Portasudeuropa
Maria Pia Daniele con Antonia Anania
Tra rifugiarsi in Francia con il fidanzato e l’amica o rimanere a
dare voce alle donne algerine, Khalida, giovane giornalista, sceglie
la seconda opzione. E’ il periodo del boom del terrorismo
islamico, la seconda metà degli Anni Novanta.
Potrebbe essere l’incipit di un soggetto cinematografico,
invece è quello di un monologo teatrale, Portasudeuropa, scritto
da Maria Pia Daniele, diretto da Stefania Felicioli e interpretato
da Bruna Rossi. In scena al Teatro Gobetti di Torino, fino al 24
marzo. E che ha ispirato una tavola rotonda, Donne islamiche:
cultura e confronto, moderata da Marcello Sorgi,
direttore de La Stampa, tenutasi l’11 marzo nello stesso
teatro.
L’autrice di Portasudeuropa è napoletana e vive a Roma da
quando frequentava l’Accademia d’Arte Drammatica “Silvio D’Amico”,
dove Aldo Trionfo, allora direttore, lesse le sue prime drammaturgie
e la incoraggiò a continuare. A Caffè Europa racconta di
questo monologo e di come portare sulla scena le donne, l’impegno
e il Sud, “un Sud dell’Europa che arriva fino all’Algeria che
quindi si chiama Portasudeuropa”.
Come le è venuto in mente questo monologo?
Il testo è del '96 e parte da un’emozione: mi sembrava
inconcepibile che ci fossero da qualche parte del bacino del
Mediterraneo donne emancipate come me, che cercassero di difendere
la propria identità femminile moderna e per questo dovessero vivere
ogni giorno nella paura e nel rischio della morte. La pièce
è ambientata nel periodo più violento della persecuzione degli
integralisti anche ai danni di donne ‘normali’, come le
parrucchiere, la cui unica colpa era pettinare i capelli, o donne
che sposavano uomini di una diversa nazionalità o religione. All’epoca
anche i giornali italiani s’interessarono di queste vicende ma
passando il tempo, le notizie dei morti algerini passarono dalle
prime pagine ai trafiletti di cronaca.

E visto che la cosa peggiore è chiudere gli
occhi, in qualità di drammaturga che si occupa del cosiddetto “Teatro
di impegno civile”, ho pensato di scrivere questo lavoro, che è
stato prodotto grazie alla lungimiranza di Massimo Castri, direttore
del Teatro Stabile di Torino (ora dimissionario n.d.a.). In tempi
non sospetti. Perché il cartellone è stato programmato nell’estate
del 2001, prima che i fatti dall’11 Settembre in poi,
coinvolgessero tutti.
Adesso allora è cambiato il motivo o il significato della piece?
All’epoca voleva essere un modo per denunciare la situazione
algerina alla società italiana, che è legata al paese magrebino
per motivi economici, si pensi alle vicende del Gasdotto
Transmediterraneo. Voleva essere una denuncia per smuovere la nostra
sensibilità di mediterranei e provocare la voglia e la possibilità
di un dialogo con gli algerini. Poi, oltre a questo, è diventato un
modo utile per pensare che anche la nostra realtà ha delle grosse
contraddizioni, e fa bene accostare realtà apparentemente diverse,
per porre dei quesiti.
Il Teatro d’impegno civile dunque serve a questo, secondo lei?
Il Teatro d’impegno civile ha ormai una responsabilità nei
confronti di tutti. Serve a porre interrogativi che certamente sono
un punto di partenza per governare o risolvere o modificare le cose.
Non so se il Teatro di impegno civile incida nei fatti politici, so
invece che se le dinamiche di violenza e sopruso passano sul corpo
delle donne, mi riguardano non solo come cittadina anche come donna.
Perché le recenti conquiste del femminismo, hanno fatto sì che la
donna di oggi sia diversa dal passato, cosa che per molti è
difficile da mandar giù. Spesso vorrei scrivere di tutti e invece
mi ritrovo, per esempio in Portasudeuropa, a parlare di una
donna la cui identità autentica viene soppiantata perché
considerata impura, e questo è terribile.
La storia di Khalida è vera o si ispira a qualcuno?
