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La par condicio del Sapere



Carlo Violo




Sere fa, sopraffatto dalla stanchezza di una lunga giornata di lavoro e incline a indulgere alla pigrizia, mi sono messo a fare un po’ di zapping, così, tanto per addormentarmi prima. Immediatamente sono stato catturato dall’ennesimo servizio sulle miss più o meno in erba, su una primaria rete nazionale. La miss in questione aveva 17 anni e, attorniata da tutta la famiglia orgogliosa di mostrare una siffatta rampolla, stava rispondendo alla intervistatrice sulle motivazioni circa la decisione di intraprendere tale carriera.

Fin qui nulla di male. Che il linguaggio dell’intervistata non fosse particolarmente ricco di grammatica e sintassi passi: chi richiede a una aspirante miss diciassettenne la conoscenza della Divina Commedia? Che una rete nazionale trasmettesse quasi in prima serata una faccenda di peso mondiale alquanto discutibile avrà la sua logica mondana: non si può sempre stare con la testa tra le mani a pensare all’Afghanistan e alla Palestina o alla fame nel mondo.

Il problema è che mi sono improvvisamente accorto, con uno di quegli strani soprassalti della coscienza che giungono attraverso una serie di eventi concatenati, che non c’era in quel momento assolutamente nulla su tutte le reti più importanti che andasse oltre la pubblicità, qualche gioco del tipo ‘'se la sai rispondi’, e i servizi di cui sopra. Mi sono messo a zompare su tutti i canali sempre più incredulo ma il risultato era lo stesso. Un vuoto totale.

Naturalmente qualcuno potrà giustamente osservare che non è democratico definire le interviste ad aspiranti miss o i talk show o i quizzetti come vuoto. Se gli indici di ascolto si mantengono alti vuol dire che quello che per me è ‘vuoto’ rappresenta per qualcun altro quanto di più interessante possa propinare l’etere. Infatti la mia preoccupazione nasce proprio da qui. Non c’è dubbio che le TV trasmettano quello che la gente vuole, seguendo i famigerati indici di ascolto, cioè i gusti del mercato. Anche questo ha la sua logica visto che gli affari sono affari.

Però qualcuno, ogni tanto, ha fatto autorevolmente osservare che le trasmissioni TV hanno un grande impatto sociale, rivestono una grande importanza nel condizionare le coscienze e costituiscono un potentissimo strumento di educazione, o diseducazione; dipende dai punti di vista. Su questi temi è stato già detto troppo perché si possa aggiungere qualcosa di nuovo. La mia preoccupazione nasce da un quesito che mi pongo quasi quotidianamente, di natura molto meno specialistica e molto più intimistica, nel senso della coscienza personale, ogni volta che mi pongo davanti allo schermo TV.

Parliamo tutti di pace, di guerra, di fame, di malattie, dei destini ecologici del mondo, dell’inquinamento delle città, dell’abuso dei minori, del rischio di scomparsa di intere popolazioni, di mucca pazza, del terrorismo, della ricchezza e della povertà, del commercio globale, dell’ONU, dell’America e dell’Europa, dei proiettili radioattivi, delle guerre di religione, di giustizia e ingiustizia, delle bombe su questo o quel villaggio eccetera eccetera. Bene. Ed io povero utente del più potente dei mezzi di informazione, povero cittadino alle prese con problemi epocali più grandi di lui, devo assistere ad un uso così poco utile del tempo? Mi cadono le braccia.

Già sento qualche tipo di risposta. Ci sono i telegiornali, c’è Santoro e Vespa, ci sono i servizi speciali e nessuno ci obbliga ad assistere a ciò che non ci piace. Inoltre con la TV abbiamo tutte le notizie di cui abbiamo bisogno! E’ vero. Ma la sensazione che ho, da normale telespettatore, è che i problemi epocali e globali, quelli che ci riguardano tutti perché coinvolgono il futuro nostro e dei nostri figli, anche quello delle aspiranti miss adolescenti, non abbiano lo spazio che meriterebbero. Parlo di spazio di approfondimento, naturalmente. Non so se qualcuno abbia mai fatto qualche tipo di rilevazione statistica al riguardo.

