Manhattan, ultima tappa
Italo Moscati
Quello che segue è l'ottavo di una serie di resoconti scritti da
Italo Moscati, storico del cinema, sceneggiatore e regista, di
ritorno da un viaggio negli Stati Uniti svolto fra la fine del 2001
e l'inizio del 2002.
E’ accaduto e forse accadrà ancora. Dopo che nel marzo 2001 la
CBS ha trasmesso le immagini inedite dell’attacco alle Torri
Gemelle girate da due registi francesi - presenti per pura
casualità sul luogo del delitto dei kamikaze- si può stare sicuri
che ci saranno altre immagini fotografiche o televisive che prima o
poi verranno scoperte e presentate. La macchina mediatica si nutre
di questi scoop. Scoop che coincideranno con la ricorrenza di un
anno dall’attacco, due anni, tre anni, e così via.
Questa volta l’occasione sono stati i sei mesi trascorsi dall’avvenimento
che abbiamo tutti preso l’abitudine di classificare come quello
che ha segnato la nostra vita. “Dopo l’11 settembre nulla sarà
come prima”, ecco la frase che si è stampata nella mente di tutti
noi.

Al termine del mio viaggio negli Usa, avvenuto dai
primi di dicembre del 2001 ai primi di gennaio del 2001, scopro che
l’immagine dell’America è cambiata non soltanto per lo scarto
esistente tra la leggenda o il sogno americano, entro il quale
cinema, letteratura, tv e consumi ci hanno cresciuto, e la realtà
di un paese addestrato alla guerra in stato permanente (dalla Corea
al Vietnam, e via via fino al Golfo e adesso all’Afghanistan); ma
anche e soprattutto per il fatto che quella immagine leggendaria, a
colori pastello, si è trasformata in un racconto crudo, spietato e
ripetitivo a causa della inestinguibile voracità della macchina
mediatica.
Faccio qualche esempio, tornando indietro nel tempo. Per chi ha
potuto vedere i filmati sulla seconda guerra mondiale di Frank
Capra, John Huston e William Wyler - tre grandi registi - il
confronto fra il passato di sessanta anni fa e il presente oggi è
abbastanza semplice. Ma chi non li conosce, può ugualmente
afferrare il senso di un cambiamento, perché i filmati di oggi,
realizzati da anonimi operatori o registi, parlano chiaro e non
lasciano illusioni rispetto all’uso che si può fare delle
cronache rubate con la telecamera.
Dunque, Capra, Huston e Wyler raccontarono i motivi dell’entrata
nel conflitto mondiale degli Usa, e gli sviluppi del conflitto
stesso fino alla caduta di Mussolini e di Hitler, come un film in
progress, come un dramma di cui le premesse erano poche e
schematiche, e il finale non poteva essere che un happy end, un
lieto fine. Capra, fra i tre, era il più esplicito e didattico. Il
globo era, secondo i suoi celebri filmati, diviso in due: da una
parte il “male” incarnato dai dittatori e dalla loro insaziabile
fame di potere e di dominio; dall’altra il “bene”, ovvero gli
Usa e gli Alleati che, pur commettendo errori, erano i paladini
della libertà e della giustizia, oltre che della pace. Un’impostazione
netta, come non poteva non essere, e che rispondeva certo a un
intento di propaganda ma che aveva comunque un'indiscutibile forza
di verità.

Nel porsi al servizio del “bene”, anche Huston
e Wyler nel loro lavoro inserirono modi spicci e concreti per
descrivere, il primo, l’offensiva alleata nel Sud Italia a
cominciare dal luglio 1943, data dello sbarco in Sicilia; e, il
secondo, l’ingresso- girato a colori- degli americani a Roma nel
giugno 1944, il balzo in avanti che doveva essere completato poco
meno di un anno dopo a Milano con il 25 aprile e la Liberazione. Nel
film in progress, i due registi dovevano completare, all'interno del
disegno strategico complessivo del cinema al servizio dei piani
militari e politici, la presentazione fatta con mirabile abilità
introduttiva da Capra proponendo a loro volta le tappe essenziali
verso la gloriosa vittoria contro il nemico, i suoi eserciti, i suoi
“dipendenti” (fra i quali le folle plaudenti del fascismo e del
nazismo prima degli amari risvegli sotto le bombe). Tappe essenziali
e tuttavia piene di buchi. A Huston fu chiesto di non montare nella
sua parte del racconto le terribili immagini dei corpi dei
giovanissimi soldati americani caduti in combattimento e infilati
dentro sacchi di juta per essere rispediti in patria. Wyler si
limitò a riprendere con la sua pellicola a tremolanti colori le
scene del trionfo popolare nelle vie della capitale e trascurò le
scene di miseria che invece Roberto Rossellini stava per inserire
nel suo Roma città aperta.
Cinquant’anni dopo quei fatti, moltiplicando per due gli anni del
celebre romanzo di Alexandre Dumas, le censure sono definitivamente
cadute e il romanzo della seconda guerra mondiale si è rivelato
carico di rivelazioni spesso scioccanti, come ci si poteva
aspettare. Le immagini nascoste di Huston sono riapparse con un
effetto inevitabilmente crudo e realistico, al di là delle
celebrazioni e delle bandiere piantate nei paesi liberati: i
cadaveri dei marine nei sacchi di juta ne sono usciti al cadere
delle censure e subito sono stati collocati nel sacrario mentale
degli americani (e del resto del mondo), insieme ai cinquantamila
caduti del Vietnam e ai molti altri scomparsi nella “guerra
infinita” e spezzettata che è continuata nella seconda parte del
secolo. Così pure le immagini degli anonimi operatori di guerra
americani delle Combat Unit sono a disposizione di tutti coloro che
vogliono andarle a vedere, e anche acquistare, negli archivi statali
di Washington. Grazie ad esse, si può apprendere al di là dei
dettagli quel che avveniva nella lunga offensiva alleata in Italia,
fra scontri coi i nazisti e i militi della Repubblica di Salò,
sotto un cielo pullulante di bombardieri: non ci sarebbe stata
alcuna liberazione senza sangue versato, molto sangue.
Ma se oggi questa atroce combinazione appare ovvia, come in tutte le
guerre, meno ovvia è la cura posta nelle riprese. La seconda guerra
mondiale fu un grande set cinematografico, il penultimo dopo il
Vietnam. Le azioni belliche a terra erano seguite da tre o quattro
macchine da ripresa, situate in collocazioni diverse per avere il
massimo delle possibilità di montaggio; ogni “scena” veniva
filmata dopo un regolare ciak di avvio; laddove si poteva, i
movimenti dei soldati erano predisposti e venivano persino impiegati
fumi artificiali per riprodurre quelli delle vere esplosioni.
Insomma, la guerra come un film, con una narrazione immaginata prima
dalla fiction e poi calata, adattata alla realtà così come veniva
trovata al momento sui fronti di battaglia.
Ecco la domanda che corre sotto queste considerazioni e arriva alla
fine del viaggio nell’America ancora prigioniera del trauma
dell'11 settembre: la fabbrica delle immagini, ovvero la
contemporanea macchina mediatica, è organizzata al punto da
prepararci allo spettacolo “improvvisato” della realtà?

