresentazione si ha l’impressione di aver
assistito ad un grande spettacolo, ci si dimentica della noia e si
ripensa continuamente allo splendido finale, quando gli attori si
dispongono come in una processione da rituale agricolo e avanzano
verso il protagonista nell’atto simulato di falciare il grano
emettendo all’unisono un sibilo della bocca che imita il rumore
della lama che recide il grano, grano che è sempre simbolo della
vita e della rinascita e che invece ora si trasforma in elemento
della morte e viene falciato via così come la vita del
protagonista.
Non c’è dubbio che il rinnovamento del teatro italiano riparta
dal recupero delle proprie origini e sicuramente dal contributo che
viene dall’Europa dell’Est, da Praga, da Cracovia e da Mosca,
per esempio. Peccato che in Italia ci si accontenti di leggere, se
si ha fortuna, su qualche giornale di cultura dello splendido
spettacolo che la tal compagnia del tal paese sta facendo ovunque
per l’Europa, ovunque ma non in Italia.
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