Così se consideriamo lo scarso livello di letture del nostro Paese, il tempo passato a dormire e lavorare, quello passato in pizzeria o con gli amici, il tempo e l’energia speso nelle normali attività quotidiane e sommiamo tutto ciò allo spazio speso dalle TV in generale in trasmissioni più o meno superficiali, mi sorge spontanea una domanda: stiamo facendo il massimo per far crescere la coscienza critica della gente su questioni strategiche e vitali per tutti? Quella coscienza a cui spesso si fa appello per indicare una speranza di soluzione dei problemi? Quello che mi domando, insomma, è se per caso non esista un altro tipo di par condicio oltre a quella, ben nota, che riguarda questo o quello schieramento politico: la par condicio del sapere.

Che vuol dire dare stesso peso alle diverse categorie di contenuti. Non mi riferisco all’informazione in senso stretto perché sono d’accordo sul fatto che i notiziari effettivamente non manchino. Parlo di ‘sapere’, cioè di quel processo energetico che porta all’aumento del tasso di riflessione critica delle coscienze, processo che presuppone un alto indice di contenuti e una elevata intensità di comunicazione attraverso l’impiego di risorse umane, economiche e tecniche di altro livello rispetto alla pura informazione. Non riesco a togliermi dalla mente l’idea che non c’è nulla che somigli ad un pasto gratis. Trattandosi di un processo di comunicazione ad alto valore aggiunto che, come tutti i processi terreni, possiede un suo proprio rendimento che non è prossimo al 100%, non riesco a togliermi dalla mente che per ottenere un aumento del valore delle coscienze, a valle del processo, occorra un adeguato impiego di risorse, comunque intese, a monte.

Quando dico par condicio del sapere, ripeto, non mi riferisco alla cronaca. E’ giusto che ci siano dibattiti sui temi della giustizia e simili, sapete, quel tipo di dibattiti in cui tutti parlano contemporaneamente e non si capisce nulla; è giusto che ci siano i servizi sui fatti di Genova o dell’Afghanistan o giù di lì. Ma stiamo ancora nel settore della cronaca e dello spettacolo, interessante o drammatico che sia. Direi che stiamo nell’ambito dello spettacolo dei fatti di cronaca. No. Parlo di quel tipo di investimento educativo che passa per l’ascolto della musica, per l’affinamento della sensibilità letteraria e poetica, per la consapevolezza del linguaggio, per la storia e l’attualità dell’arte, per l’approfondimento dei grandi temi filosofici e religiosi, per la storia e l’attualità dei grandi temi dell’etica della scienza e della ricerca, per l’analisi dei grandi drammi della storia che stanno alla radice dei drammi di oggi, per la scoperta del piacere di interrogarsi sull’uomo e l’umanità ricordandosi che siamo una specie in grado di ragionare e intuire.

Insomma, nulla di nuovo. Sono più o meno gli stessi temi che sono sempre stati considerati appannaggio degli educatori di tutte le epoche e tutte le culture. Si chiama insegnamento ‘umanistico’, qualcosa che agisce non attraverso l’accumulo di nozioni ma fornendo gli strumenti di base per auto alimentare il proprio livello di cultura. Agisce non incrementando il numero delle nozioni ma sviluppando la capacità di imparare, analizzare, pensare, inventare, criticare e altri simili strumenti di conoscenza. Qualcuno potrà giustamente obiettare che per l’educazione umanistica di base è stato già escogitato uno strumento di insegnamento: si chiama ‘scuola’.

Lasciamo stare. Se la faccenda funziona o no, se la scuola veramente prepara per la vita e di quale riforma sia necessaria ne stanno già parlando tutti. Ma se i temi centrali della nostra vita, presente e futura, sono quelli sopra elencati e se il nostro tempo è quindi molto prezioso; se la TV occupa in maniera quantitativamente e qualitativamente significativa tale tempo; se l’educazione è un processo che non si esaurisce con il periodo scolastico; se dobbiamo fare i conti con tutti gli strumenti di progresso che abbiamo, scuola o non scuola, famiglia o non famiglia, computer o non computer; se la TV possiede la grande virtù di influenzare il pensiero delle masse e la capacità di trasmettere comunque un tipo di ‘insegnamento’ o di messaggio di costume; se del processo di crescita della capacità critica delle coscienze vogliamo prendercene a tempo pieno la responsabilità come collettività, perché lo riteniamo un bene primario di progresso della civiltà, un bene che appartiene al Paese e non a questo o quel comandante del vascello; se tutti questi ‘se’ hanno una ragion d’essere allora esiste una legittima e strategica questione di par condicio del sapere.

 


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