Non si ispira in particolare a una donna ma dentro di lei se ne
possono ravvisare almeno cento. Ho letto con raccapriccio di
uccisioni di gente normale e mi interessava che si riflettesse sulla
situazione paradossale di intellettuali perseguitati e di un governo
di censura. Nel testo si racconta che non c’era libertà di
stampa: si toglieva la carta nelle redazioni dove era pure prevista
la figura del censore. Ho pensato che il fatto di soppiantare le
menti fosse una cosa voluta. E ho pensato anche alla concezione di
Albert Camus del “giornalismo come tribuna”: Khalida si impegna
a lottare in prima linea, contro la censura, e scrive un pezzo
contro il codice della famiglia stabilito nel 1984. E’ l’impegno
in prima persona di una voce che racchiude quelle di intellettuali e
non, che in Algeria si organizzano in piccoli comitati in lotta. E d’altra
parte mi interessava sottolineare l’impegno e la partecipazione
delle donne alla collettività.
Khalida era innamorata, e tra l’amore per il suo uomo e quello per
la collettività femminile vince quest’ultimo, perché?
Khalida fa la scelta di rimanere perché è una sorta di eroina
moderna, che ha una concezione altamente etica della sua missione. E’
un atto estremo di rinuncia, non di scelta. Ci sono persone votate
al sacrificio, come Khalida, che si battono e si occupano di un
progetto di democratizzazione del proprio paese che riguarda il bene
di tutti e per questo, devono rinunciare alla propria sfera privata,
al proprio amore. Ed è triste che sia ancora così.
Khalida porta il velo?
No, si sforza di vivere e vestire secondo i modi occidentali. Ho
letto spesso delle polemiche sul velo, sul fatto di accettarlo o
meno, ma non ci si rende conto che il velo rappresenta la soggezione
della donna. Secondo gli islamici, i capelli sono un elemento di
turbamento e seduzione, e per questo devono essere nascosti; già da
qui si evince una concezione della femminilità che io, come Khalida,
rifiuto per principio, perché è legata a un solidarismo
patriarcale lontano da essere sostituito dalle istanze moderne.
Lo spettacolo è dedicato a Ilaria Alpi e Maria Grazia Cutuli.
Khalida è come loro: giornalista e vittima?
Ilaria Alpi e Maria Grazia Cutuli sono vittime e questo non si
sceglie. La loro scelta invece è simile a quella di Khalida:
rimanere a lottare per la comunità. Sono giornaliste di guerra che
con coraggio, un valore considerato maschile, si sono battute per
restituire verità e dignità. In particolare mi ha colpito che
Maria Grazia Cutuli negli ultimi tempi, tra le varie cronache di
guerra, avesse parlato anche di pedofilia; mi ha colpito che lei
meridionale come me, proveniente dal Sud, dove sono molto presenti l’appartenenza
a un clan, l’omertà e la dignità in quanto ‘stare in silenzio’,
fosse così incisiva nei suoi scritti, come chi ha bisogno di
rendere chiara e limpida la parola. Portasudeuropa si
conclude sì con una morte, un oltraggio fisico violento nei
confronti di Khalida, alla quale tagliano la lingua, ma si conclude
anche con la parola che vince sul corpo oltraggiato. Ci fa sentire
che Khalida come Ilaria Alpi e Maria Grazia Cutuli, fa parte di una
realtà di donne che parlano, malgrado tutto.
Che cosa pensa del fatto che queste giornaliste di guerra vengono
spesso e unicamente ricordate o premiate ‘in morte’?
Il riconoscimento serve a ricordare le loro qualità, ad augurarci
che altre morti così, non accadano più e a volte ad indicare quali
sono le responsabilità a chi non vuole prendersele. Parlarne ‘a
posteriori’ purtroppo accade ed è inevitabile; mi piace pensare
che serva da incoraggiamento a continuare il loro lavoro fatto di
parole trasparenti. Ho scritto un’altra opera, La stanza delle
mosche, ambientata in un albergo che è il quartier generale di
alcuni giornalisti di guerra a Sarajevo, perché è giusto ricordare
chi è sceso in campo in prima persona, rischiando la vita. E
purtroppo perdendola. Bisogna avere memoria.
Abbiamo parlato del Sud, delle donne e dell’impegno: quale
costante ha notato in tutto questo, facendo le ricerche utili per
scrivere i suoi testi? E perché serve scrivere monologhi al
femminile?
