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Alla ricerca di un denominatore
comune
Roberto Barzanti
Un nuovo appello è stato proposto. Un nuovo elenco di firmatari si
aggiunge ai molti che si sono andati infittendo negli ultimi tempi.
Quest’ultima iniziativa s’intitola “Opposizione civile”. Il
succinto testo diffuso culmina in una domanda di difesa della “democrazia
liberale”, dello “Stato di diritto”, e richiama la “necessità
di un’opposizione senza compromessi al governo”.
Che si moltiplichino movimenti o si formino gruppi desiderosi di
portare un loro contributo autonomo a sacrosante battaglie di
opposizione in sé è fenomeno da apprezzare. Il panorama che ne
risulta è assai variegato a testimonianza di un vivo e fecondo
pluralismo. Senza discutere nel merito culture e obiettivi delle
iniziative avviate - penso in particolare a quelle promosse da Micromega,
al convegno all’Eliseo delle riviste capeggiate da Italianieuropei,
alla sollecitazione per costituire un’associazione dei riformisti,
ai girotondi e alle assemblee, da Firenze al Palavobis - è
ineludibile un tema spesso evitato o sottinteso. Il partito politico
viene ancora ritenuto la sede principale e lo strumento decisivo per
incontrarsi, discutere, stabilire comuni programmi e farne derivare
coerenti comportamenti?
C’è o no un bisogno crescente di unità e di accordo che esalti i
punti di convergenza ricercando un denominatore comune? Tutti
sappiamo che la crisi dei partiti in quanto tali è uno dei tratti
evidenti di questa travagliata fase politica. Non a caso di tanto in
tanto - limitandosi ad analizzare l’ambito delle forze che non si
riconoscono nella scassata coalizione governativa - viene rilanciato
l’Ulivo come soggetto in grado di esprimere una linea, di
indicare un programma, di parlare con una voce e
quindi di favorire una dinamica aggregante, un confronto che si
traduca in un far politica insieme, nel rispetto delle differenze e
delle diversità di analisi e di impostazione.
Il pulviscolo delle iniziative in corso - mi soffermo su quelle meno
tradizionali - manifesta sicuramente un disagio più che
comprensibile e una vivacità benefica. Il partito dei Democratici
di sinistra non è pienamente riuscito a presentarsi come una sede
aperta di lavoro solidale, la persistenza di vecchi moduli
burocratici e di ritualità fastidiose ha creato e crea impaccio ed
imbarazzo. Lo svolgimento del Congresso di Pesaro si è risolto in
una lungagnata assai nebbiosa e le sue conclusioni non si sono
puntualizzate in un tempestivo e incisivo programma di interventi.
La formulistica (costruire il partito del riformismo di stampo
socialista, ovviamente con respiro europeo) ha prevalso sulla laica
chiarezza di un vero “Programma fondamentale”: un importante
strumento da valorizzare della tradizione socialdemocratica, ma mai
veramente assunto - si veda la fine non gloriosa dei testi
coordinati da Michele Salvati e da Giorgio Ruffolo - quale passaggio
costitutivo di un partito moderno e laico.
Eppure, se non si riesce a costruire dei partiti, transitori e
deboli finché si vuole ma riconoscibili e radicati, che, stabilendo
organici e sistematici rapporti, diano vita ad una federazione forte
di una strategia condivisa e in prospettiva ad un vero e proprio
soggetto comune (la casa dei riformismi, si è detto e ripetuto) non
vedo come si riesca a superare una frammentazione che può
accontentare solo ristretti gruppi intellettuali e leader più o
meno carismatici. Di questo passo sarà inevitabile che i partiti
divengano sempre più comitatini elettorali, si rinsecchiscano in
burocrazie o siano utilizzati quali mezzi di potere per
lottizzazioni di nuovo tipo.
Vorrei tanto suggerire un (oggi) impopolare appello contro gli
appelli e invitare ad un lavoro umile, quotidiano, ostinato, perché
almeno quanti accettano la prospettiva riformistica, così come nei
suoi termini generali (troppo) si è definita nella piattaforma del
Congresso di Pesaro riflettano sul futuro organizzativo di una
opposizione che riesca a essere vincente. Riteniamo davvero che
moltiplicando le associazioni e sfrenandosi - anche con suggestiva
fantasia - in gruppi fieri ciascuno di un’identità da inalberare
si dia concretezza ad un’alternativa efficace al governo e all’insieme
di forze che lo sostengono?
Enfatizzando le ambizioni egemoniche di movimenti effimeri e di
fatto teorizzando che tutto il nuovo deve essere elaborato e
svolgersi fuori dai confini dei partiti, si acuisce il rischio di
approdare inevitabilmente a sbocchi massimalistici e parziali, non
ignoti alla storia del movimento operaio e della sinistra, in Italia
e in Europa. E’ una storia che dovrebbe far riflettere i partiti
della sinistra - e quelli d’ispirazione più moderata - non meno
che le fondazioni, le riviste, i molti organismi che di un
riferimento alla dimensione partito non possono far a meno se
vogliono concorrere a costruire un consenso di massa attorno ad un’opzione
d’impronta riformistica, in grado di dialogare e di espandersi, di
diventare una convincente maggioranza di governo.
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