Per i telegiornali, subito dopo il trauma del
9/11, è stato automatico sovrapporre le nuvole di calcinacci e di
morte a quelle di un film recente, Independence Day. La fiction
aveva già “visto” che nella grande, “invulnerabile” New
York qualcosa di tremendo poteva accadere, seminando distruzione e
panico. Ma questa fiction , benché “suggestiva” e carica di
effetti speciali, mostrava una minaccia proveniente da altri
pianeti, secondo la mentalità dura a morire di una fantascienza
allucinata, reticente, un po’ confusionaria, una fantascienza
capace di “invocare” e “convocare“ dallo spazio i nemici
dell’America, paese della libertà, per non pronunciarsi su quelli
più a portata di mano. Negli anni della guerra fredda quante volte
i marziani sono stati presentati da Hollywood come dei sovietici
mascherati?
La fantascienza, con la “guerra infinita” ribattezzata “pace
duratura”, è stata sconfitta e non potrà cercare nei nuovi
fondamentalismi musulmani il surrogato per le sue storie di invasori
misteriosi e capaci di provocare stragi. Lo spettacolo sarà sempre
più improvvisato. Né il cinema, né la Cia né l’Fbi sono stati
in grado di arrivare primi o comunque in tempo rispetto all’atto
di un kamikaze.
E’ chiarissimo. New York non è quella di Independence Day e non
è neppure quella cantata in uno splendido bianco e nero nel 1979 in
Manhattan di Woody Allen o quella di due anni prima cara a Martin
Scorsese New York, New York, approdo romantico dopo la città
butterata dalla trivialità criminale dei precedenti Taxi Driver e
Mean Streets. Il mito della città dei grattacieli è stato creato,
e forse soffocato, dalle migliaia e migliaia di chilometri di
pellicola che l’hanno creato e diffuso.
La New York che ho trovato ,al termine del mio viaggio nell’America
più lontana geograficamente ma non psicologicamente dal fulcro del
disastro, sfugge il mito; sembra averne avuto abbastanza e chiudersi
in una silenziosa volontà di durare nelle cose di tutti i giorni.
Si tratta di una volontà tenace affiorata di fronte prima alle
macerie e alle urne cinerarie del Ground Zero e poi allo spiazzo
vuoto che è rimasto e che le simboliche torri di luce lanciate
verso il cielo fanno sembrare ancora più lancinante. Se le torri
gemelle erano la dimostrazione del trionfo del capitale nella
libertà, ora che non ci sono più diventano sempre più un obbligo
senza alternative immediate, senza possibilità di fuga. Fuga nei
grandi magazzini e quindi nel benessere a prezzi abbordabili, fuga
negli spettacoli del Radio City Music Hall (tempio di un paese che
si abbarbica alla adolescenza duratura), fuga nelle storie del
cinema che placano l’ansia. Ci potranno anche essere tutte queste
fughe, e ci sono. Ma provate a chiedere a un newyorchese se la
città assomiglia a quella che era prima. Affiorerà l’obbligo del
disincanto.
E ci saranno sempre una foto, un filmato, uno spezzone di cronaca
mai vista, una angolazione particolare delle riprese, una
testimonianza assolutamente originale e inedita, venuti in apparenza
dal nulla, dalla anonima macchina mediatica ad opera di qualche
operatore sconosciuto, per ricordare questo obbligo del disincanto.
L’ultima domanda è: duraturo?
(8- Fine)
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