Le dinamiche che ho studiato scrivendo Portasudeuropa sono
simili a quelle che si avvertono nella trilogia che ho dedicato alle
donne del Sud Italia: come l’Algeria, anche noi abbiamo vivo il
conflitto tra arcaico e modernità. Scrivere monologhi al femminile
serve anche a testimoniare che in questo momento storico esistono
donne moderne che hanno di fronte delle donne antiche: da un lato le
donne che portano avanti valori profondi come l’uguaglianza, la
libertà, il bene comune e dall’altro le depositarie dell’arcaico,
dei codici familisti intrisi di onore, sangue, spirito di vendetta.
Ne Il mio giudice (che sarà in scena in estate in Sicilia,
con Almerica Schiavo, n.d.a.), la protagonista, Rita Atria (l’assistente
di Paolo Borsellino che si è suicidata poco dopo l’attentato al
giudice, nel 1992, n.d.a.), aveva di fronte sua madre come
antagonista.
Il nuovo è legato a istanze democratiche, per cui anche al Sud
esiste la risposta moderna al clan che è la collettività. In Faide,
un testo congegnato alla maniera della tragedia greca, l’arcaico
è manifestato anche dall’ambiente contadino e dai coltelli. In Cattive
madri, che si sposta a Torino dove emigra una famiglia
meridionale, i fatti arcaici si acuiscono e cozzano con le
sollecitazioni al rinnovamento, che spesso nel Sud non sono
sostenute da un apparato statale forte, che coglie o garantisce
queste richieste.
Nelle mie opere racconto spesso del clan, primitivo e tribale. In Regina416
(in scena a Napoli nella prossima stagione invernale di prosa,
con Mariano Rigillo e Lina Sastri, n.d.a.), Anna, una donna
di camorra, reagisce al clan e consegna alla giustizia “la belva
che ha allevato”, suo figlio. Serve scrivere monologhi per far
sapere che laddove c’è una bassa coscienza civile, ci sono anche
valori retrivi legati al familismo. E che la barbarie è un fatto
mentale prima di essere fisico, come ricordava Euripide per la sua Medea.
Qual è la parte di Portasudeuropa della quale va più
fiera?
Il momento della preghiera, in cui lei dice: -“E’ l’ora
della preghiera, una mostruosa luna sorge per il dialogo con gli
assassini, lavandoci il volto”. E poi mima un rito con l’acqua
che è in un catino: “Le mani tre volte. Ci prepariamo. Si versi
buona sabbia e acqua ancora, (…). Se tu taci muori, se tu parli
muori e allora parla e muori”. Getta via la bacinella e riprende a
lavorare-. Mi viene in mente questo momento perché rappresenta
il rifiuto di Khalida nei confronti del femminile legato alla festa
e al sacrificio, a favore di istanze della mente, intellettuali.
Anche nel Meridione d’Italia spesso le donne lavano l’oggetto
sacrificale perché il loro potere, oltre a quello affettivo, di
madre e moglie, è essenzialmente magico. Questa ritualità che
viene vista anche con sospetto dagli uomini, è connessa alle feste
stagionali, alle complesse pratiche simboliche della purificazione.
Khalida getta via questa bacinella che indica il sacrificio, perché
proprio lì ci sono degli ostacoli, perché se in qualche modo il
recupero delle tradizioni è positivo, fin quando non si fa
chiarezza su quello che vorrebbe essere l’identità femminile
moderna, attaccarsi in maniera ortodossa alle tradizioni non fa
bene.
E’ chiaro che si devono fare anche delle premesse politiche, che
nel Sud Italia, come in Algeria, ci sono delle responsabilità dello
Stato: l’Algeria è piena di hittisti, giovani disoccupati che
vengono reclutati dall’integralismo islamico per uccidere, come fa
la camorra a Napoli. Il Meridione poi è stato distrutto da una
politica centrale che non ha salvaguardato il territorio e ha voluto
industrializzare moltissime aree. In Portasudeuropa una donna
si fa carico di tutte queste ingiustizie, e non è per spirito
femminista che ho scelto una donna, ma perché la condizione di
Khalida è estrema e allo stesso tempo ricorda che più di cinquanta
giornaliste sono state assassinate in Algeria. E la lista si
aggiorna continuamente.
Portasudeuropa di Maria Pia Daniele, regia di Stefania
Felicioli, con Bruna Rossi, scene e costumi di Claudia Calvaresi,
suono di Franco Visioli, (composizione per il finale, Nicola
Bernardini), al Teatro Gobetti, fino al 24 marzo 2002 (Prima
nazionale).
Per conoscere le altre date della tournèe si può visitare il sito
del TST alla
voce ‘Produzioni’.
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